DI SANDRO MOISO
carmillaonline.com
“We’re Living in Violent Times” (The Barracudas)
“Non sappiamo più riconoscere e descrivere la forza perché,
nel più profondo di noi stessi, e senza volerlo riconoscere,
siamo ormai in ginocchio davanti ad essa.” (Simone Weil)
Fummo rivoluzionari, perché non avremmo potuto essere altro
Fummo rivoluzionari, perché non avremmo potuto essere altro.
Perché eravamo potenziali delinquenti e perché eravamo incoscienti ed innocenti.
Fummo violenti, per necessità e per attitudine, per dolore e per rabbia, per crudeltà ed utopia.
Non siamo mai realmente stati perdonati e non abbiamo chiesto scusa per i nostri peccati.
Ma troppo spesso chi ci avviò o costrinse alla violenza, poi, ci ha condannati.
In compenso, oggi, i partiti di governo si definiscono “partiti dell’amore”, mentre le presunte opposizioni si riempiono la bocca di frasi stantie su diritti, democrazia e legalità,
Le guerre sono diventate missioni di pace o, al massimo, di polizia internazionale ed un uovo lanciato contro una sede sindacale diventa un atto terroristico o una intollerabile minaccia.
Incuranti di cadere nel ridicolo, media e rappresentanti politici e sindacali fanno a gara per rimuovere la violenza dal discorso socio-politico contemporaneo, nella speranza di esorcizzare oppure di rimuovere e nascondere le forze oscure e i conflitti che si agitano al di fuori dello schermo di ciò che vogliono presentare come realtà.
La violenza è rimossa nella sua essenza o al massimo è presentata come residuo di un passato superato, di società barbariche o di attività, sempre e comunque, illegali e criminali.
Frutto di un errore, frutto dell’ignoranza, residuo animalesco della specie ormai pronta, nelle società evolute, a rimuoverla dal proprio patrimonio culturale e genetico.
Eppure, eppure…
Già nel 1970, Hannah Arendt, una delle menti più lucide del secolo appena trascorso, si rifiutava comunque di relegarla soltanto agli istinti irrazionali ed animaleschi. Arrivando invece a sostenere che nella violenza della rivolta contro l’ingiustizia, o contro ciò che può essere ritenuto tale, essa esprimeva un elevato grado di razionalità.
Anzi, per l’autrice de “La banalità del male”, proprio nel rifiuto dell’ingiustizia e nella battaglia, non solo morale, contro l’ipocrisia, sarebbe possibile individuare chiaramente la manifestazione di un pensiero razionale, mentre semmai è irragionevole dare per scontato lo status quo.
Prima di rifiutare e di ignorare la violenza occorre quindi sapere che ne esistono diversi tipi.
Esiste una violenza necessaria; esiste una violenza immaginaria ed esiste una violenza liberatoria.
Ma esistono anche una violenza inutile, una gratuita ed anche una puramente sadica.
Così come esiste una violenza del potere ed una della rivolta
Scinderle tra di loro non è spesso facile.
Una può tirare con sé l’altra e rovesciarsi così nel suo contrario.
Noi odiamo tutti
“Noi odiamo tutti”.
Questo fu lo striscione esposto, per la prima volta durante la stagione calcistica 1982/83, dalle Brigate Gialloblu del Verona.
Striscione, che insieme ad altri comparsi negli anni successivi sugli spalti delle tifoserie di altre città del Nord, iniziò a cambiare l’idea e la pratica delle tifoserie organizzate.
Certo è vero, le tifoserie organizzate, già a partire dagli anni settanta, avevano assunto forme, valori e sigle (Tupamaros, Fedayn, etc.) che derivavano direttamente dalle lotte del periodo, dalle esperienze giovanili ed operaie di quella stagione.
La rabbia, la furia, l’ironia e la creatività di un movimento che stava sconvolgendo l’ordine del mondo occidentale era entrata a buon diritto anche negli stadi.
Ma erano ancora il frutto di una stagione, il prodotto di un momento storico, fino ad oggi, irripetibile.
Stagione che era stata preceduta, a livello giovanile, dalla ribellione senza causa dei juvenile delinquent del rock’n’roll, dei blouson noir e degli huligani dell’Europa orientale.
Giovani che assumevano atteggiamenti delinquenziali agli occhi dei benpensanti, dell’Est come dell’Ovest, appena mettevano in discussione i valori del lavoro salariato, dell’autorità famigliare e scolastica, dei partiti e delle chiese e della morale sessuale.
In questo fummo delinquenti potenziali, non criminali.
Non occorre l’etologia alla Lorenz, non occorre studiare le dinamiche territoriali dei gruppi animali per comprendere che nell’urlo lancinante delle chitarre elettriche del primo rock’n’roll o nella fuga da scuola del piccolo protagonista de “I 400 colpi” di Francòis Truffaut, esistevano già in nuce tutti gli elementi delle susseguenti rivolte giovanili.
Gli ultras del Torino che nel novembre del 1980 sbarcarono a Zurigo, per una partita contro i locali Grasshopper, rivelarono agli attoniti tifosi svizzeri l’esistenza di altri mondi.
Appena scesi dagli autobus i tifosi, provenienti da Mirafiori sud e dalla periferia operaia della città FIAT, portarono nelle pelliccerie e nelle gioiellerie di una delle città più ricche del mondo “lo spirito dei tempi”.
Quaranta giorni prima, alcune decine di migliaia di quadri e impiegati avevano marciato per le vie di Torino, chiedendo la fine dell’occupazione degli stabilimenti.
I figli di quegli occupanti e alcuni di quegli operai stessi marciarono per le vie della città elvetica pensando bene di riempire le borse in attesa del peggio che stava arrivando con la fine di quella lotta. Inutile dire che molti di quegli autobus tornarono in Italia vuoti.
Era, evidentemente, un sorta di colpo di coda di un movimento già in crisi.
Ma di quel movimento manteneva ancora lo spirito dissacratore, l’ansia di vivere e il desiderio di ridere e deridere.
Gli slogan razzisti, le minacce fisiche, le tragedie con i morti negli stadi e nelle aggressioni intorno ad essi, imputabili sia alla polizia che ai nuovi ultras, dovevano ancora venire.
E non è da dimenticare che proprio negli stadi cominciarono a comparire gli striscioni e gli slogan che avrebbero poi rafforzato l’idea e la nascita del partito leghista.
Anche se è certamente vero che diverse tifoserie rivendicavano ancora un’allure antagonista, è anche vero che la valenza sempre più simbolica degli antagonismi e dei conflitti trascinava il tutto, paradossalmente, sempre più verso una violenza irrazionalmente motivata e quindi più pericolosa.
La storia delle guerre balcaniche della fine del ventesimo secolo dovrebbe insegnarci qualcosa.
Proprio nella Jugoslavia titoista, iniziarono a svilupparsi tifoserie che, dopo la morte del leader, diventarono spesso espressione di quell’odio interetnico che di lì a poco sarebbe sfociato in una delle più feroci guerre civili della seconda metà del ‘900.
Le delusioni politiche e la crisi economica sfociarono in un odio razziale che sotto il regime era stato bandito e proibito.
Così mentre pian piano sbiadiva il calcio jugoslavo, che per molti anni aveva dato allo sport memorabili giocatori, si ammassavano all’orizzonte le nubi della tempesta che da lì a poco avrebbe sconvolto il paese.
Proprio le tifoserie di squadre famose come la Stella Rossa di Belgrado o la Dinamo di Zagabria sarebbero diventate, a seguito di una ben orchestrata regia, la base delle milizie più agguerrite e feroci. Quelle che si macchiarono di alcuni dei crimini più orrendi.
Oggi, organi di stampa e mass media dalla memoria corta e ministri degli interni preoccupati solo delle possibili violenze alle manifestazioni sindacali o degli immigrati islamici si stupiscono della violenza scatenatasi qualche settimana or sono allo stadio di Marassi.
Mentre per la sinistra perbenista questi devono rientrare forzatamente all’interno di complotti mafiosi e antidemocratici dediti a indebolire il governo filo-occidentale serbo.
Nessuna sembra voler ricordare gli anni della furia, della rabbia e dell’odio che hanno prodotto le tifoserie viste in azione a Genova.
Nessuno sembra essersi soffermato più di tanto sui tatuaggi dei tifosi e del “terribile” Ivan delle foto. Tatuaggi che rinviano alla Stella Rossa e probabilmente alle feroci “tigri di Arkan”, del quale il gigantesco tifoso serbo non è che un pallido riflesso.
Quanto tempo è passato tra gli autobus degli ultrà del Torino bloccati e perquisiti a Zurigo a quelli bloccati e perquisiti a Genova? Trent’anni o forse secoli?
Gli atteggiamenti minacciosi e le violenze viste nelle immagini trasmesse o nelle foto sui giornali rinviavano solo allo sfogo dei tifosi contrari alla direzione della squadra serba e carichi d’odio verso le forze dell’ordine oppure richiamavano odi più atavici e simbolici, incontrollabili nell’apparenza ed eterodiretti nella sostanza?
Certo l’Ivan nascosto tra i bagagli dell’ultimo autobus è stato facilmente privato dell’alone simbolico acquisito mentre sedeva a cavallo della rete di separazione.
Pallida ombra di figure più pericolose e demoniache, nate però sullo stesso terreno che in altri momenti o in altri luoghi avrebbe dato figure di ribelli destinati a combattere per una giustizia universale o anche solamente destinati a rappresentare un ideale della controcultura.
Lo chiamavano “il rapinatore sorridente”
Lo chiamavano il rapinatore sorridente.
Željko Ražnatović, nato il 17 aprile 1952 a Brežice, in Slovenia, in una caserma dell’allora esercito jugoslavo, era figlio di un colonnello, di cui forse non sopportò mai l’autoritarismo o il senso di obbedienza nei confronti dello stato.
In seguito sarebbe diventato prima rapinatore di banche e poi uno dei più pericolosi racketeer della malavita balcanica.
All’età di ventidue anni iniziò la sua carriera di rapinatore di banche, in una Svezia ancora influenzata dal fascino di Clark Olofsson, il rapinatore simile a Jim Morrison che aveva fatto innamorare di sé una delle impiegate che, nel 1973, aveva preso in ostaggio durante un assalto alla Norrmalmstorg di Stoccolma e da cui si iniziò parlare della ben nota sindrome.
Diventando in qualche modo il beniamino di vasti settori dell’opinione pubblica progressista e radicale.
Quando il giovane serbo si presentò sulla scena della criminalità svedese, i tempi erano maturi per un elevato livello di attenzione per le gesta dei rapinatori di banche che, dall’Italia di Pietro Cavallero e Renato Vallanzasca alla Francia di Jacques Mesrine, erano diventati una sorta di rappresentanti della ribellione armata contro il dominio del capitale e del lavoro salariato.
Ma Željko divenne più celebre per il sorriso rivolto alle telecamere di controllo, mentre usciva dalle agenzie svaligiate, mentre l’Interpol l’avrebbe definito “il più abile rapinatore di banche d’Europa”.
Rapido e deciso nell’azione riuscì a portare a termine anche più colpi in un solo giorno, ma il suo capolavoro svedese fu la liberazione dal tribunale di Stoccolma di un rapinatore di origine italiana che era stato catturato dalla polizia subito dopo la rapina alla SE-Banken, condotta insieme nel settembre del 1979.
Ražnatović, vestito elegantemente e accompagnato da un altro partecipante alla rapina, entrò nell’edificio del tribunale il giorno fissato per il processo; passò in rassegna tutte le aule e le stanze fino a quando non individuò quella in cui alcuni poliziotti tenevano in manette l’italiano Fabiani.
A quel punto si scatenò l’inferno e attraverso una sparatoria che vide alcuni agenti feriti, i tre riuscirono a saltare da una finestra posta a cinque metri dal suolo e a dileguarsi.
Fin qui tutto avrebbe potuto appartenere ad una delle tante leggende che i fuorilegge, da Jesse James in avanti, hanno contribuito ad alimentare.
Ma Arkan, questo il soprannome con cui era conosciuto già allora e che lo avrebbe reso tristemente celebre, non poteva accontentarsi di ciò.
Già in quel periodo aveva preso i contatti e svolto alcuni “lavori sporchi” per l’UDBA,, il servizio segreto jugoslavo.
L’eliminazione di alcuni oppositori e di alcuni “terroristi nazionalisti” per conto di quei servizi permise al giovane serbo una rapida e sicura ascesa nel mondo del crimine.
Negli anni successivi alla morte di Tito, disoccupazione e sviluppo degli affari criminali erano cresciuti in Serbia di pari passo.
E con essa crebbero l’influenza e la ricchezza di Arkan
Il ricambio ai vertici dei clan criminali era cresciuto, attraverso gli omicidi e i regolamenti di conti tra bande, in maniera tale che un documentario prodotto sull’argomento si intitolò significativamente “Ci vediamo nei necrologi”; mentre a metà degli anni ottanta alcuni gruppi rock locali divennero celebri cantando “Userò volentieri una pallottola per te / Non farti vedere nella mia vita”.
Ma la guerra che sarebbe scoppiata da lì a poco con la separazione della Slovenia dalla Federazione jugoslava prima e con quella della Croazia dopo, aprì per Arkan e per altri avventurieri nuove, impreviste e praticamente illimitate possibilità di arricchimento e di esercizio del potere personale.
All’ombra di un nazionalismo razzista e ultra-violento i patrimoni personali degli uomini politici più aggressivi e dei signori della guerra, dell’uno e dell’altro fronte, sarebbero gonfiati enormemente.
Nell’inverno del 1989 Jovica Staniši, membro del consiglio della Stella Rossa di Belgrado e capo della sicurezza di Stato di Milošević, contattò Arkan perché prendesse in mano la tifoseria della squadra.
Quei tifosi, inquadrati, organizzati ed addestrati duramente nell’uso delle armi e in ogni tecnica della violenza, divennero una delle più micidiali macchine da guerra e di sterminio.
Erano nate “le Tigri di Arkan”.
Dal fronte croato a quello bosniaco fino all’intervento in Kosovo nel 1998, le Tigri furono presenti in numerosissimi scontri e, soprattutto, in occasione di massacro e di violenze su civili di etnia non serba. Donne, uomini e bambini semplicemente sparirono a migliaia nelle vukojebina, i luoghi dove vanno scopare i lupi.
Ora con il ritrovamento delle fosse comuni e con le testimonianze dei superstiti quei luoghi hanno un nome, ma il soprannome serbo resta il più adatto per ricostruire il clima di quegli anni.
Certo, milizie e gruppi paramilitari di egual ferocia ed origine agirono anche a danno dei territori e delle zone occupate dai serbi.
E altrettanto certamente, nessuna delle grandi potenze che finsero di scandalizzarsi per le stragi e che richiesero più tardi l’intervento militare diretto della NATO e del tribunale dell’Aja per punire i crimini di guerra fu estranea ai giochi diplomatici e militari che determinarono l’implosione della federazione balcanica.
Ma Arkan, con le azioni delle sue Tigri, con il suo cinismo e con il suo modo di mettersi in mostra sia nell’alta società della Belgrado di Milošević che negli ambienti della mala, divenne il simbolo della rovina, del cinismo e della violenza sopraggiunti con quella guerra.
La sua ricchezza, ingrandita con il sequestro dei beni delle comunità cacciate o sterminate, con il contrabbando ed il mercato nero (che l’embargo internazionale nei confronti della Serbia e di altre repubbliche contribuì ad ingrandire a dismisura), fu stimata in centinaia di milioni di dollari.
Una residenza di sette piani, fatta costruire proprio davanti allo stadio di calcio della Stella Rossa, le macchine costose, i simboli vistosi in bella mostra sugli autoveicoli e sui blindati della sua milizia privata, il matrimonio con Ceca, la più celebre e avvenente cantante di turbo folk serbo, di vent’anni più giovane: tutto contribuiva a far di lui un mito presso i giovani serbi ed un nemico odioso per tutti gli altri. Anche per i suoi ex-alleati e protettori.
Nel maggio del 1999 i cacciabombardieri della NATO presero di mira una delle sue centrali operative nel centro di Belgrado: l’Hotel Jugoslavia.
Un mandato di cattura era stato spiccato contro di lui, per crimini di guerra, dal Tribunale internazionale dell’Aja nel marzo dello stesso anno.
Per fare rispettare la legge e il nuovo ordine internazionale, il micidiale tritacarne dell’Alleanza Atlantica, nel corso di settantotto giorni della primavera di quell’anno, fece effettuare ai propri aerei 34mila voli ed azioni di bombardamento ai danni del territorio serbo.
Il 28 maggio anche Milošević fu incriminato dal medesimo tribunale.
I “buoni” avevano vinto con il solito sfoggio di forza e di norme legali.
La popolazione serba, in particolare, e quelle balcaniche , più in generale, avevano perso tutto, tranne i motivi per continuare ad odiarsi.
Arkan era ancora vivo.
Più pallottole lo raggiunsero, sfigurandone il volto, il 15 gennaio 2000.
Erano state sparate da un agente di polizia piuttosto disinvolto nel compiere azioni di killeraggio per conto della malavita e dei servizi segreti.
Tutto ciò e tutti coloro che avevano aiutato Željko nella sua ascesa, ora contribuivano a sprofondarlo sotto qualche metro di terra.
I suoi funerali furono seguiti da migliaia, forse decine di migliaia, di serbi.
Per molti di loro era ancora visto come un salvatore delle krajne e della patria.
Altri lo avevano visto come una sorta di stella del firmamento del rock.
Con una stella vera del rock, Jim Morrison ebbe in comune un padre militare autoritario, la voglia di “avere il mondo, adesso e subito” e una tomba sulla quale ancora oggi i fans lasciano fiori e ricordi. Null’altro.
Erano contemporanei , ma non erano appartenuti allo stesso tempo, né allo stesso mondo.
E questo aveva costituito una bella differenza.
Tutta la differenza che occorre cogliere tra differenti violenze verbali e differenti azioni violente o ritenute solamente tali.
Sempre.
Sandro Moiso
Fonte: www.carmillaonline.com
Link: http://www.carmillaonline.com/archives/2010/10/003657.html
23.10.2010
(Per la stesura di questo testo sono in parte debitore nei confronti dei seguenti testi:
Hannah Arendt, Sulla violenza, Guanda 1996
D.Mungo, V.Abbatantuono, G.Viganò, Noi odiamo tutti, La Città del Sole
Christopher S.Stewart, Arkan, la Tigre dei Balcani, Alet 2009)
(prima parte – continua)