DI FABIO FALCHI
cpeurasia.eu
Nel 1981 il ministro del Tesoro, Nino Andreatta, inviò una lettera al governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, in cui riconosceva alla nostra banca centrale di non avere più l’obbligo di acquistare, emettendo valuta, i titoli del debito pubblico non collocati sul mercato. La classe politica italiana rinunciava così alla sovranità monetaria, in apparenza per ragioni tecniche, ovvero per ridurre l’inflazione, in realtà – dato che era impossibile diminuire, negli anni Ottanta, la spesa pubblica senza sfasciare il sistema sociale (sarebbe stato come se un’automobile lanciata a 200 km/h avesse dovuto fare all’improvviso una inversione ad “U”) – quello a cui si mirava era un cambiamento di strategia, che attribuisse al “mercato” il ruolo di giudice supremo dell’operato economico e politico dello Stato.Di fatto, si erano poste le basi, senza che quasi nessuno se ne rendesse conto, per avviare un processo di “involuzione” politica e culturale che avrebbe consentito, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la liquidazione per via giudiziaria del vecchio ceto politico, di svendere il patrimonio pubblico e strategico del Paese, dato che la conseguenza del divorzio tra Tesoro e Bankitalia fu una crescita abnorme del debito pubblico, che all’inizio degli anni Novanta era incompatibile con l’ingresso dell’Italia nella futura Eurozona. Sicché fu facile – in specie dopo che Ciampi ebbe a dilapidare le nostre riserve valutarie per difendere, senza riuscirvi, la lira da un attacco dei mercati finanziari “pilotati” da George Soros – convincere l’opinione pubblica che era necessario tagliare e (s)vendere per eliminare il debito. Nondimeno, come ormai sanno tutti, anche se vi furono avanzi primari (cioè al netto degli interessi) di centinaia di migliaia di miliardi di lire, nulla di ciò si ottenne, anche a causa dell’aumento dei tassi d’interesse (aumento che anche oggi è in grado di far fallire qualsiasi manovra e di vanificare qualsiasi sacrificio). In compenso, il Paese, seguendo il “nuovo corso” della politica (quella che, per chiarezza ed economia di linguaggio, si potrebbe denominare la “politica del Britannia”) non solo scelse di privarsi quasi del tutto dei suoi “mezzi strategici”, allorquando ne avrebbe avuto più bisogno, ma pure di “internazionalizzare” il proprio debito, che, anche dopo i “Bot people” degli anni Ottanta, era nelle mani di famiglie e banche o istituti finanziari italiani (secondo dati di Bankitalia, fino alla metà degli anni Novanta, poco meno del 50% era detenuto da famiglie italiane, mentre oggi circa la metà è posseduto da stranieri).
Scelte decisive, ma che sono rimaste “in secondo piano”, dato che tutta l’attenzione era (ed è ancora rivolta) a sua “Emittenza”, ai suoi intrallazzi e ai suoi conflitti di interessi, mentre il più grande partito comunista dell’Europa occidentale portava a termine la sua lunga marcia nelle istituzioni, senza la benché minima capacità e volontà di analizzare criticamente i motivi del fallimento del “socialismo reale”, ma pronto a candidarsi, con l’appoggio di ampi settori della magistratura, a governare il Paese, per conto dei poteri forti nazionali e “internazionali”, garantendo pace sociale, almeno per qualche lustro, sia pure in cambio del “perdono” per il proprio passato. L’effetto, anche per l’eterogenesi dei fini, è stato quello di trasformare l’Italia in un territorio in cui si combatte da circa due decenni una guerra tra vere e proprie bande di mercenari al servizio dello straniero. Una guerra i cui danni e le cui devastanti conseguenze potrebbero in un non lontano futuro essere paragonati a quelli della tristemente nota guerra gotica, che “infiniti agli italiani mali addusse”. Anche perché nel frattempo si sono originati fenomeni d’imbarbarimento in ogni ambito della vita pubblica: un degrado sociale, culturale, istituzionale e morale, che – ed è ancora più grave – viene pure considerato da molti quasi del tutto “normale”, vuoi per il diffondersi tra tutti i ceti sociali di un cinismo e di un individualismo ripugnanti, vuoi perché si sono distrutte le basi di un sistema educativo che avrebbe avuto bisogno sì di essere cambiato, ma per formare una nuova classe dirigente e un’opinione pubblica degne di questo nome, anziché per copiare (tra l’altro male) modelli stranieri, senza preoccuparsi nemmeno di difendere la propria identità culturale, lasciando che sparisse quella cultura politica, o meglio quel sapere strategico e quell’intelligenza critica senza i quali, soprattutto per un Paese europeo, nessuno sviluppo è possibile. Si tengano presenti inoltre la “fuga” di migliaia di giovani ricercatori, la mancanza di materie prime, la debolezza militare, il pressappochismo e la tradizionale furbizia dalle gambe corte che contrassegnano la vita pubblica della Penisola e allora, sommando il tutto al degrado generale, si comprende perché non passa giorno senza che gli “alleati” ci diano sonori ceffoni, con il beneplacito di un’opposizione che non avendo alcun programma alternativo né alcuna idea di autentico rinnovamento sociale e politico altro non sa fare che essere l’altoparlante dei “mercati”.
Ciononostante, sarebbe errato pensare che una élite capace non sarebbe in grado di far leva sui punti di forza del Paese, che indubbiamente ci sono ancora, se è vero che anche ricerche scientifiche, che usano metodi che non favoriscono certo l’Italia, mostrano che il problema italiano non sono gli “input”, bensì “l’output”. Vale a dire che la “struttura” è ancora integra e forte, non solo quella economica e produttiva, ma anche quella, per così dire, “antropologica”. Ciò che manca è la capacità politico-strategica di trasformare questi “input” in un disegno strategico coerente, di medio-lungo termine, tale da coinvolgere l’intera comunità nazionale. Comprendere questo, equivale allora a comprendere che la questione del debito sovrano potrebbe diventare l’occasione per rimettere in discussione, non solo la politica italiana, ma anche quella europea, che si è già rivelata fallimentare.
Epperò è proprio la storia recente del nostro Paese a provare che non deve (né può) essere l’Economico a guidare il Politico, come pensa Mario Monti, ma che è vero proprio l’opposto. Se oggi l’Italia ha perso gran parte delle proprie risorse strategiche (umane e non) lo si deve, è vero, al fatto che mentre l’opinione pubblica faceva il tifo per la destra o per la sinistra, entrambi gli schieramenti attuavano (o non ostacolavano) il programma dei tecnocrati “sedicenti” europeisti, ma anche e soprattutto al fatto che, rimasta una sola superpotenza, quest’ultima cercava di ridisegnare gli equilibri mondiali in funzione degli interessi dell’oligarchia finanziaria atlantista, mutando la lotta politica nel nostro Paese in uno scontro tra fazioni disposte a tutto pur di assicurarsi i favori della “manina d’oltreoceano”, nonostante che per l’Italia (e, in verità, per l’Europa) fosse giunto il tempo di gettar via le stampelle “prestate” dal potente alleato e di muoversi con le proprie gambe, prima che Washington potesse usarle come bastoni per stabilire un nuovo ordine mondiale. Perciò, fallito il tentativo di imporre un modello unipolare e passati alla geopolitica del caos, non stupisce che ancora una volta l’Economico “mascheri” l’azione strategica (quindi politica, anche se si tratta di politica mistificata e mistificante) dei “mercati” e di conseguenza della potenza capitalistica predominante e dei suoi sicari. Quel che oggi si chiede ai Paesi europei è la definitiva rinuncia al Politico; rinuncia che invece è la prima causa, insieme con il mutamento degli equilibri geopolitici a livello planetario, della crisi finanziaria ed economica che attanaglia l’Occidente. Non è quindi la crisi dell’Italia che rischia di far affondare l’Europa, bensì è la crisi (geo)politica di questa Ue che rischia di far affondare l’Europa intera.
D’altronde, affermare che in Italia – e a fortiori in Europa – vi sono gli “input” necessari per implementare una strategia di sviluppo capace di risolvere in radice il problema dei debiti sovrani e, in generale, della crisi economica non è naturalmente sufficiente per trovare una terapia efficace. Si può però rammentare che non a caso, nell’antica Atene, Solone, eletto arconte con poteri straordinari per eliminare un pericoloso focolaio di rivolta che minacciava di degenerare in guerra civile, conducendo alla rovina la Città, decise di annullare i debiti dei poveri verso i più abbienti (in particolare le ipoteche che gravavano su molte terre) e di riscattare a spese dello Stato molti cittadini che erano stati ridotti in schiavitù per debiti, per poi procedere ad un riforma dell’ordinamento istituzionale della polis. Quel che rileva non è tanto il modo in cui Solone risolse il problema dell’indebitamento dei cittadini non abbienti, quanto piuttosto che egli ritenne che fosse impossibile conservare la “salute della città” senza un’azione politica che ne mutasse la forma (le istituzioni) per salvarne la sostanza (il legame comunitario) e, sotto questo aspetto, nonostante la differenza delle condizioni storiche, la lezione di Solone è ancora valida.
Peraltro, l’analisi geopolitica della cosiddetta “seconda Repubblica” mostra chiaramente come alcune scelte di “natura tecnica”, anche ammesso e non concesso che siano prese in perfetta buonafede, interagiscano con la politica mondiale, rivelandosi spesso, con il passare degli anni, le decisioni politiche che contano. Mutatis mutandis, l’Ue si trova in una situazione analoga a quella dell’Italia all’inizio degli anni Novanta. E coloro che vogliono affidare tutto il potere alla Bce, sono perlopiù proprio coloro che sono i massimi responsabili dei guai finanziari (e non solo finanziari) dell’Italia. Purtuttavia, adesso sono coinvolti tutti i Paesi europei e specialmente la Germania, il cui “nanismo” politico è perfino più preoccupante della ottusità e della miseria intellettuale dei politici italiani, mentre ora più che mai si dovrebbe badare non solo a quello che potrebbe succedere se l’Italia dovesse cadere, bensì a quello che succederà se l’Europa non saprà affrontare politicamente questa crisi, senza lasciarsi condizionare dal “debito” nei confronti dei “liberatori”, dacché questo “debito”, se veramente c’era (ed è assai dubbio), è stato pagato per intero e con gli interessi.
Pare lecito pertanto concludere che -anche se spaccare vetrine e incendiare automobili, indipendentemente da ogni altra considerazione, è il modo migliore per inimicarsi chi potrebbe, dovrebbe e forse vorrebbe cambiare lo “stato delle cose”, ovvero una parte di quei ceti medi che sono i primi pagare il costo della crisi, e ben poco si può sperare da chi ha voluto o approvato l’aggressione della Nato alla Libia – i tempi sarebbero maturi per una rifondazione dell’Unione europea, anzi non ci sarebbe da perdere tempo. Purtroppo però si deve anche ammettere che non sembra siano “politicamente maturi” gli uomini cui sono affidate le sorti dell’Europa, benché ciò non implichi che si debbano condividere le loro scelte o essere loro complici. Comunque sia, i prossimi mesi, con ogni probabilità, ci diranno se vi sono perlomeno politici europei che, pur non avendo la testa tra le nuvole, sono capaci di guardare “oltre la linea”. Il che, casomai si dovesse verificare, certamente non sarebbe una rivoluzione geopolitica, ma potrebbe essere la premessa di qualcosa di simile.
Fonte: È tempo di non perdere tempo
21.10.2011