E SE PER USCIRE DALLA CRISI SERVISSE UNA GUERRA ?

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DI MAURO BOTTARELLI
ilsussidiario.net

Autobomba a Londonderry, la violenza torna nell’Irlanda del Nord pacificata a suon di miliardi di sterline dalla devolution voluta da Tony Blair. Non preoccupatevi: l’MI5, il servizio segreto interno britannico, lo diceva da giorni che le minacce in tal senso erano chiare. Modalità classica dell’atto simbolico: telefonata anonima in codice un’ora prima dell’esplosione, evacuazione del luogo, intervento degli artificieri, un bel botto e tutto finito.

Non pensate al ritorno dei “troubles” degli anni Settanta-Ottanta: preparare un’autobomba in Irlanda del Nord è come preparare un caffè in Italia. Piuttosto, è il timing a far riflettere. Esattamente come quello che vede il Dipartimento di Stato americano mettere in guardia per il rischio di attentati in Europa, allarme rilanciato due giorni fa da Fox, più che una televisione la centrale della contro-informazione repubblicana e delle grandi consorterie.Di colpo, dopo mesi e mesi di silenzio, è tornato a farsi sentire anche Osama Bin Laden, il placebo di ogni paura, il principe di ogni emergenza. E sempre nelle stesse ore, l’oro ha toccato i massimi storici a 1331 dollari l’oncia, con i caveau che si riaprono e gli investitori che si gettano a capofitto: i grafici parlano di un punto di resistenza a 1355 dollari l’oncia, quindi il rally non appare ancora molto lungo. Come mai?

Forse perché la corsa verrà congelata da qualcosa che permetterà al metallo aureo di compiere fino in fondo il suo ruolo di bene rifugio che tesaurizza le crisi. C’è un forte rischio all’orizzonte: una nuova guerra, reale o minacciata poco cambia. L’ipotesi di un’opzione bellica contro l’Iran, infatti, sta smettendo di essere il chiodo fisso solo degli apparati militari e civili intermedi statunitensi e sta per trasformarsi nel main issue per riuscire a far ripartire il paese, devastato dal debito pubblico, dalle banche ancora piene di assets tossici ed esposte alla leva e dalla politica suicida della Fed. C’è infatti una costante nella storia economica degli Stati Uniti da più di un secolo a questa parte ed è la stretta correlazione tra interventi militari e ripresa dell’economia: guardate i grafici allegati e lo capirete da soli, pensate che istituti governativi come il National Bureau of Economic Research parlano chiaramente di “wartime expansions” nelle bibliografie dei loro studi grafici.

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Il nesso tra guerra ed espansione economica è quindi accertato e assolutamente ricorrente, a partire dal secondo conflitto mondiale che fu la reale dinamo della ripresa Usa dopo la crisi del ‘29. Lo ha confermato un paio di anni fa, il premio Nobel per l’economia, Peter North: «Non siamo usciti dalla depressione grazie alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda guerra mondiale». Durante il New Deal rooseveltiano la spesa pubblica civile era cresciuta dai 10,2 miliardi di dollari del 1929 ai 17,5 del 1939, peccato che nello stesso periodo, il Pil calasse da 104,4 a 91,1 miliardi di dollari e la disoccupazione salisse dal 3,2% al 17,2% della forza lavoro complessiva.

Dal 1939 lo scenario cambia: il sistema economico è dapprima tonificato dalla vendita di armi agli inglesi e ai francesi (ma anche ai nazisti) e poi definitivamente rimesso in carreggiata con l’ingresso diretto degli Usa in guerra, Pil in crescita e disoccupazione a zero. Stesso discorso per la guerra di Corea, panacea per combattere il ritorno in recessione degli Usa nel 1949. Nell’estate dell’anno dopo, l’esplosione del conflitto garantisce una fortissima spinta al riarmo: i Paesi della Nato triplicano in soli 3 anni le loro spese militari, che passano infatti dai 38 miliardi di dollari del 1949 ai 108 miliardi del 1952.

Ma la parte del leone la fanno gli Stati Uniti, le cui spese militari nel biennio 1952-1953 giungono al 15% del Pil. Altra crisi, altra guerra, altro regalo. Nel 1961, quando John F. Kennedy raggiunse la presidenza, gli Usa erano da tempo in piena crisi economica. La risposta fu quella dell’aumento della spesa pubblica, peccato che ci si dimentichi di aggiungere è che l’82% di questo incremento fu ascrivibile alle spese militari: il valore delle armi vendute dagli Usa aumentò in 6 anni di ben sei volte. Ma sarà in particolare la guerra del Vietnam – e le relative spese militari, tornate a superare il 10% del Pil – a ridare slancio all’economia americana. Che infatti, a partire dal 1964, conoscerà una delle più lunghe fasi espansive della sua storia (sfuggendo alle recessioni che in quegli stessi anni attanagliano l’Europa).

E poi la presidenza Carter con l’occasione offerta dall’invasione sovietica dell’Afghanistan (24 dicembre del 1979): già nel numero di Business Week del 21 gennaio 1980 si parlava esplicitamente di “New cold war economy” e si ipotizza una sensibile crescita della spesa per armamenti. Cosa che avvenne puntualmente. Ma l’accelerazione divenne frenetica con l’arrivo di Ronald Reagan e la creazione di un nuovo incubo bellico, le guerre stellari a cui opporre lo “scudo stellare”. Le spese per la difesa aumentano dal 1981 al 1985 del 7% all’anno, mentre la quota delle spese militari all’interno del bilancio federale cresce dal 23% al 27%: ancora una volta, le spese per gli armamenti vengono giocate in chiave recessiva.

Ma la fine dell’Urss e della contrapposizione tra i blocchi non ferma la logica del “warfare bettere than welfare”: il “grande satana” non è più il comunismo ma Saddam Hussein, ex grande alleato dell’Occidente nella guerra contro l’Iran, che nell’agosto del 1990 ha la geniale intuizione di invadere il Kuwait. La risposta è una guerra, dapprima attraverso bombardamenti, poi con un intervento terrestre diretto dell’esercito americano (16 gennaio-28 febbraio 1991). In questo caso, la guerra è un toccasana non solo per l’industria bellica, visto che attraverso la missione gli Usa consolidano la presa sulle risorse petrolifere del Golfo Persico.

Il politologo americano, Samuel Huntington, l’inventore dello “scontro di civiltà”, sintetizzò così la posta in gioco e i risultati della guerra: «Al termine del conflitto, il Golfo Persico era diventato un lago americano». Il mese successivo alla fine della guerra non solo si concluse l’ultima recessione americana (tolta quella attuale, ovviamente), ma per l’ultima volta gli straindebitati Stati Uniti poterono vantare un avanzo delle partite correnti, qualcosa come 3,7 miliardi di dollari. E poi, la prima grande guerra dell’epoca della lotta al terrore.

«Che cosa può ridurre drasticamente il deficit delle partite correnti americane, e per questa via eliminare i rischi più significativi per l’economia degli Stati Uniti e per il dollaro? La risposta è: un atto di guerra». Questo è il testo di un report di Morgan Stanley, caricato sul sito dell’azienda alle 7.30 di martedì 11 settembre 2001: un’ora dopo, i dipendenti della banca d’affari conobbero quell’atto direttamente nei loro uffici situati nelle Twin Towers. Insomma, la guerra – o meglio, la paradossale necessità di una guerra come dinamo economica – era nell’aria prima dell’attacco contro New York e il Pentagono. Nel gennaio del 2001 un report del Foreign Policy in Focus avvertiva che le spese militari americane erano risalite, dai 291 miliardi di dollari del 1998 ai 310 miliardi di dollari previsti per il bilancio 2001: tale ammontare equivaleva al 90% circa della spesa media sostenuta dagli Stati Uniti negli anni della guerra fredda ed era pari al 16% del totale delle spese previste dal bilancio americano (e al 50% di quelle discrezionali). Non solo: la cifra spesa dagli Usa per gli armamenti era maggiore di quanto spendevano per tale voce tutti gli alleati e tutti i possibili “nemici” degli Usa messi insieme. E adesso, sosteneva il rapporto in chiusura, «molti americani si interrogano sull’utilità di dare ulteriore risorse a questo settore, in assenza di minacce credibili alla sicurezza degli Stati Uniti ed alla relativa pace che prevale nel mondo».

Pochi mesi e la necessità si è palesata. Anche perché le spese militari sono a tutti gli effetti una forma di spesa pubblica per il rilancio dell’economia: rappresentano una forma di deficit spending, ossia una delle forme attraverso cui lo Stato finanzia l’economia (nel caso, anche indebitandosi) e rappresentano soprattutto la forma più conveniente. Il warfare, chiamiamolo “stato di guerra”, è infatti facilmente spendibile anche in chiave keynesiana, visto che di fronte alla sicurezza nazionale nessuno opporrà pregiudiziali liberisti di intrusione statale nell’economia. Inoltre, le spese per gli armamenti intervengono sull’economia in maniera oligopolistica visto che il settore è protetto dalla concorrenza straniera: in tal modo i sussidi alla Difesa non devono fare i conti con altri soggetti e i loro effetti si traducono invariabilmente in commesse per le imprese americane.

Basti pensare all’esempio della gigantesca commessa per la fornitura del nuovo caccia militare “Joint Fight Striker” e allo “strano” atteggiamento tenuto recentemente dagli Usa verso Finmeccanica. Detto questo, poi, l’indotto delle aziende alimentate dalla spesa bellica è molto più ampio di quello delle imprese che producono armi in senso stretto, basti pensare al gigante del cibo in scatola Campbell, reso tale dalle commesse belliche e non dai fagioli al sugo stufati usati per le colazioni. Pensiamo poi al settore aerospaziale, l’industria dell’elettronica (hardware e software) e l’industria dei nuovi materiali: non a caso, dopo l’attentato delle Twin Towers i titoli di molte società informatiche sono cresciuti in poche settimane anche del 30-40%.

E che dire del fatto che, stando ai dati dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici, gli Usa nel 1998 hanno prodotto oltre il 40% delle armi vendute nel mondo? O del fatto che negli Stati Uniti il settore militare gode, sin dal primo accordo Gatt del 1947, della “national security exception”? In altre parole, le pratiche protezionistiche e di sussidi all’export che non sono consentite per gli altri settori, sono invece lecite per l’industria delle armi. E ancora, le armi si possono utilizzare anche “per conto terzi” come accaduto nel caso della Guerra del Golfo, per la quale gli alleati degli americani (tra cui l’Arabia Saudita) hanno dovuto pagare, in qualità di “contributo alle spese”, qualcosa come 189mila miliardi di lire, pari al 90% delle spese sostenute dagli Stati Uniti (guarda caso, nel 1991 la bilancia dei pagamenti americana segnava un attivo).

Infine, un evento bellico è utile anche perché offre un terreno ideale per lo sviluppo di nuove e più sofisticate armi. In Afghanistan è stato sperimentato il missile aria-terra Agm-142, la nuova bomba da 7 tonnellate “Daisy-Cutter” e, soprattutto, è stato sperimentato l’utilizzo di due diversi tipi di aerei teleguidati ad altissima tecnologia, il “Predator” e il “Global Hawk”. Non a caso, in un articolo pubblicato due anni fa sull’Economist, il sottotitolo era il seguente: “Il conflitto in Afghanistan è un campo di sperimentazione per la tecnologia degli aerei privi di pilota”.

Lo scenario prospettato da questo articolo vi inquieta? Perché mai, sono almeno settant’anni che la storia si ripete ciclicamente! Si vis pacem (economica), para bellum. È il capitalismo, bellezze! E tutti noi, volenti o nolenti, ne facciamo parte. Quindi, per favore, bando alle ipocrisie: quelle macchine di morte garantiscono il pane ai figli di milioni di operai americani e rappresentano il prezzo che tocca pagare per ripartire. Se invece preferite aspettare le miracolose ricette di Fed, Fmi e soci…

Mauro Bottarelli
Fonte: www.ilsussidiario.net
Link: http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2010/10/6/FINANZA-E-se-per-uscire-dalla-crisi-servisse-una-guerra-/1/117464/
6.10.2010

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