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La Redazione

 

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E’ POSSIBILE UNA GRANDE GUERRA NEL 2009 ? I PRECEDENTI STORICI

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A cura di Davide
Il 10 Marzo 2009
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DI FREDERIC F. CLAIRMONT
globalresearch.ca/

In queste esposizioni mi arrischierò a rispondere ad alcuni dei punti interrogativi sollevati dalla prospettiva di una guerra di grande portata. Le note a questi studi sono state scritte fuori orario, in un angolo del mio soggiorno. Due grandi lampade illuminano il taccuino su cui traccio queste righe. La mia penna nera scivola senza sforzo lungo la pagina. La considero un’inseparabile compagna di lavoro. È fabbricata in Cina, come pure il taccuino a quadretti.
Uno dei miei colleghi ha sollevato la questione l’altra sera: esiste un qualche prodotto manifatturiero realizzato dal capitalismo americano, che la Cina non possa produrre meglio, in maggior quantità, e a un prezzo notevolmente inferiore?

Non è un esercizio di fantasia. Si tratta dunque di sapere in che modo il capitalismo americano, nella sua condizione attuale di indebitamento, pauperizzazione di massa e disintegrazione finanziaria, riuscirà a competere a livello internazionale. In altri termini: come pagherà i suoi consumi, come pagherà le importazioni? Sarà in grado – gli elementi attuali dicono di no – di ridurre e infine annullare il suo deficit commerciale, esportando più di quanto importi? Inoltre, può il dollaro restare un accettabile mezzo di pagamento e di scambio, nonostante l’eviscerazione a cui è sottoposto da ormai molti anni? L’osservazione di Mahmoud Ahmadinejad, che i verdoni valgono meno della carta igienica usata, è brutale, ma coincide con molte autorevoli opinioni del mondo dwel capitalismo finanziario.
Nelle future esposizioni esamineremo le ramificazioni di questi presupposti. Basti sapere che è una questione di vita o di morte, che ci conduce nei più profondi recessi delle contraddizioni conflittive interne al capitalismo e all’imperialismo [1], e ci darà un’idea più delineata di cosa intendiamo dicendo che la Cina è diventata il fulcro industriale del globo, nonché un’idea di quello che intendiamo quando parliamo di squilibrio finanziario. Ma di questo, più giù.

Le Ramificazioni

Qualcuno fra voi ha evocato la possibilità che un conflitto mondiale si verifichi nel corso del 2009… Non dirò che si tratta di una previsione azzardata o remota. Senza dubbio, quello che molti di voi intendono non è un conflitto regionale, tipo Ossezia o Gaza. E nemmeno escludo la possibilità di un attacco di USA e Israele contro l’Iran. Nello scatenamento di una guerra, il ruolo della follia non si può mai escludere. Teniamo a mente che la casta oligarchica statunitense [US caste oligarchy] (USCO) e il suo braccio militare da un bilione di dollari è in guerra su molti fronti, in aree che comprendono decine di migliaia di chilometri. Conduce una guerra a Gaza, tramite i suoi delegati; conduce una guerra in Iraq; e naturalmente sta moltiplicando il suo impegno militare in Afghanistan; ha esteso il campo di battaglia fino al Pakistan. Ricordiamoci che il Pakistan ha in comune con l’Afghanistan una frontiera di 2500 chilometri.
Questa eventualità non la possiamo ignorare. Come dobbiamo affrontare la questione? Qual è il metodo più adatto? Sono cosciente del fato che scendere nel dettaglio delle potenziali aree critiche ci fornisce singoli punti che però non hanno linee che li uniscano. Restano separati, e non possono fornire un’idea sul possibile casus belli [di un eventuale conflitto]. Comprendo benissimo i vostri ragionamenti. Lo storico deve selezionare i fatti. È una questione di scelte personali. Ma il metodo e lo scopo di queste scelte discendono dal suo principio di selettività, che fa parte di un processo di astrazione.
La selezione e interpretazione degli eventi sono perciò condizionate dalle inclinazioni ideologiche e filosofiche dello storico. Dalla sua appartenenza di classe. Dalla sua esperienza personale. Si può fare una lista di eventi, ma individuare i singoli eventi non ci fornisce il punto d’appoggio per comprendere questi fenomeni complessi. L’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando da parte di un giovane nazionalista serbo [2] fece certamente da casus belli, ma ci dice molto poco se non sbrogliamo la matassa di convulsioni nazionalistiche e rivalità dinastiche che minavano i fondamenti dell’economia mondiale. E non possiamo nemmeno ignorare l’espansione della marina da guerra da parte dell’Impero Tedesco, che sfidava la plurisecolare supremazia della Royal Navy britannica. Come notava Lloyd George, il più scaltro tra i costruttori dell’impero e uno dei principali sicari della Grande Guerra: “Se il 1914 non fosse arrivato quando è arrivato, sarebbe inevitabilmente giunto più tardi”. La parola chiave è “più tardi”. Quello che Lloyd George aveva in mente era che le politiche di potenza del capitalismo finanziario e dell’imperialismo, e l’incontenibile ecatombe che incubavano, erano parte integrante dell’evoluzione del capitalismo mondiale, data la sua incessante avanzata verso nuove sfere di espansione finanziaria e territoriale. Le guerre del capitalismo erano il sigillo della sua politica di espansione [3].

La corsa agli armamenti

Molti di voi hanno sottolineato il fatto la USCO probabilmente spingerà per un aumento della spesa, per compensare la caduta di domanda nel settore privato, alzando così il livello occupazionale. La formula non è nuova, Ma l’attuale contesto delle relazioni internazionali rende carente questa tesi. La USCO sta già spendendo più del doppio o del triplo di quello che il resto del mondo spende in armamenti. Il SIPRI di Stoccolma, facilmente consultabile in Rete, vi fornirà le cifre esatte [4]. Ma non sono i numeri a interessarmi, al momento.
La USCO e i suoi lacchè militari sono in guerra permanente fin dal 1945. Questo include il suo ruolo nella guerra civile cinese che si concluse nel 1949, in Indocina a partire dal 1945, in Corea, due volte di seguito in Iraq, eccetera. Le sue guerre coloniali, combattute esclusivamente contro popoli di colore, hanno condotto l’economia degli Stati Uniti alla bancarotta.
Secondo l’ultimo conteggio, ci sono 250 basi militari al di fuori del territorio degli USA. Gli USA spendono più di quanto guadagnino. Sono il più grande mendicante del mondo. Spende soldi che altri hanno avuto in prestito. Soltanto in Iraq, secondo le valutazioni di Stiglitz [5], siamo arrivati a 3,5 bilioni di dollari, e la guerra non è ancora finita. In queste guerre sono state massacrate milioni di persone. Gli USA stanno combattendo guerre in Iraq, Afghanistan e Pakistan, e l’attacco di Israele contro Gaza, così come in Libano, sarebbe stato inconcepibile senza l’appoggio statunitense. Tutto questo è scontato. Aggiungiamo che le bombe al fosforo usate a Gaza sono fabbricate in Virginia. I proiettili di artiglieria all’uranio vengono fabbricati in Tennessee. I bombardieri erano F 18 di fabbricazione americana. Gaza è stata un ulteriore campo di prova per le armi di assassinio di massa degli USA. E siamo a quota quattro guerre. C’è chi sottolinea giustamente che le guerre, e la loro preparazione, incrementano la produzione e l’occupazione. Quello che interessa, qui, è la natura di questa produzione, e il relativo impatto occupazionale.
Questa natura è sterile, e non aumenta affatto le capacità produttive.
È stato sicuramente il caso del Terzo Reich di Hitler, nel quale le spese militari produssero un’espansione che riassorbì le masse di disoccupati. E naturalmente i disoccupati avrebbero potuto trovare impiego nella Wehrmacht, trasformandosi in carne da cannone. È stato il caso del regno Unito, dal 1937 in poi. Come ben sapete, i cambiamenti portati dal New Deal di FDR, ammirevole ma per molti versi ingannevole, non hanno abbreviato la Grande Depressione. Il risultato fu ottenuto da massicce spese militari nel settore pubblico, finanziate dal debito.
Lasciatemi ribadire che ciò che pose fine al diabolico rovescio innescato nel ’29, fu lo scatenamento della II Guerra Mondiale. Si può quindi suggerire che la guerra, insieme con la sua preparazione, offra la “soluzione finale” per raggiungere la piena occupazione? Nel caso del capitalismo statunitense la risposta inequivocabile è no. Le spese belliche – sostenute dai prestiti esteri e voragini debitorie in perpetua espansione – pongono le basi per una corruzione endemica, indebitamenti e fallimenti collettivi, con tutti i loro venefici corollari. I debiti del capitalismo americano – del governo, delle imprese, delle famiglie – non verranno mai ripagati. Non possono. Con l’economia che collassa giorno dopo giorno, la USCO non ha i mezzi per pagare i propri debiti. Si profilano fallimenti su scala ciclopica.
Si potrebbe sostenere che saranno le entrate dei produttori di armamenti ad aumentare. Ma per quale settore questo si verificherebbe? Per quale singola impresa? Se ci prendiamo la pena di esaminare le quotazioni di tutti i grandi produttori di armamenti, tipo la Lockheed nello Standard & Poor’s e nel Dow Jones Industrial Average (DJLA), si scopre che introiti e profitti sono in declino, così come il prezzo delle azioni.
Data l’alta capitalizzazione della moderna produzione bellica, l’immissione di forza lavoro si riduce drasticamente. La produttività (data dal rapporto tra entrate e uscite) e cresciuta verticalmente, col risultato di una minor necessità di manodopera e un collaterale crollo dei salari. Penso che i bilanci di queste industrie siano piuttosto malmessi, anche se non come quelli del settore finanziario. La conclusione mi sembra ovvia: lo “stimolo” [stimulus plan], o, come veniva chiamato all’inizio, “attivare i fondamentali” [pumping the prime], non risolverà la situazione.
Torniamo alle cifre citate da Stigliz.
Solo in Iraq, la spesa è di 3,5 bilioni di dollari. Da dove arriva questo denaro? Dai prestiti. Come ho ripetuto diverse volte in queste conferenze, l’economia capitalistica mondiale è entrata in una fase di deflazione e stagnazione, o “defstag”, come la chiamo io. La USCO vive di tempo e denaro presi in prestito da altri, un’abbuffata parassitaria pagata dal 70% del risparmio mondiale, una situazione palesemente insostenibile, anche a breve termine.

Israele e il Medio Oriente

Sospetto che sia corretto supporre che Gaza sia un’area troppo ridotta per essere considerata un probabile catalizzatore di un grande conflitto mondiale. Le dimensioni, tuttavia, non sono l’unico parametro di riferimento. Anche la Serbia del 1914 era un’entità geo-demografica assai ridotta. Ma provvide ugualmente il casus belli, per cui non è il solo fattore da considerare: dobbiamo guardare alle entità più grandi che vengono messe in moto. Gaza e Israele sono segmenti di un impero più grande, che si sta contorcendo nei suoi spasimi terminali. L’obbiettivo dell’attacco feroce di USA-Israele è l’annientamento di Hamas, così come in Libano era l’annientamento di Hezbollah. Hanno miseramente fallito. I cittadini dello stato sio-fascista hanno applaudito lo stupro di Gaza. Eccoci dunque arrivati al ruolo nella storia, non di forze astratte, ma degli individui. Netanyahu, esponente dichiarato dell’incessante sterminio degli arabi, è riuscito a scalare la vetta sdrucciolevole di uno stato che esso stesso è lacerato da divisioni etniche e di classe.
Il suo discorso a Davos, come quello di Olmert, è qualcosa di più del berciare di un politicante teso alla distruzione degli arabi, di quello che i suoi galoppini chiamano “Hamastan”. I suoi discorsi, come quelli di Lieberman, si possono trasformare in realtà. Netanyahu/Lieberman potrebbero distruggere l’intero Medio Oriente, compreso lo stato ebraico. Con questo intendo anche che così si arriverebbe alla fine del sig. Obama e, mi permetto di dire, alla sua distruzione politica, dato il potere indiscusso delle lobby sioniste. Il sig. Obama è un politico fragile, e le incontrollabili convulsioni del capitalismo, in patria e all’estero, lo getteranno in mezzo a un mare in tempesta.
Sappiamo bene chi sia il duo Netanyahu/Lieberman. Nei loro progetti non c’è nulla di nebuloso. “La mia più grande priorità,” tuona Netanyahu “è l’Iran”. C’è bisogno di aggiungere altro? Obama ha valutato fino in fondo il significato di questa dichiarazione? In essa non c’è nulla di criptico. La posizione incontrastata del duo all’interno delle lobby sioniste, come all’interno delle alte sfere della USCO, è molto importante. Per cui non possiamo ignorare la possibilità che nella loro disperazione possano scatenare una guerra di più vaste proporzioni. E il corso degli eventi non resterebbe confinato alla regione.
L’obbiettivo dell’imperialismo statunitense, congiunto con quello israeliano, è la distruzione dell’Iran, alleato sia di Hamas sia di Hezbollah. Non si tratta di una speculazione, ma di una politica espressa esplicitamente. Il Primo Ministro iraniano ha già mosso le sue pedine. La partita è iniziata. Il lancio di satelliti [da parte dell’Iran] introduce nei nostri calcoli nuove e inquietanti variabili.
Può Israele adattarsi a coesistere con Hamas e un mondo sempre più attivamente antisionista e antiamericano?
Il cambio di tono all’interno del mondo arabo che si può leggere nell’inequivocabile articolo scritto per il Financial Times da un membro della casa reale saudita – una mente molto acuta – suggerisce che la marea sta cambiando. Le strade arabe sono una realtà. Sono piene di rabbia, e la rabbia cresce giorno dopo giorno. Sono piene di disoccupati. Sono piagate dalla povertà, eppure raggiunte da un’Al Jazeera da 140 milioni di spettatori. Un tirapiedi come Mahmoud Abbas non è che uno spettro, e il suo potere è completamente svuotato. Anche lui era a Davos, e il suo discorso, come quello di Karzai, era stato scritto dai suoi papponi americani [6]. La dirigenza israeliana aveva sondato Bush sulla possibilità di sorvolare il territorio iracheno per bombardare le istallazioni nucleari iraniane, e aveva ricevuto un rifiuto. Se ne parlò sul New York Times. La cabala di Bush oppose loro un rifiuto non per ragioni umanitarie, ma perché per una volta si rendevano conto delle conseguenze su larga scala. Ricorderete anche che Hillary Clinton, attuale capo del Dipartimento di Stato, ha avuto il fegato di affermare, durante la campagna elettorale, che avrebbe potuto annientare l’Iran. Non è il momento di discutere le implicazioni di questo progetto genocida. Le posizione di Bush e Obama su un attacco contro l’Iran sono identiche.
L’Iran ha messo in chiaro di voler procedere all’arricchimento dell’uranio per uso civile, e la Russia completerà entro quest’anno la costruzione dell’impianto nucleare di Bukwear. Negli scacchi non è sufficiente decidere come muovere, ma è necessario prevedere anche le mosse dell’avversario.
La sciatemi affrontare un altro, non meno significativo, punto critico. Si tratta delle relazioni tra USA e Cina, che hanno raggiunto nuovi picchi di tensione commerciale, a dispetto delle tiritere che affermano il contrario.

La Cina e gli Stati Uniti

Prima di proseguire nell’esame della possibilità che le tensioni in aumento, commerciali e finanziarie, possano condurre a un letale confronto bellico, dobbiamo comunque rievocare la natura delle rivalità commerciali e le armi dispiegate nelle guerre economiche degli anni 30.
Il discorso del Presidente cinese a Davos, molto sferzante nei confronti degli USA (come quello di Putin), è indicativo della direzione presa dalla guerra economica. Davos è il perno della globalizzazione. È la cabina di comando del potere corporativo, dei leader e aspiranti leader mondiali. Davos ha evidenziato la miserevole fragilità delle istituzioni finanziarie, un tempo viste come la colonna portante del sistema.
Parole come “stabilità” e “fiducia” sono scomparse dal loro vocabolario. La resa dell’UBS [7] e della City, il terremoto che continua a scuotere Wall Street, uniti alle spettacolari truffe di un Madoff o di uno Stanford [aggravano il clima]. La rabbia non può più essere contenuta, non più di quanto la si possa reprimere nelle massicce dimostrazioni di lavoratori a Parigi, in altre città francesi e nella neo-colonia di Guadalupe. La tensione sta salendo. È qualcosa che va al di là delle politiche protezionistiche [8] concepite per la prima volta da Joan Robinson [9] negli anni 30.
La natura di questi conflitti non è mai stata illustrata meglio che da Sir Percy Bates, presidente della Cunard Steamship Company (aprile 1935) in un periodo in cui la Grande Depressione imperversava. La rilevanza che hanno oggi queste parole è ovvia:
“Stiamo vivendo una guerra… Le armi che vengono utilizzate non sono navi, eserciti, aerei, ma tariffe, quote e valute. Non c’è uno standard monetario riconosciuto internazionalmente, e ogni volta che una tariffa, una quota o una valuta variano, ci si trova di fronte a una manovra, una manovra ostile, una manovra militare. La cosa peggiore è la riluttanza ad ammettere ufficialmente che ci troviamo in uno stato di guerra.”
Mentre i passi dell’attuale crisi suonano sempre più pesanti, il capitalismo non ha più la forza di scalare le pareti del pozzo della defstag. Una situazione che peggiora di ora in ora. La guerra globale per il controllo dei mercati e del mercato azionario continua a ritmo serrato. Questo si rispecchia nelle relative prestazioni economica di USA e Cina, che è diventata il fulcro della produzione manifatturiera mondiale. Di contro, la USCO è in preda all’agonia della disaccumulazione del capitale e al declino dell’industria di base. Così come nel Regno Unito, la sua base industriale, una volta tanto potente, è stata eviscerata. Diamo uno sguardo alle cifre, per osservarne le divergenze e scoprire quali di esse indicano le tensioni che potrebbero condurre a una guerra.
Queste cifre comparative sono rivelatrici. Ricordate che la Cina ha ormai scalzato la Germania nelle classifiche dei PIL mondiali, divenendo la terza in graduatoria, dopo USA e Giappone. Col disfacimento dell’indebitato capitalismo nipponico, a un passo dalla crescita zero, [la Cina] si predispone a mandare il Giappone nel sottoscala della storia. Prendiamo in considerazione per primi i maggiori indicatori (2008) degli USA, e confrontiamoli con quelli cinesi:

USA: PIL (+0,9% [rispetto all’anno prima]); Bilancia Commerciale (- $ 833 miliardi); Saldo delle Partite Correnti (- $ 697 miliardi); Produzione Industriale (-7,8%)

CINA: PIL (+9,1%); BC (+$295 miliardi); SPC (+$371 miliardi); PI (+5,7%)

Le cifre evidenziano la sempre maggiore disparità economica tra i due paesi. Confesso di non avere idea se nel prossimo futuro queste distanze abissali potranno mai accorciarsi. Ma concentriamoci sul solo commercio estero. Le importazioni degli USA crescono più delle esportazioni. Il capitalismo statunitense sta cadendo in una spirale deflazionaria che ricorda il cosiddetto “decennio perduto” giapponese degli anni 80 [10]. Certo, la crescita cinese è contrastata dalla crisi mondiale, ma lo stesso procede molto più in fretta di quella USA. Il tasso di crescita annuale composto [degli investimenti] può essere una forza a un tempo costruttiva e distruttiva. Questo è un punto che, ricorderete, ho toccato nella trattazione della bilancia dei pagamenti USA all’interno del mio libro su Cuba, e vi invito a rileggere quella parte. Il rapporto tra importazioni ed esportazioni [negli USA] è di 1,5.
Si tratta di uno iato incolmabile. Quindi la USCO, per finanziare le importazioni, deve ricorrere ai prestiti. Prestito significa debito. E il debito, coi suoi interessi, si paga, altrimenti si dichiara fallimento. La Cina ricicla il suo surplus commerciale acquistando titoli e buoni del tesoro statunitensi. È una storia ben nota. Stabilire se l’élite politica cinese continuerà a riciclare i guadagni del commercio estero per puntellare i deficit USA resta problematico.
Il capitalismo americano è ormai da due decenni il maggior debitore del mondo. Il suo più grande creditore è la Cina. Le dimensioni delle cifre è rilevante. Le riserve di valuta e titoli esteri della Cina, che ammontano a 2000 miliardi di dollari, sono le più grandi del mondo. Molte di queste riserve vengono utilizzate per acquistare titoli di stato statunitensi. Secondo le stime di Brad Selser, in realtà la cifra si aggira sui 2300 miliardi di dollari, cioè all’equivalente di 1600 dollari per ogni cittadino cinese.
Di questa cifra, 1700 miliardi vengono investiti in beni pagati in dollari, il che rende la Cina il maggior creditore del capitalismo americano, e il secondo maggior compratore di buoni del tesoro statunitensi. [Il capitalismo americano] è dipendente totalmente dal denaro cinese. Mai nella sua storia la USCO era stata così dipendente da un creditore estero. I recalcitranti all’interno delle alte sfere cinesi sono consapevoli che un flusso di capitali tanto massiccio, riversato in un’economia in difficoltà, che agonizza in una crisi che peggiora sempre di più e i cui prodotti finanziari rendono sempre di meno, comporta dei pericoli.
La Cina ha già perso miliardi. Questo è dovuto al deprezzamento del dollaro, derivato dal crescente indebitamento, dal risparmio in calo, dagli interessi [sui titoli] ridotti a zero, e da un PIL che allo zero ci si sta avvicinando. Senza la cascata di denaro dalla Cina, la USCO sarebbe incapace di perseguire la sua espansione militaristica all’estero.
Quello che possiamo dire è che lo status del dollaro come valuta delle riserve mondiali, che ha conferito un potere “stravagante” (questa l’espressione di de Gaulle [11]) all’imperialismo statunitense, questo status ovviamente non può durare. Al momento i cinesi hanno fori dubbi, ma avendo fatto un patto col diavolo non possono fare granché per cambiare la situazione. “A parte i titoli statunitensi, cosa si può acquistare?” ha chiesto Luo Ping alla Commissione di Controllo Bancario cinese, “Non si acquistano titoli di stato giappopnesi o inglesi. I buoni del tesoro USA sono un porto sicuro. Per tutti, Cina inclusa, sono la sola opzione possibile.”
Questa, dal mio punto di vista, è la tragedia dell’élite al potere in Cina, che presiede a un’economia capitalista che ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere socialista.
Si tratta di una scelta politica che rivela uno schieramento ideologico e di classe. E [i cinesi] hanno già pagato un prezzo tremendo per la scelta politica di essere i benefattori e salvatori del capitalismo americano. Con la crisi del capitalismo in drammatico svolgimento e la continua rovina del dollaro costano agli operai e contadini cinesi (che l’élite al potere ha ormai cessato da tempo di rappresentare) perdite che raggiungono vette sempre più alte. Evitando di usare un gergo tecnico, i proprietari del salvadanaio cinese hanno talmente tanti soldi da non sapere dove investirli, tranne che nei pessimamente redditizi titoli statunitensi.
La battaglia sui tassi di cambio si combatte sui campi di battaglia del mercato dei cambi.

L’Indice Big Mac

Per capire la ragione per cui, secondo me, non può esserci una soluzione amichevole alla guerra commerciale sino-americana, dobbiamo fare qualche accenno alla natura del mercato dei cambi. È qui che la moneta viene venduta e comprata, e viene fata oggetto di feroci speculazioni sul mercato internazionale. Moneta che, ricordiamolo, è la merce delle merci. La Regina delle merci. Il mercato all’interno del quale si conducono queste transazioni viene chiamato Forex.
In un linguaggio poco tecnico, ma molto illuminante, ci rendiamo conto che l’indice dell’Economist si basa sull’idea di parità di potere d’acquisto [purchasing power parity] (PPP). Sarebbe a dire che le valute dovrebbero essere scambiate a un tasso che renda il prezzo delle merci lo stesso in tutti i paesi. Il Big Mac, che costa 3,54 dollari negli Stai Uniti, diventa così il prezzo di riferimento per stabilire se una moneta sia sottovalutata o sopravvalutata.
In Cina, il Big Mac costa 1,53 dollari. È il 40% meno caro [che negli USA]. In Svizzera (utilizziamo tassi di cambio di una singola data) 5,75 dollari, il 60% più caro. Questo è un test grossolano di sottovalutazione e sopravvalutazione. Di qui la nostra conclusione (ripeto: non si tratta del solo modo di valutare le disparità valutarie, ma di certo è il più semplice ed efficace), che il Renminbi (o Yuan) cinese è sopravvalutato del 40% rispetto al dollaro, il che, secondo la valutazione del Tesoro americano, gli concederebbe un vantaggio nelle esportazioni [12]. Il governo statunitense ha già caricato delle tariffe sui prodotti cinesi, accusando la Cina di manipolazione dei tassi di cambio. Un’accusa che prendiamo cum grano salis, dato che il governo degli Stati Uniti e le sua azioni non sono mai stati modelli di moralità.
Il problema del vantaggio competitivo della Cina ovviamente va al di là il tasso dei cambi. Il relativo livello dei salari è altrettanto rilevante. Il livello dei salari nel settore manifatturiero cinese è inferiore del 10% rispetto a quello degli USA. Ma non si tratta solo di una differenza nel costo della mano d’opera. Mettiamoci anche che la produttività industriale della Cina è stata notevole.
La Cina è presente su tutti i mercati mondiali, e il suo commercio con l’estero e i suoi investimenti diretti degli ultimi dieci anni sono schizzati alle stelle, particolarmente in America Latina e in Africa. Australia e tutto il mercato asiatico, per non parlare della Russia. Per chiarirlo, basta un solo esempio. Il fondo di sviluppo economico sino-venezuelano è raddoppiato nel giro di un anno da 6 miliardi a 12 miliardi di dollari. Il ruolo della USCO, dell’Unione Europea e del Giappone, per il Venezuela sono diventati periferici. La conquista cinese dei mercati mondiali continua inarrestabile. Le dieci maggiori nazioni capitalistiche sono già in recessione. Diciamolo senza la minima ambiguità: l’obbiettivo della dirigenza cinese è un’espansione del mercato.

Dinamica della sovraproduzione

Una delle carratteristiche della corrente defstag, e non esagero usando questo termine, è che ci sono troppi beni per troppo pochi acquirenti, troppo denaro e troppo poche occasioni di investimento, troppi lavoratori e troppo pochi posti di lavoro, troppe banche e troppo pochi risparmiatori, eccetera. Questo vale non solo per l’attuale caduta ciclica del capitalismo, ma anche per gli altri aspetti della crisi. L’essenza della crisi del capitalismo è la sovraproduzione. Ovvero la sovraccumulazione.
Cos’è la sovraproduzione? Quali sono le sue caratteristiche? In quale fase del ciclo dell’accumulazione capitalistica fa la sua comparsa? Qual è la sua durata ciclica? Qual è il suo ruolo nel ciclo affaristico del capitale?
Milton Friedman, uno dei maggiori propagandisti del fondamentalismo del libero mercato e uno dei più grossolani apologeti del capitalismo, ha posto la questione in questi termini, una volta messa da parte la bufala della responsabilità sociale da parte dei capitalisti: “L’unica responsabilità di un’impresa è quella di incrementare i dividendi dei suoi azionisti”.
Il capitalismo definisce il rapporto tra una classe di possessori/sfruttatori e una classe sfruttata di non possessori che vive di salari.
Definisce il rapporto tra oppressori e oppressi. Per questo l’obbiettivo prioritario del capitalismo, il suo alfa e il suo omega, non è la produzione di merci e servizi per i lavoratori che sfrutta. Questa è solo la superficie. Un feticcio. L’obbiettivo dell’accumulazione capitalistica è quello di espandere e garantire una sempre crescente massa di profitti alla classe proprietaria.
La sovraproduzione non è quindi un’aberrazione del sistema, ma è insita nel suo funzionamento. Si può risalire alla prima Grande Depressione del capitalismo, quella del 1873 [-1890], come venne riportato dalla Commissione Reale [che si occupò della crisi] nel suo rapporto finale, con parole che sarebbero state adatte sia alla futura crisi del 1929 sia all’attuale crollo [13]:

“Riteniamo che (…) la sovraproduzione sia stata uno dei tratti maggiormente rilevanti dell’andamento dei commerci durante gli ultimi anni, e che la depressione di cui ora ci troviamo a soffrire possa essere parzialmente spiegata da questo elemento (…). La caratteristica rimarchevole della presente situazione, e che a nostro avviso la rende diversa da altri precedenti periodi di depressione, è la lunghezza del periodo durante il quale questa sovraproduzione si è protratta (…). Abbiamo la convinzione che negli ultimi anni, e più in particolare negli anni in cui è emersa la depressione nei commerci, la produzione di merci e l’accumulazione di capitali abbia proceduto in questo paese secondo un tasso più rapido di quello dell’aumento della popolazione.”

La profondità di queste osservazioni sottolinea non solo la natura, la genesi e la logica del ciclo affaristico (che esploreremo in esposizioni successive), ma la sua sua connessione con le altre grandi depressioni che hanno devastato il capitalismo mondiale, come la Grande depressione del 1929 e la depressione economica che stiamo vivendo attualmente. Quelle che sono importanti tenere a mente sono le conseguenze di quella grande depressione, che durò, tra alti e bassi, fino ai primi anni 90 dell’800.

L’avvento dei monopoli e le sue implicazioni

Il capitalismo, col suo dominio di classe, è un sistema guidato dalla competizione, in tutte le fasi del suo sviluppo. Il periodo che va dal 1873 al 1914, che fece strada al grande massacro [della I Guerra Mondiale], vide il cambiamento strutturale del capitalismo, dalla fase della competizione a quella dei monopoli.
La competizione uccide la competizione. Oppure, come avrebbe detto Marx, un capitalista uccide un altro capitalista. La Grande Depressione diede di sprone alla concentrazione e centralizzazione del capitale che Marx aveva analizzato con tanta efficacia. Quel periodo vide l’ascesa di trust e cartelli. I nomi Rockfeller, Buchanan (il re del tabacco), Krupp, Vanderbilt, Morgan, Carnegie, incarnano il volto del capitale.
Costoro non erano semplicemente quelli che il Presidente Theodore Roosevelt chiamò “i malfattori della Grande Ricchezza”. Questa era la nuova fase del capitalismo monopolistico, generata dalla crescente competizione all’interno e tra gli stati nazione, e dal declino dei tassi di profitto. Una sempre maggiore competizione portò a un eccesso di capacità produttiva, col corollario di una spietata corsa al ribasso dei prezzi, la caduta dei prezzi al dettaglio e all’ingrosso, indici di una fase deflattiva. Da qui si arrivò alla ricerca aggressiva di settori privilegiati per gli investimenti e il commercio estero.
Il capitale monopolistico ha dato vita all’assalto imperialistico.
Quel periodo ha spalancato le porte a quella che George Bernard Shaw, ai tempi della Guerre Boere, chiamò l’era dei Mercanti di Morte [14]. Ricorderete quello che il Presidente Eisenhower, nel suo discorso di commiato, definì il complesso militare/industriale, il che generò grandi quantità di letteratura. La formula era nuova, la sostanza no. La concretezza di questo fenomeno si manifestò in forma concentrata nei decenni che portarono alla Grande Guerra. Fabbricanti di armamenti come Krupp, Siemens e Mercedes Benz in Germania, Vickers-Armstrong e Rolls Royce nel Regno Unito, Creusot-Schneider in Francia e Mitsubishi in Giappone simboleggiavano il rapporto tra i Mercanti di Morte e il potere dello Stato. Quasi il 70% dei pezzi di artiglieria, e le loro munizioni, utilizzati dall’esercito del Kaiser, per non parlare dell’acciaio che permise l’espansione della flotta tedesca sin dal 1890, era di produzione Krupp. La casata dei Krupp si mescolò a quella degli Hoenzollern per mezzo di legami matrimoniali. Tale era il potere della interconnessione matrimoniale all’interno dell’imperialismo.

La spinta all’espansione coloniale

Ho esaminato questo processo più approfonditamente nel mio lavoro “The Rise and Fall of Economic Liberalism”. Durante e dopo gli anni 70 e 80 dell’800 cinque milioni di miglia quadrate di territorio africano, abitati da più di 60 milioni di persone, vennero arraffati e assoggettati al dominio imperiale europeo. In Asia, durante lo stesso periodo, il Regno Unito si annetté la Birmania e estese il suo controllo alla Penisola Malese e al Beluchistan. La Francia diede inizio allo smembramento della Cina, annettendosi l’Annam e il Tonchino. Il magnate dell’industria e parlamentare Joseph Chamberlain invocava il protezionismo in patria, e nello stesso tempo la creazione di “nuovi mercati” all’estero. E alzava il calice per un doppio brindisi: “Al commercio e all’Impero! Perché, signori, l’Impero, per parafrasare un celebre detto, è commercio”.
Questa è l’unione del grande capitale con la grande politica borghese. Le battaglie dell’imperialismo conducevano a conflitti e guerre. Ancora Chamberlain, in un discorso tenuto alla Camera di Commercio di Birmingham nel 1896, osservava:

“Se fossimo rimasti passivi (…) la gran parte del continente africano sarebbe restato nelle mani dei nostri rivali nel commercio.. Attraverso la nostra politica coloniale, nel momento in cui conquistiamo un territorio, lo sviluppiamo nella nostra veste di agenti della civilizzazione, a favore della crescita del commercio mondiale.”

Notate l’uso dei termini. Lo stupro e il saccheggio dell’Africa, le conquiste coloniali, vengono razionalizzati con l’etichetta di civilizzazione o, come la chiamavano i francesi, “la mission civilisatrice”. Per i colonizzatori e i colonizzati le parole assumono significati diversi, ovvero, come diceva Ho Chi Minh (1890-1969): “Puoi anche sputare in faccia ai colonialisti, e diranno che piove”. L’imperialismo ha perseguito le sue politiche utilizzando le stesse etichette, decennio dopo decennio. Ai nostri giorni la conquista statunitense dell’Afghanistan prende il nome di “Enduring Freedom”.
Ciò a cui abbiamo assistito alla fine del XIX secolo fu l’espansione e lo scontro tra i capitalismi nazionali. Questa è l’interpretazione proposta da Cecil Rhodes, uno dei maggiori artefici dell’imperialismo britannico in Africa:

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“Ieri ero nell’East End di Londra, e ho assistito a una manifestazione di disoccupati. Ho ascoltato i discorsi esagitati, che consistevano essenzialmente nell’invocazione di ‘Pane! Pane!’, e tornando a casa ho riflettuto su quanto avevo visto, diventando sempre più convinto dell’importanza dell’imperialismo… L’idea che accarezzo è la soluzione del problema sociale, i. e., al fine di salvare i 40 milioni di abitanti del Regno Unito da una sanguinosa guerra civile, noi statisti coloniali dobbiamo acquisire nuove terre per insediare il surplus di popolazione, e per procurare nuovi mercati per i beni prodotti da fabbriche e miniere. L’Impero, come ho già detto, è una questione di pane e burro. Se volete evitare la guerra civile, dovete diventare imperialisti.”

Per “guerra civile” Rhodes intende la guerra di classe tra capitalisti e lavoratori, tra gli sfruttatori e gli sfruttati, che genera le rivoluzioni socialiste. Cecil Rhodes (1853-1902) incarnava l’impulso razzista ed espansionista della conquista imperiale, così come l’interdipendenza tra Stato e capitalismo britannico.
Nella sua intima essenza l’imperialismo era la quintessenza del razzismo.

“Dobbiamo trovare nuove terre da cui poter ottenere facilmente materie prime e insieme sfruttare la manodopera degli schiavi (sic) disponibile tra i nativi delle colonie. Io sostengo che noi siamo la migliore razza del mondo, e che più parte ne abiteremo, meglio sarà per il genere umano… Se esiste un Dio, credo che quello che gli piacerebbe sarebbe dipingere la mappa dell’Africa con il più Rosso Britannico possibile.”

Lasciatemi dire, a mo’ di nota, che questa dichiarazione è del 1896, lo stesso anno in cui il Raj britannico stese la linea Durand, che demarcava i 2300 chilometri di confine tra India britannica (ora Pakistan) e l’Afghanistan. Potere politico e conquista coloniale si muovevano in agile accordo. Rhodes era Primo Ministro della colonia di Capo, e amministratore delegato della British South Africa Company. Un articolo del Times riferiva che sarebbe stato difficile trovare un solo parlamentare che non fosse azionista di quella società. Né questo ci deve sorprendere, dato il rapporto congeniale tra l’élite politica e quella affaristica e i succulenti guadagni che erano in vista. Era l’interconnessione tipo una mano lava l’altra, e tutt’e due grattano la schiena. Rhodes divenne uno dei più grandi magnati di tutti i tempi, con Chamberlain a fargli da potentissimo sostenitore. Fondò la De Beers (foraggiato dai fondi di Lord Rothschild) che, al suo zenith, trattava il 90% dei diamanti grezzi del mondo.
Il successo [della politica imperialistica] si affidava a “legge o ordine” e al “lavoro degli schiavi”, come diceva Rhodes, che marciavano mano nella mano con l’espropriazione di massa della terra africana. Un processo fiancheggiato legalmente dal Glen Grey Act [15], di cui Rhodes, comprensibilmente, era uno degli estensori. E in effetti, nell’ordine imperiale delle cose la distinzione tra lavoro di schiavi e lavoro di uomini liberi è sempre stata confusa, elemento che Rhodes comprese immediatamente. Le pulsioni espansionistiche di Rhodes e dei suoi famigli del Colonial Office furono i maggiori catalizzatori delle Guerre Boere )1899-1902).
I processi storici non possono venire astratti dal ruolo dei singoli individui. È per questo che ho scelto di parlare dell’Impero Britannico e di tre dei suoi maggiori statisti, Cecil Rhodes, Joseph Chamberlain (1863-1914) e Lloyd George (1862-1945), e del loro ruolo nel plasmare l’imperialismo britannico, una delle imprese più ripugnanti e sanguinarie di tutti i tempi, che incubò, con altri complici imperiali, quell’olocausto che sarebbe stata la Grande Guerra.
Basti dire che che l’imperialismo, con i suoi piani, modelli e progetti espansionistici era inseparabile dall’oppressione razziale. E in effetti molti di voi ricorderanno la stigmatizzazione nazistoide del popolo cinese espressa da Lord Curzon (1912): “una razza moribonda e decadente”. Un’osservazione che proveniva da un paese che impose il commercio dell’oppio al quasi coloniale impero cinese. L’imperialismo fece da padrino al colonialismo [16], e ricordiamoci della grande ammirazione che Hitler manifestò per il dominio britannico in India, in vista della sua guerra contro l’Unione Sovietica: “L’Unione Sovietica diventerà la nostra India”.
Quel terzetto era la perfetta dimostrazione dell’unione di affari, politica e brama di conquista. La famiglia di Chamberlain aveva fondato una delle maggiori fabbriche di macchine utensili del regno Unito, che produceva circa il 75% delle viti metalliche del paese. Come dirigente del Colonial Office, che gli spalancò il più grande degli El Dorado personali, Chamberlain utilizzò il suo portafoglio titoli per promuovere gli interessi finanziari britannici in ogni angolo del pianeta, e questo riguardava ovviamente anche i prodotti della sua industria. Ecco il perfetto esempio del modo in cui il potere dello Stato si fonde cogli interessi dei singoli capitalisti.
Chamberlain era intimo amico dei soci in affari di Rhodes, quindi il loro sfacciato razzismo correva su binari paralleli, donando una coerenza ideologica alla classe dirigente britannica. Questo mi ricorda di un ritratto che molto tempo fa vidi nella National Gallery; mostrava la Regina Vittoria che offre una bibbia a un capo africano, mezzo nudo e inginocchiato. Si suppone che le frustate del dominio imperiale venissero alleviate dal balsamo della cristianità. Come disse una volta George Bernard Shaw, i colonialisti derubavano i neri, gli donavano un po’ di stracci per coprirne le nudità e poi gli mandavano i missionari per indottrinarli al cristianesimo.
“Credo che la razza britannica” pompeggiava Chamberlain, “sia la più grande razza padrona [governing race(s)] che il mondo abbia mai visto. Non è sufficiente occupare grandi spazi, occorre anche che se ne faccia il miglior uso. È dovere del proprietario far sviluppare la propria tenuta.” La conclusione è fin troppo ovvia: dato che l’Impero Britannico era il più grande proprietario terriero del mondo, era necessario che l’indifferenziata manodopera a basso costo dei sudditi coloniali venisse impiegata per la prosperità e il profitto della razza superiore dei padroni bianchi.
La fanatica dedizione al sempre maggiore sfruttamento dell’Africa (così come dell’Asia) gli valse il soprannome di Joseph Africanus. La promessa, da parte della razza superiore imperiale, che lo stupro sfrenato dei popoli colonizzati avrebbe avuto una ricaduta benefica [17] sulla classe lavoratrice britannica – secondo un meccanismo mai spiegato a pieno – si è dimostrata una delle più gigantesche bufale del capitalismo britannico.
Certo, i mega-profitti drenati con forza lavoro al minimo vitale facevano venire l’acquolina in bocca, come proclamavano molti apparatchik del Colonial Office, ma le briciole che finivano nello stomaco dei lavoratori inglesi erano davvero poche. Scrivendo le sue “War Memoirs” (Vol. I 1933), al culmine di un altro collasso economico, Lloyd George non ha nessun motivo di infiorettare la fittizia “pace sociale” del periodo edoardiano.

“A uno sguardo avveduto era diventato evidente quanto i partiti e il sistema parlamentare fossero inadeguati per il compito di trattare situazioni che, già gravi, lo diventavano sempre di più. Lo spettro della disoccupazione si levava minaccioso all’orizzonte. I nostri rivali internazionali progredivano a grandi passi, minacciando il nostro controllo sui mercati mondiali. L’espansione del commercio delle epoche passate si era arrestata. I nostri lavoratori, stipati in strade sudice e squallide, senza la minima sicurezza di non essere privati del loro pane quotidiano, magari da una malattia o dagli incerti dei mercati, stavano diventando carichi di rancore.”

È possibile che quest’ultima frase sia l’inconfessabile gergo per “lotta di classe”? Lloyd George non fu mai un radicale: A dispetto della sua anodina riforma del welfare (basata sul modello bismarckiano) che gli valse il plauso del Kaiser, egli era dedito, come i brutali repressori antioperai della classe dirigente tedesca, alla perpetuazione dell’ordine sociale e proprietario esistente, alla corsa agli armamenti e all’espansione all’estero. Il suo virulento sostegno all’Impero si accoppiò a un non meno stentoreo appoggio alla Grande Guerra.
Lloyd George, infaticabile guerrafondaio, non solo soffiò sulle fiamme della guerra, ma fu uno dei più indefessi patrocinatori (come il suo stretto compare Winston Churchill) di un intervento militare (1918-21) contro la rivoluzione russa [18]. Che, fedele alla linea, lumeggiò come “il flagello più grande che abbia mai afflitto l’umanità”. Non ci tengo ad analizzare la pura stupidità di questa dichiarazione, ma solo a sottolineare che veniva da un politicante di primo piano che fu uno dei principali istigatori criminali che misero in opera il più feroce massacro di massa che l’umanità avesse mai visto. Una dichiarazione proveniente da un criminale che, secondo i diari della moglie, “insisteva nel riservarsi il diritto, per usare le parole di David, di bombardare i negri”.
Fu in larga misura [la guerra contro la Russia rivoluzionaria] la guerra contro uno stato nascente che, unico tra i membri della Seconda Internazionale (1889-1916), si era opposto alla guerra e il cui slogan era “Pane e Pace”. Una spietata guerra d’intervento [war of intervention] (espressione coniata dal British Foreign Office) [19] che costò milioni di vite (in aggiunta a quelle della Grande Guerra) con aggiunta di carestie e altre orribili conseguenze politiche. Il governo britannico (di cui Lloyd George era Primo Ministro) finanziò il 70% del costo di questo intervento.
Il suo grido sanguinario, “uccideteli, uccideteli tutti ora”, era sintomatico non solo di quest’uomo e della sua classe di appartenenza, ma anche del percorso dell’imperialismo. “Rimarrò sempre un nemico implacabile dei bolscevici, fino alla fine dei miei
giorni”. Una promessa mantenuta, ma di cui, e non è una sorpresa, non si trova traccia nelle sue “War Memoirs”.
Le guerre per la conquista dei mercati mondiali e le loro ripercussioni vennero definite con tremenda chiarezza dalla Saturday Review (1897), con preveggenza dei tempi a venire, con parole equivalenti a una dichiarazione di guerra. Parole che portano l’analisi politica ed economica infinitamente più avanti degli inconsistenti costrutti dell’economia di un Marshall o delle sviolinate del pensiero fabiano:

“Dovunque ci sia una miniera da sfruttare, una ferrovia da costruire, un nativo da convertire dall’albero del pane alla carne in scatola, l’Inglese e il Tedesco lotteranno per arrivare per primi. Un milione di dispute minori preparano al più grande casus belli che il mondo abbia mai visto. Se la Germania scomparisse domani, il giorno seguente non ci sarebbe nel mondo un singolo inglese che non sarebbe più ricco. Per anni le nazioni hanno combattuto per una città o per i diritti di successione; non dovrebbero forse combattere per i duecentocinquanta milioni di sterline l’anno del commercio?”

Una vera profezia, e nel concreto ci sono voluti solo 17 anni e 40 milioni di morti massacrati per appurare la validità di questa sanguinaria, bellicosa dichiarazione. Nel paese della Saturday Review, le cui concezioni portarono a conseguenze allora inconcepibili, furono coscritti 6 milioni di uomini (su 10 eligibili); circa 750.000 furono uccisi; 1.700.000 feriti; 160.000 mogli persero il marito; 300.000 bambini persero il padre.
Sul fronte dell’ideologia, la Grande Guerra spazzò via quel che restava del laissez-faire e del liberalismo economico.

Una rete di conquiste

La spinta impetuosa che spingeva le potenze europee alle conquiste imperiali non erano meno vive per Stati Uniti e Giappone. Quindi l’imperialismo è l’estrema globalizzazione dell’accumulazione del capitale a livello mondiale nel suo momento di crisi e sommovimento. A partire dal Rinnovamento Meiji [20], in effetti in tre soli decenni, il capitalismo giapponese raggiunse con velocità stupefacente il livello di una nazione forte nell’industria e nel commercio mondiale, alla caccia incessante di espansione e conquiste coloniali. In Giappone, le grandi imprese commerciali come Mitsubishi, Mitsui, Itoh, Marubeni, Sumitomo e altri, note nell’insieme come le zaibatsu, con i loro organi commerciali, i soga shosha, si trasformarono negli alti papaveri dell’imperialismo nipponico.
Insieme al potere militare (il gumbatsu) divennero il cuneo dell’espansione coloniale con l’occupazione di Formosa, che immise il Giappone nel circuito imperialistico. A questo seguì, nel 1895, la conquista della Corea e della Manciuria meridionale. Era pronta la scena per un’altra guerra imperialistica, stavolta tra la Russia degli Zar e il Giappone, che culminò nella cocente disfatta della Russia nella battaglia della Baia di Tsushima del 1905,e la conquista dell’isola di Sakhalin. Potremmo aggiungere, di passaggio, che questa sconfitta portò alla Rivoluzione Russa del 1905, che influì sugli eventi storici successivi. È anche storicamente significativo, come potete osservare, il raggrupparsi degli eventi. La ridistribuzione di colonie, semicolonie e sfere di influenza veniva ora stabilita per mezzo di guerre di crescente intensità.
Un’entità imperiale ancora più potente, sebbene ancora in embrione, accampava i propri diritti sulla cornucopia dell’impero. “È il nostro destino manifesto” proclamava Theodore Roosevelt. “Ora siamo una potenza mondiale, e la gloria della nostra razza e nazione non ha raggiunto la fine della nostra strada, e dobbiamo andare sempre più avanti”. Lo svigorito e inglorioso Impero Spagnolo, sopravvissuto per 500 anni, fu demolito nel 1898 – un’impresa conclusa in un paio di settimane – con l’appropriazione delle sue colonie, in particolare i gioielli della corona Cuba e Filippine. Questo contrassegnò un’ulteriore fase nella redistribuzione del mercato mondiale, che portò l’imminente Armageddon un passo più vicino.

Il Trattato di Versailles

La Grande Guerra non fu la “guerra che porrà fine a tutte le guerre”, come affermò scioccamente Woodrow Wilson. Il desiderio da parte dei nostalgici della politica del laissez-faire di un ritorno a una supposta normalità fu completamente disatteso. Quella fu non la fine dell’imperialismo ma la sua amplificazione a livelli ancora maggiori di distruzione, con il fascismo come sua versione più razzista ed economicamente politicizzata. Dopo Versailles (1919) la mappa mondiale venne mandata al macero. Gli Asburgo, i Romanov, gli Hoenzollern e gli Ottomani vennero scaricati nella pattumiera della Storia. Ora la Germania era una nazione sconfitta, privata di Alsazia e Lorena, così come delle sue colonie. Un punto militare/industriale di strategica importanza, comunque, era che una burocrazia non riformata, una classe militare e finanziaria e una potente borghesia nazionale – l’elemento portante del dominio di classe – erano ancora intatte.
Una Russia rivoluzionaria, la cui dirigenza si era opposta risolutamente alla guerra, aveva usato quella guerra come testa d’ariete per un assalto all’autocrazia zarista. Facendo così, recise i legami [dello stato russo] con l’imperialismo e lo sciovinismo nazionalistico della socialdemocrazia, e orientò i suoi sforzi verso la costruzione di un ordine socialista, con l’eliminazione delle vestigia coloniali/capitalistiche/imperialistiche. Clemenceau sintetizzò quel tragico momento della verità quando confessò cupamente: “Abbiamo vinto la guerra, ma siamo rovinati”. I vecchi imperi coloniali ancora in piedi, Francia e regno unito, erano dissanguati e sull’orlo della bancarotta finanziaria. Il loro mercato dei cambi e le riserve di oro vennero utilizzati per pagare i costi della guerra. In aggiunta, dovevano fronteggiare la crescente agitazione tra i lavoratori sul fronte interno, e prolungate ribellioni di massa in India e Indocina, i loro coloniali gioielli della corona.

Thorstein Veblen e John Maynard Keynes

Può darsi che Lloyd George non abbia veramente detto “Strizzeremo il limone Germania fino a schiacciarne i semi”, ma le sue parole dovevano essere simili a quello che la “tigre” Clemenceau stava pensando: “Dobbiamo prenderci fino all’ultimo spicciolo, a costo di rivoltargli le tasche”. La questione delle riparazioni [di guerra] da imporre alla Germania di Weimar era uno dei punti caldi delle relazioni internazionali e del battibecco imperialista. Fu in quel contesto che John Maynard Keynes (1883-1946) acquistò rinomanza internazionale con la sua opposizione alle clausole del Trattato, redatte in “The Economic Consequences of the Peace” (1919), che analizzava le conseguenze delle riparazioni.
A questo punto devo parlare di una delle più efficaci controargomentazioni al pamphlet di JMK, scritta da un accademico americano la cui brevissima recensione apparve in un oscura pubblicazione nel 1920. In appena tre pagine Thorstein Veblen (1857-1929) identificava con efficacia il punto che JMK (che partecipava alla Conferenza di Parigi come membro della delegazione britannica) aveva accuratamente evitato, [ma che era] il nucleo stesso del Trattato.
Prima di continuare, però, vorrei aggiungere che Veblen fu un acuto teorico e osservatore del capitalismo americano durante l’età dorata dei Robber Baron (1890-1914). Mai, però, fu un attivo avversario del sistema. Non credette mai che fosse fattibile un progetto alternativo dei rapporti di classe e proprietà. In questo senso, egli non fu mai un radicale. Nemmeno condannava le spoliazioni praticate dall’impero americano, in particolare quelle commesse da politicanti predatori coloniali come Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson nelle Americhe. E nemmeno sosteneva la lotta per l’emancipazione del negro americano come faceva il giovane studioso Du Bois.
E se è per questo non manifestò nemmeno alcun pubblico apprezzamento per il movimento socialista americano guidato da Eugene Debbs. Ma fu comunque un ribelle. Quello che ho detto non intendeva diminuire la sua importanza come pensatore e il suo apporto alle lettere e agli studi economici americani. Come successe a molti altri, la Grande Guerra lo spinse verso un pensiero più tagliente e interrogativo, cosa che valeva anche per Keynes. Fu un catalizzatore che lo colpì nell’autunno della vita. In quella recensione, pubblicata nel 1920 dal Political Science Quarterly, un anno dopo la pubblicazione del pamphlet di JMK, Veblen vide con estrema chiarezza quale fosse la realtà celata dal Trattato, la realtà che Keynes aveva ignorato. Fu un’opera di critica ispirata, tracciata in un momento che vedeva la USCO, corrotta e gonfia di profitti di guerra, piombare nelle convulsioni dell’isteria anti-progressista e anti-bolscevica.
Nella sua rilettura impressionistica il Trattato (scritto sempre con la maiuscola) era l’antitesi della democrazia, niente di più di una cortina di chiacchiericcio diplomatico [diplomatic verbiage]. Fa venire in mente la descrizione che Jacques Attali ha fatto del World Economic Forum di Davos, definendolo “le bavardage” [la ciancia]. Dietro il “verbiage”, comunque, si nascondeva il coltello da macellaio degli imperialisti vittoriosi. Era lo schermo dietro il quale quelli che Veblen chiamava sarcasticamente gli “Statisti Anziani delle Grandi Potenze” continuavano a “perseguire l’inganno politico e l’espansione imperialista”. Facendo così, Veblen portava la realtà dell’imperialismo all’epicentro delle relazioni internazionali.
Il nocciolo della critica di Keynes era il negativo effetto di contrazione sulla produzione, l’occupazione e la domanda interna della Germania. Questa, nell’ottica di Veblen, era l’ombra, non la sostanza. Venivano ignorate le ben più ampie conseguenze geostrategiche, politiche e ideologiche che erano in gioco. Arrivati alla primavera del 1919, quando i negoziati sul Trattato avevano raggiunto il loro punto cruciale, la guerra di intervento per distruggere la Rivoluzione Russa toccava anch’essa il suo punto più alto. I bolscevici combattevano contro le truppe di 21 nazioni, oltre ai Bianchi guidati dal generali Kolchak (1874-1920), Wrangel (1878-1928), Kornilov (1870-1918) e Denikin (1872-1947).
Veblen faceva un’acuta considerazione che mostrava la precorrenza del suo ragionamento: “Se non fosse per la loro volpina segretezza, il carattere i fini di quell’occulto conclave di imbonitori politici sarebbe già stato evidente agli occhi di tutti un anno fa. Il Trattato è quindi congegnato in modo da prescrivere che la clausola più rigida del Trattato (e della Lega) sia una disposizione non scritta [unrecorded] dei governi delle grandi potenze che si associano per la soppressione della Russia sovietica…” Notate il cambio di stile, non sono più chiamati con deferenza Statisti Anziani, ma mucchio di imbonitori.
Un’analisi tanto schietta richiedeva una notevole forza morale, in un’epoca in cui più di nove decimi degli accademici americani tremavano nei loro chiostri, tenuti a cuccia dalla sferza di quello che era a tutti gli effetti uno stato di polizia, tranne che nel nome. Veblen era una di quelle rare voci (un’altra era Lincoln Steffens) che vide l’assalto feroce contro l’emergente paese socialista come uno dei più grandi errori e ingiustizie di tutti i tempi. Fondamentale nella sua critica era il fatto che Keynes avesse impedito a se stesso di accorgersi che l’obbiettivo del Conclave era la distruzione del bolscevismo, che questo aveva plasmato la forma del Trattato. L’antibolscevismo e la preservazione dello status quo ante erano la forza che univa Wilson, Clemanceau a Lloyd George. Orlando, l’italiano, era stato messo da parte, ai margini, con un Lloyd George che lo dipingeva beffardamente come un “mucchietto di spaghetti ammuffiti”.
Demolendo le argomentazioni di Keynes, antisovietico e anticomunista per tutta la sua vita, Veblen non mancò di arrivare alla conclusione che la contrapposizione bolscevismo/imperialismo era diventata ormai una lotta all’ultimo sangue. Ne conseguiva perciò che “il bolscevismo è una minaccia per la proprietà assenteista [21]. Allo stesso tempo, l’ordine sociale ed economico odierno si fonda sulla proprietà assenteista”. Proprietà assenteista non era altro che un eufemismo per descrivere il sistema capitalistico di produzione, distribuzione e commercio. Veblen capì anche che Keynes aveva deliberatamente trascurato il ruolo assegnato a una Germania in futura ripresa come testa di ponte della contro-rivoluzione.
Veblen ovviamente [non] si sbagliava affermando che gli “imbonitori” avrebbero dichiarato una guerra ufficiosa contro una Russia rinascente. Per la fine del 1917, era una guerra clandestina che dispiegava eserciti imponenti. I Bianchi venivano perfino chiamati con disprezzo da Lloyd George “i nostri mercenari”. Il bolscevismo e i movimenti rivoluzionari operai che si manifestarono durante la Seconda Internazionale (1889-1916) non furono aberrazioni storiche. Furono le conseguenze delle crisi e convulsioni del capitalismo.
Veblen di sicuro non aveva dimenticato che Rosa Luxemburg (1871-1919) e Karl Liebknecht (1871-1919), i due leggendari socialdemocratici tedeschi, erano contrari alla guerra, cosa per cui pagarono il prezzo più caro. Furono arrestati e assassinati da militaristi di destra del Reichswehr. E lo stesso accadde al leader socialdemocratico Leo Jogiches (1867-1919). L’anno 1919 è un anno cruciale nella storia della socialdemocrazia, del trattato e dell’imperialismo.
Fu la parola fine di un capitolo ignobile della socialdemocrazia, annegata in un mare di socialsciovinismo e opportunismo. E fu anche l’inizio del capitolo del fascismo come salvatore del grande capitale e dell’ordine costituito. La Russia Sovietica, ben presto ribattezzata Unione Sovietica, e la Germania erano adesso diventati gli attori principali nel dramma che stava andando in scena: la prima allungando sul mondo la sua portata rivoluzionaria, la seconda come eletto bastione della contro-rivoluzione.
In Adolf Hitler e nel Partito Nazista ciò che gli “imbonitori” di Veblen stavano cercando si era manifestato come una benedizione. Nel 1932, rivolgendosi ai suoi pretoriani SS, Hitler tuonava che “le strade della nostra nazione sono in tumulto. Le università sono piene di studenti in rivolta. I comunisti stanno cercando di distruggere il nostro paese. L’Unione Sovietica ci minaccia con la sua potenza e la repubblica è in pericolo. Sì, pericolo dall’interno e dall’esterno. Abbiamo bisogno di legge e ordine”.
Questa fu la visione di Veblen, ma egli non visse per vederne la purgatoriale cristallizzazione.

Frederic F. Clairmont è un eminente accademico e ricercatore canadese che per molti anni è stato permanent senior economics affairs officer la Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Africa e la Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD).

Ha insegnato alla University of Kings College e alla Dalhouse University in Nuova Scozia. La sua opera più nota è “The Rise and Fall of Economic Liberalism”, il suo ultimo libro “Cuba and Venezuela: The Nemeses of Imperialism”, pubblicato dalla Citizens International di Penang, Malaysia. Collabora di frequente con Le Monde Diplomatique e con The Economic and Political Weekly.

Frederic F. Clairmont
Fonte: www.globalresearch.ca
Link: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=12471 br>
27.02.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DOMENICO D’AMICO

NOTE DEL TRADUTTORE

[1] L’originale porta “it is a matter of life and death that takes us into the deepest reaches of the conflictual contradictions within world capitalism and the imperialist lethal that I have will give you more than an idea of what is meant when we say that China has become the industrial hub of our planet”; ritengo che all’altezza di “lethal that I have” si sia verificato un qualche tipo di refuso.
[2] Il testo riporta, sicuramente per errore, un “Kronprinz Franz Joseph”.
[3] Ho espanso, forse esagerando, l’originale “And its wars were confirmatory”.
[4] Per la precisione, lo Stockholm International Peace Research Institute [http://www.sipri.org/] valuta che la spesa militare USA ammonti al 45% del totale mondiale [http://yearbook2008.sipri.org/05].
[5] http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/03/10/iraq-la-guerra-da-mila-miliardi-di.html
[6] L’originale “tout” (bagarino, procacciatore di affari), in questo contesto, è addirittura più insultante del termine scelto da me.
[7] È ormi nota l’epocale collaborazione tra la banca svizzera UBS e una corte federale californiana: per evitare conseguenze penali (i. e. accuse di complicità) la banca rivelerà i dati di suoi clienti statunitensi (evasori), e ha accettato di pagare un patteggiamento da 780 milioni di dollari. [http://www.gennarocarotenuto.it/6181-ubs-braccata-dal-fisco-usa-infrange-il-segreto-bancario-consegnata-lista-di-250-evasori-e-780-milioni/] Ma il riferimento alla City di Londra può indicare che qui si parla solo degli effetti generici della crisi finanziaria.
[8] Nell’originale “beggar-my-neighbor policies”, che in realtà implicano anche la manipolazione dell’inflazione per stimolare le importazioni. Gli economisti hanno preso il termine dal nome di un gioco di carte (letteralmente “mando per stracci il mio prossimo”) in cui, alla fine della partita, il vincitore si ritrova con in mano tutte le carte.
[9] http://en.wikipedia.org/wiki/Joan_Robinson br>
[10] Si tratta di un periodo di forte crisi economica, caratterizzata difatti da deflazione e stagnazione (la defstag dell’autore), che il Giappone ha conosciuto negli anni 90 (non negli 80). Il paragone con la crisi attuale, però, è assai problematico:
«La verità è che dal 1989 il surplus commerciale nipponico si è quasi quadruplicato, mentre il deficit americano si è moltiplicato di sei volte, sottolinea Eamonn Figleton, veterano osservatore dei trend asiatici . Il disavanzo Usa delle partite correnti rispetto al Pil rappresenta la peggiore performance di ogni nazione rilevante, dopo l’Italia nel 1924». Per Fingleton, è impossibile che gli Usa possano mai raggiungere un «break-even commerciale (il che implicherebbe un enorme rilancio manifatturiero): quindi il Tesoro Usa dovrà continuare a indebitarsi sempre più con altre nazioni («L’ultima potenza a seguire questa sorta di politica finanziaria fu l’impero Ottomano»). «È ora di ammetterlo osserva Jesper Koll, ex Merrill Lynch, ora Tantallon Research. Nel cosiddetto decennio perduto la Corporate Japan ha fatto esattamente quello che doveva per porre le migliori basi per un solido futuro: così i forti investimenti in ricerca e sviluppo e le razionalizzazioni produttive hanno trasformato la Japan Inc. in una potenza competitiva, in grado di rubare quote del mercato globale a Usa, Europa e asiatici”.
[http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2008/09/analisi-paragone-decennio-perduto.shtml?uuid=28918df8-8bb9-11dd-afca-8531029acbe6&DocRulesView=Libero] br>
[11] Clairmont cita quasi alla lettera un classico dell’argomento, “The Political Economy of International Relations” di Robert Gilpin (“The crucial role of the dollar and the “extravagant privileges,” to use the term of Charles de Gaulle, that it has conferred on the United States has required a foreign partner to help support the dollar.”) [http://americanpowerblog.blogspot.com/2008/02/exclusive-role-of-dollar-under-pressure.html]
[12] Cerco di dare un senso alla frase “China’s Renminbi or Yuan is 40% higher than the Greenback which gives supposedly gives it an export trade advantage by the calculus of the US Treasury”.
[13] Qui Clairmont riprende la citazione da uno scritto dell’economista Alfred Marshall.
[14] Nella sua opera “Major Barbara” (Il Maggiore Barbara), del 1905, dove però si parla di “Death and Destruction Dealers” (Commercianti di Morte e Distruzione).
[15] “Nel 1890 Rhodes divenne Primo Ministro della Colonia del Capo e si dedicò a legiferare in favore dell’industria mineraria. Introdusse tra l’altro il Glen Grey Act, che costituiva una giustificazione legale all’allontanamento dei neri dalle loro terre a favore dello sviluppo industriale. Mentre deteneva quella carica, Rhodes riuscì a diventare amministratore ufficiale di quella che sarebbe poi diventata la Rhodesia, ovvero di gran parte degli odierni Zambia e Zimbabwe. Mark Twain, che ebbe a occuparsi di Rhodes in ‘Following the Equator’, disse: ‘Rhodesia è il nome giusto per quella terra di pirateria e di saccheggio, ed è il nome giusto per gettare del fango su di essa’.” [http://it.wikipedia.org/wiki/Cecil_Rhodes]
[16] Nell’originale il lapsus “Imperialism was the Godfather of imperialism”, a meno che non lo si voglia intendere con un improbabile “L’imperialismo si nutriva di imperialismo”.
[17] È la famosa argomentazione retorica della “trickle down economics”, cara ai liberisti filo-janqui: se tagli le tasse ai più ricchi, loro produrranno e investiranno di più, e, a cascata, ne deriveranno benefici anche per quelli più in basso nella piramide sociale. Ovviamente, è pura ideologia, e anche da quattro soldi [http://www.nytimes.com/2007/04/12/business/12scene.html].
[18] Sull’intervento militare “alleato” contro la Russia rivoluzionaria, vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Allied_Intervention_in_the_Russian_Civil_War
[19] Il concetto di “intervention” era già presente nelle idee di Stuart Mill s

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