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La Redazione

 

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DUE O TRE COSE SU ANTONIO DI PIETRO, SU BARACK OBAMA E SUL VERO FRONTE DELLA GUERRA IN CORSO

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A cura di Davide
Il 6 Novembre 2012
32 Views

DI SERGIO DI CORI MODIGLIANI
Libero pensiero

Obama-Di Pietro. E soprattutto la libertà di stampa.

Queste sono le due notizie del giorno con le quali si apre la settimana.

Appartengono allo stesso fronte dello scenario geo-politico, nonostante tra questi due personaggi non vi sia nessun legame, tantomeno rispetto alle loro vicende locali.

Eppure, un nesso c’è: riguarda i media, il loro controllo, la loro capacità di manipolazione, di permeazione, di falsificazione della realtà.

Veniamo alla questione Di Pietro perché ha a che vedere con noi italiani in maniera diretta.

Prima notazione: con perfetta sincronicità, l’attacco condotto da Banca d’Italia, quindi dalla BCE e quindi dall’EMS, ad Antonio Di Pietro, avviene lo stesso giorno in cui il dott. Antonio Ingroia, in quel di Palermo, stava impacchettando le sue ultime cose scegliendo quali indumenti personali portarsi appresso in Guatemala, località dove arriva oggi per restarci forse due anni. Il magistrato competente nella maxima quaestio attuale (la trattativa Stato-mafia) se n’è andato verso altri lidi anche perché è stato oggetto di una campagna di attacco personale. Come è noto, l’on. Antonio Di Pietro, insieme al pool di giornalisti de Il Fatto Quotidiano, è stato l’unico leader politico italiano in attività a schierarsi furiosamente in appoggio della procura di Palermo contro la scelta voluta dal presidente della Repubblica. Da notare, inoltre, che il presidente della Rai, signora Anna Maria Tarantola è una finanziera, nel senso di esperta (peraltro eccellente) nonché responsabile di tutto il sistema operativo dell’investimento finanziario speculativo del sistema bancario italiano nei meccanismi internazionali dei capitali derivati e garante –a nome dell’ufficio centrale di Banca d’Italia dove lavorava- del costante flusso di capitali tra governo e banche private. Negli anni decisivi della trattativa Stato-mafia, i funzionari di Banca d’Italia ebbero un ruolo decisivo e preponderante nella complessa rete di gestioni strategiche che dovevano disegnare il Nuovo Ordine Mondiale (di cui l’Italia era parte in quel momento decisiva) perché era finita la guerra fredda e bisognava investire almeno 10.000 miliardi di dollari per farsi carico dei paesi dell’Europa dell’est e la Germania da sola non era in grado di farlo. La trattativa Stati-mafie (il plurale, a mio avviso, è più corretto, più preciso, e spiega meglio l’entità così importante dello scontro) è stata la mamma dell’euro e del fiscal compact. E all’inizio, i grandi colossi finanziari dell’oligarchia planetaria hanno avuto, verosimilmente, bisogno di usufruire del braccio armato della mafia e del braccio finanziario della mafia per avviare quel processo di omologazione schiavistica dell’intero continente di cui, oggi, vent’anni dopo, con tragico e agghiacciante ritardo, gli europei cominciano a prendere atto, soltanto perché oggi stanno presentando il conto della spesa ai singoli popoli. L’attacco a Di Pietro, dunque, non mi sembra casuale. Così come non è casuale che sia stato lanciato dalla Rai. Così come non è casuale che sia avvenuto nel canale politicamente gestito dagli eredi dei comunisti italiani del ’92, protagonisti di quella complessa strategia di alleanze tra Reagan, Gorbacev, Andreotti, Craxi, Occhetto, Mitterrand, lo Ior e tutte le mafie appresso. Fondamentale, in questa fase, imporre la censura, non di Stato, bensì DEGLI STATI, su questo argomento. Approfondirlo, andare a scandagliarlo, smascherarlo, renderlo pubblico, pretendere che venga detta la verità ai popoli, può essere letale per la finanza globale e per la stessa tenuta dell’euro. Quindi Di Pietro andava zittito. All’italiana.

Seconda notazione: se fossimo stati in un altro momento storico o in un paese diverso dall’Italia, Di Pietro sarebbe stato eliminato in un altro modo, o a pistolettate, o per infarto, o per incidente. Gli italiani sono sofisticati, seguono altre strade ben collaudate nei decenni: promuovere gli imbecilli, i corrotti e i corruttibili e, per quanto riguarda gli  irriducibili e i combattenti per la libertà, vale sempre il principio base del KGB e del braccio politico della mafia: calunniare e diffamare, e quindi avviare la pratica costante di isolare l’individuo, gli individui. In un paese come l’Italia è fondamentale abbassare sempre il livello della produzione di pensiero elaborato e l’uso di argomentazioni razionali, al fine di privilegiare ondate di tifo e mode religiose, per avere un esercito inconsapevole di masse populiste pronte a essere usate come carne da macello quando la cupola mediatica ne ha bisogno, sia a destra che a sinistra. Non è certo un caso che il risultato ottenuto dalla trasmissione di Milena Gabanelli  abbia provocato una inedita e nuova visione del mondo e la nascita di nuovi club e pagine su facebook costruite sul delirio web, dove i nuovi nemici sono (messi tutti insieme) Di Pietro/Ingroia/Grillo con l’aggiunta (novità della domenica) di Travaglio, reo di aver scritto un articolo nel quale puntualizzava, in maniera razionale, le notizie riportate. La reazione di massa è stata quella voluta dalla Banca d’Italia e dai nemici della procura di Palermo. I tifosi della giornalista Gabanelli si sono bevuti tutto scatenando il proprio livore, contribuendo a mettere la parola fine a qualsivoglia argomentazione relativa alla trattativa Stati-mafie, da oggi ridotta al silenzio. Anche nel caso ci fossero cento rettifiche, non ha più importanza; i tifosi non sono razionali. Un caso mediatico interessante, perché Gabanelli è sempre stata identificata come una giornalista di denuncia, considerata dai politici “tradizionali” come “una che fa anti-politica”. Impeccabile.

Terza notazione: il trionfo del pensiero unico omologato comporta l’esercizio di una facoltà  molto attiva oggi, modaiola, emotiva, nient’affatto razionale, quella del tifo. La trasmissione “Report” dell’altra sera, appare (perché i contenuti sono stati contestati) come un esperimento mediatico decisivo per il sistema oligarchico della cupola mediatica e allo stesso tempo una minaccia pubblica nei confronti di chicchessia “osi” contrastare i diktat della BCE e dello Stato centrale, della serie “siamo in grado di distruggere chiunque sostenendo qualunque tipo di cifra, data, documentazione, anche clamorosamente falsa, perché ciò che conta non sono i fatti, tantomeno la verità, ciò che davvero conta non è la verità oggettiva bensì il suo mittente”. La gente ha abboccato. Silvio Berlusconi (padre e maestro di tale interpretazione marketing della comunicazione) nella sua indubitabile intelligenza pragmatica oggi ha preso atto che per lui la situazione è cambiata e si è adeguato. Dopo essere stato condannato in un regolare tribunale, è apparso in conferenza stampa sostenendo ipotesi irreali, pensando che ancora valesse per lui il principio che ciò che conta non sono i fatti, bensì “il mittente”. E lì ha avuto una sorpresa. Nessun consenso di massa. Non se l’è più bevuta nessuno. Tradotto, vuol dire: “signori, mi hanno tagliato i fili, il mittente è cambiato”. Da oggi lo rivedremo in formato umile e piagnucoloso pur di salvare le sue aziende.

Quarta notazione: ciò che si fa oggi è abbattere i contenuti, le competenze, le differenze e promuovere il concetto di “visibilità come norma”. Non conta più chi si è, che cosa si fa, come lo si fa, che cosa si scrive o ciò che si dice, conta soltanto (e soprattutto) appartenere in maniera visibile, anche se per pochi minuti, alla cornice dei privilegiati, per poter aspirare a godere di rispetto sociale. Il rispetto, infatti, lo si conquista non per gli atti che si compiono, le mansioni che si svolgono, o l’Essere che si è, bensì per il fatto che si possa essere riconosciuti pubblicamente come “un membro dell’elite superiore”. In tal modo passa il concetto che è inutile studiare, comprendere, capire, elaborare, migliorare se stessi, perché al mercato ci si arriva attraverso l’esibizione e l’apparenza: il Totem-Moloch che gli italiani adorano. Si batte la concorrenza non perché il proprio prodotto è migliore, bensì perché la confezione è più attraente. E’ la promozione dell’inefficienza eletta a sistema, che spiana la strada alla tecnocrazia.

Qui di seguito riporto per intero l’articolo del giornalista Marco Travaglio a proposito della questione Di Pietro. Ha collezionato un incredibile numero di invettive e insulti sulla rete, nonostante sia un articolo davvero molto pacato, sobrio, direi addirittura sotto le righe rispetto allo stile del giornalista. Spiega semplicemente, in maniera lineare e chiara, come sono andati i fatti e come stanno le cose. Se non altro, prima di esprimere idee a proposito, pensateci su, raccogliete dati reali.

MARCO TRAVAGLIO SUL MOMENTO “DIFFICILE” DI ANTONIO DI PIETRO

“Nonostante Report, decine di sentenze, penali e civili, hanno accertato che non un euro di finanziamento pubblico è mai entrato nelle tasche di Di Pietro o della sua famiglia. E nemmeno nelle case”.

“Per evitare altri Scilipoti o Maruccio, sui candidati si nomini un comitato di garanti con de Magistris, Li Gotti, Palomba, Pardi e altri esponenti dell’Idv o indipendenti al di sopra di ogni sospetto”.

“Come ciclicamente gli accade, da quando è un personaggio pubblico, cioè esattamente da vent’anni, Antonio Di Pietro viene dato per morto. Politicamente, s’intende. Gli capitò nel ’94, quando dovette dimettersi da pm per i ricatti della banda B. Poi nel ‘95, quando subì sei processi a Brescia per una trentina di capi d’imputazione (sempre prosciolto). Poi nel ‘96 quando si dimise da ministro per le calunnie sull’affaire Pacini Battaglia-D’Adamo. Poi nel 2001, quando la neonata Idv fu estromessa dal centrosinistra e per qualche decimale restò fuori dal Parlamento. Poi ancora quando il figlio Cristiano finì nei guai nell’inchiesta Romeo a Napoli; quando i suoi De Gregorio, Scilipoti e Razzi passarono a miglior partito; quando alcuni ex dipietristi rancorosi lo denunciarono per presunti abusi sui rimborsi elettorali e sull’acquisto di immobili; quando una campagna di stampa insinuò chissà quale retroscena su un invito a cena con alti ufficiali dell’Arma alla presenza di Contrada; quando le presunte rivelazioni dell’ex ambasciatore americano, ovviamente morto, misero in dubbio la correttezza di Mani Pulite. Ogni volta che finiva nella polvere, Di Pietro trovava il modo di rialzarsi.

Ora siamo all’ennesimo replay, con le indagini sui suoi uomini di punta nelle regioni Lazio, Emilia, Liguria, mentre il centrosinistra lo taglia fuori un’altra volta, Grillo fa man bassa nel suo elettorato più movimentista e Report ricicla le accuse degli “ex” sui rimborsi e sulle case. Si rimetterà in piedi anche stavolta, o il vento anti-partiti che soffia impetuoso nel Paese spazzerà via anche il suo?

Cominciamo da Report, programma benemerito da tutti apprezzato: domenica sera Di Pietro è apparso in difficoltà, davanti ai microfoni dell’inviata di Milena Gabanelli. Ma in difficoltà perché? Per scarsa abilità dialettica o perché avesse qualcosa da nascondere, magari di inedito e inconfessabile? A leggere (per noi, rileggere) le carte che l’altroieri ha messo a disposizione sul suo sito, si direbbe di no: decine di sentenze, penali e civili, hanno accertato che non un euro di finanziamento pubblico è mai entrato nelle tasche di Di Pietro o della sua famiglia. E nemmeno nelle case, che non sono le 56 che qualche testimone farlocco o vendicativo, già smentito dai giudici, ha voluto accreditare: oggi sono 7 o 8 fra la famiglia Di Pietro, la famiglia della moglie e i due figli. Quanto alla donazione Borletti, risale al 1995, quando Di Pietro era ancora magistrato in aspettativa e imputato a Brescia: fu un lascito personale a un personaggio che la nobildonna voleva sostenere nella speranza di un suo impegno in politica, non certo un finanziamento a un partito che ancora non esisteva (sarebbe nato tre anni dopo e si sarebbe presentato alle elezioni sei anni dopo, nel 2001, e l’ex pm lo registrò regolarmente alla Camera tra i suoi introiti).
Il resto è noto e arcinoto: all’inizio l’Italia dei Valori era un piccolo movimento “personale”, tutto incentrato sulla figura del suo leader, che lo gestiva con un’associazione omonima insieme a persone di sua strettissima fiducia. In un secondo momento cambiò lo statuto per dargli una gestione più collegiale. Decine di giudici hanno già accertato che fu tutto regolare, fatta salva qualche caduta di stile familistica e qualche commistione fra l’entourage del leader e il movimento. Di Pietro potrebbe anche fermarsi qui: se, in vent’anni di processi, spiate dei servizi segreti al soldo di chi sappiamo, campagne calunniose orchestrate da chi sappiamo che l’hanno vivisezionato e passato mille volte ai raggi X, riciccia fuori sempre la solita minestra, già giudicata infondata e diffamatoria da fior di sentenze, vuol dire che di errori ne ha commessi, ma tutti emendabili, perché il saldo finale rimane positivo.

Senza l’Idv non avremmo votato i referendum su nucleare e impunità; i girotondi e i movimenti di società civile non avrebbero avuto sponde nel Palazzo; in Parlamento sarebbe mancata qualunque opposizione all’indulto, agl’inciuci bicamerali e post-bicamerali, alle leggi vergogna di B. e anche a qualcuna di Monti; e certe Procure, come quella di Palermo impegnata nel processo sulla trattativa, sarebbero rimaste sole, o ancor più sole. Senza contare che Di Pietro non ha mai lottizzato la Rai e le Authority.

É vero, ha selezionato molto male una parte della sua classe dirigente (l’abbiamo sempre denunciato). Ma quando è finito sotto inchiesta si è sempre dimesso e, quando nei guai giudiziari è finito qualcuno dei suoi, l’ha cacciato. Ora la sorte dell’Idv, fra l’estinzione e il rilancio, è soltanto nelle sue mani. E non dipende dal numero di case di proprietà, ma da quel che farà di qui alle elezioni.

Siccome è ormai scontato che si voterà col Porcellum, dunque ancora una volta i segretari di partito nomineranno i propri parlamentari, apra subito i gazebo per le primarie non sulla leadership, ma sui candidati. E nomini un comitato di garanti con De Magistris, Li Gotti, Palomba, Pardi e altri esponenti dell’Idv o indipendenti al di sopra di ogni sospetto. Qualche errore sarà sempre possibile, ma almeno potrà dire di aver fatto tutto il possibile per sbarrare la strada a nuovi Scilipoti, Razzi e Maruccio.
Nel prossimo Parlamento, verosimilmente ingovernabile e dunque felicemente costretto all’inciucione sul Monti-bis, ci sarà un gran bisogno di oppositori seri, soprattutto sul tema della legalità. Se saranno soltanto i ragazzi di Grillo o anche gli uomini dell’Idv, dipende solo da lui”.

Veniamo adesso a Obama

Che cosa c’entra con Di Pietro?

C’entra.

Non perché vi sia un legame tra di loro, ma perché nella vicenda di entrambi è possibile (ed è questo che a noi interessa) notare l’attuale fase della comunicazione oggi in atto così come la cupola mediatica la intende: “produrre falsi sapendolo perfettamente perché ciò che conta non è più il dato oggettivo, bensì il risultato da ottenere, quindi si può dire qualunque cosa perché tutto si equivale ed è uniformato”. In tal modo non vince chi dice la verità, e neppure vince chi fornisce informazioni, bensì chi ha la massima diffusione. Se 100 link sostengono una qualunque notizia, quella notizia si afferma: ciò che conta è la quantità del consenso. E’ una trasposizione nel campo della logica e della razionalità di un elemento marketing pubblicitario. Tant’è vero che la stragrande maggioranza dei siti web, blog, pagine su facebook e quotidiani online, basano la propria attività nella bulimìa di contatti, per lo più a fini pubblicitari. La logica che si vuol far passare consiste nel fatto che “la notizia che ha più contatti vale di più”. La quantità sostituisce la qualità. Quindi vince la manipolazione. All’occorrenza si può far credere qualunque cosa a chiunque.

Domani si vota in Usa.

La maggior parte dei cosiddetti siti antagonisti italiani sostiene che Obama e Romney sono uguali, entrambi rappresentanti degli stessi interessi, che le loro politiche sono le stesse e che il mondo rimarrà uguale se vince l’uno o l’altro. Non è vero. Non è così. Negli ultimi sette giorni, i sostenitori di Romney hanno investito circa 400 milioni di dollari in una gigantesca campagna pubblicitaria televisiva fondata su falsi, addirittura clamorosi. Tre sono stati immediatamente scoperti e si sono rivelati un terribile boomerang. Il primo (1350 televisioni in tre stati centrali per complessivi 118.500 passaggi quotidiani in video a pagamento) nei quali i repubblicani sostenevano che la General Motors e la Chrysler avevano attuato un piano industriale che presupponeva il disinvestimento dagli Usa, il licenziamento di migliaia e migliaia di operai e la chiusura di diverse fabbriche appoggiati dai democratici. Obama ha chiamato subito Marchionne per chiedere ragguagli in merito e soprattutto ha chiamato il presidente della General Motors (la più grande industria automobilistica del mondo) per avere notizie. Loro hanno negato, e sono stati obbligati dal presidente Usa a diffondere immediatamente dei video di contro-denuncia (a loro spese) denunciando il falso. La Casa Bianca ha dato a entrambe le aziende l’opportunità della scelta: “o denunciate subito il comitato Romney per falso e chiedete miliardi di dollari per danni ma se per caso vince Romney e poi patteggiate siamo noi che denunciamo voi e vi facciamo chiudere le aziende, oppure a vostre spese diffondete immediatamente un video dichiarando come stanno le cose”. E così è avvenuto. Da notare che il presidente della GM aveva deciso di tenersi alla larga (finanziando entrambi con la stessa cifra) e non dire nulla. E invece è sceso in campo e si è ufficialmente schierato dalla parte di Obama. Il secondo punto è stato un altro video più dodici instant books nel quale si spiega come, non appena eletto Obama, l’inflazione aumenterà del 12%, l’economia calerà a picco, e verranno licenziate milioni di persone. Anche in questo caso c’è stata una gigantesca levata di scudi pubblica. Immediata ed esecutiva la denuncia alle case editrici: tutte e dodici hanno preferito ritirare il libro dal mercato e dichiarare bancarotta per non dover pagare i danni. Terzo: se Obama vince, milioni di ragazze minorenni saranno obbligate per Legge ad abortire, incitando la parte più violenta della popolazione ad andare a uccidere i ginecologi. Qui sono insorte tutte le associazioni femminili statunitensi, comprese quelle cattoliche di lingua ispanica (ma non quelle di lingua inglese fortemente presenti nella potente comunità irlandese) e il dibattito è diventato violentissimo e si è spostato tutto, negli ultimi giorni, sulla cupola mediatica. Quarto: il teatro più violento. Con un investimento di 80 milioni di dollari del suo patrimonio personale, Robert Murray, presidente dalla più importante miniera di carbone degli Usa, è intervenuto presentando scenari apocalittici di miseria con dati falsi, completamente inventati. E qui è intervenuta occupy wall street (fino a ieri aveva una posizione defilata e non appoggiava Obama affatto) e il presidente si è guadagnato negli ultimi dieci giorni l’insperato appoggio del più famoso intellettuale americano d’opposizione, il prof. Noam Chomsky che da sempre è stato un suo forte critico. Questa volta, invece, si è schierato. Ha spiegato che la vera battaglia in corso in queste elezioni è tutta incentrata sul “controllo delle fonti energetiche e sull’applicazione di leggi e risorse economiche, sia in Usa che in Europa, al fine di lanciare una nuova politica occidentale ecologica e sostenibile oppure dare il via 1350 nuove perforazioni petrolifere, decuplicando la produzione di carbone”. Inoltre, il Prof. Chomsky ci ha fatto sapere che anche l’Europa sta per attuare scelte decisive su questo e che nel 2002 l’apposito ufficio dell’Onu aveva presentato uno studio ecologico sulla condizione della biosfera nel pianeta sulla base del quale si prevedeva che l’intera massa dei ghiacciai nel Mar Glaciale Artico si sarebbe sciolta entro il  2050 ma l’ultimo studio relativo a un anno fa ha corretto quella previsione: si verificherà nel 2020. E, se vincerà Romney, sulla base della nuova politica energetica da lui voluta, potrebbe addirittura cominciare a manifestarsi intorno al 2015, praticamente domani mattina. Obama, invece, vuole chiudere con petrolio e carbone e dare via a un gigantesco piano new deal di investimento in infrastrutture nell’ordine di 800 miliardi di dollari per la riconversione all’eolico e al fotovoltaico andando all’attacco delle società petrolifere texane alle quali verrà aumentata la tassazione e verranno date immediate scadenze per iniziare la riconversione.

Mi sembra quindi che le posizioni siano molto ma molto diverse.

Gli ultimi sondaggi li danno alla pari.

La maggior parte degli americani andranno a votare senza sapere che si sono bevuti dei falsi. Non è detto che tutti abbiano visto e letto le rettifiche.

Qui di seguito, pubblico un ampio stralcio della splendida conferenza tenuta dal Prof. Noam Chomsky in data 27 settembre 2012, presso l’università di Amherst, nello stato del Massachussets, e poi replicata in data 28 ottobre all’università di Harvard, sono state trasmesse da ben 45.000 diversi canali televisivi. Penso possa interessarvi. Non riguarda soltanto gli americani. Riguarda tutti noi.

Ormai, l’oligarchia finanziaria si è lanciata nella produzione sistematica di FALSI.

Questa è la nuova fase.

E’ un impegno di chiunque abbia a cuore il nostro presente e il nostro futuro, smascherare i falsi. Per ritornare a riappropriarci del Senso, ovverossia “il primato dell’oggettività dei dati sulla cinica interpretazione personale a fini di controllo politico”.

Ecco perchè Obama c’entra con Di Pietro.

Ed ecco perché la vicenda di Di Pietro riguarda tutti noi.

Nessuno escluso.

Prima di tirare la leva della sedia elettrica, bruciando per sempre un leader politico che, nonostante scelte politiche e toni che in passato non sempre ho condiviso,  negli ultimi tempi ha attaccato frontalmente la BCE, la Banca d’Italia e il consociativismo occulto di chi non vuole che il paese sappia quando come e perché i potenti oligarchi, venti anni fa, hanno gestito la trattativa Stato-mafie, ebbene, prima di farlo, rinunciate a un mi piace su facebook tenendo a freno il vostro livore, riflettete, e andate a controllare la documentazione notarile oggettiva.

L’articolo del prof.Chomsky è apparso per intero sul web  e per chi legge l’inglese la fonte è: http://www.zcommunications.org/who-owns-the-world-by-noam-chomsky

In Italia è stata diffusa sul web dal sito: http://www.znetitaly.org
Proviene come fonte dall’organizzazione politica “Democracy Now”,
La traduzione è stata realizzata da Maria Chiara Starace.

Il testo è soltanto una parte dell’ampia prolusione. Questa versione è quella del 28 ottobre 2012, la più recente.

“Chi possiede il mondo?

di Noam Chomsky

Quando pensavo a queste osservazioni, avevo in mente due argomenti, non riuscivo a decidere quale dei due scegliere, in effetti molto ovvii. Uno è: quali sono i problemi più importanti che dobbiamo affrontare? Il secondo è: quali problemi non si stanno trattando seriamente – o per nulla – in questa follia quadriennale in corso che si chiama elezione? Mi sono però reso conto che non c’è un problema; non è una scelta difficile: sono lo stesso argomento. E ci sono delle ragioni che sono di per se stesse molto significative. Mi piacerebbe tornare su questo punto fra un momento. Prima dirò alcune parole sul contesto, iniziando dal titolo che è stato annunciato: “Chi possiede il mondo?”

In realtà, una bella risposta a questa domanda è stata data tanti anni fa da Adam Smith, una persona che ci si aspetta che adoriamo, ma che non leggiamo. Era un po’ sovversivo quando lo si legge. Si riferiva alla nazione che era la più potente del mondo ai suoi tempi, e, naturalmente, era la nazione che lo interessava, cioè l’Inghilterra. E ha fatto notare che in Inghilterra gli architetti della politica sono coloro che possiedono la nazione: e che ai suoi tempi erano i mercanti e i  produttori di merci. E ha detto che essi si assicurano di disegnare le linee politiche, in modo che i loro interessi vengano seguiti in modo particolare. La politica è al servizio dei loro interessi, per quanto sia doloroso l’impatto sugli altri, compreso il popolo inglese.

Smith era, però un conservatore vecchia maniera con principi morali, quindi ha aggiunto le vittime dell’Inghilterra, le vittime di quella che chiamava “l’ingiustizia selvaggia degli Europei”, dimostrata specialmente in India. Ebbene, non aveva illusioni su chi fossero i proprietari, quindi, per citarlo di nuovo, “Tutto per noi stessi e nulla per le altre persone, sembra, in ogni età del mondo, essere stata la ignobile  massima dei padroni del genere umano.” Era vero allora; è vero adesso.

La Gran Bretagna ha mantenuto la sua posizione come potenza mondiale dominante quando il ventesimo secolo era già cominciato da un pezzo, malgrado il  suo declino progressivo. Alla fine della seconda guerra mondiale, il dominio si era spostato rapidamente nelle mani dell’ultimo arrivato  al di là del mare, gli Stati Uniti, di gran lunga la società più potente e ricca nella storia del mondo. La Gran Bretagna poteva aspirare soltanto ad essere il suo socio meno anziano,  come aveva mestamente riconosciuto il Foreign Office britannico (il mistero degli esteri). In quel momento, il 1945, gli Stati Uniti possedevano letteralmente la metà della ricchezza mondiale, incredibile sicurezza, controllavano l’intero emisfero occidentale, entrambi gli oceani, le sponde opposte di entrambi gli oceani. Non c’è nulla, non c’è mai stato nulla del genere nella storia.

E i pianificatori lo hanno capito. I pianificatori di Roosvelt si incontravano  durante la Seconda  guerra mondiale per disegnare il mondo del dopo guerra. Erano molto sofisticati al riguardo, e  i loro piani sono stati abbastanza messi in pratica. Volevano assicurarsi che gli Stati Uniti avrebbero controllato quella che  chiamavano una “grande area” che avrebbe incluso, sistematicamente l’intero emisfero occidentale, tutto l’Estremo Oriente, l’ex Impero britannico, di cui gli Stati Uniti avrebbero preso il controllo, e il più possibile dell’Eurasia – cosa di importanza cruciale – i suoi centri di commercio e di industria in Europa occidentale. E nell’ambito di questa area, dicevano, gli Stati Uniti avrebbero mantenuto un potere indiscutibile con una supremazia militare ed economica, assicurando nello stesso tempo la limitazione di qualunque esercizio di sovranità da parte di stati che potessero interferire con questi disegni globali.

Quelli erano piani piuttosto realistici a quell’epoca, data l’enorme disparità di potere. Gli Stati Uniti erano stati di gran lunga il più ricco paese del mondo perfino prima della Seconda Guerra mondiale, sebbene non ne fossero ancora i principali protagonisti mondiali. Durante la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti avevano guadagnato moltissimo. La produzione industriale era quasi quadruplicata, e ci aveva fatto uscire dalla depressione economica. I rivali nell’industria sono stati rovinati o seriamente indeboliti. Era dunque  un sistema di potere incredibile.

In effetti, le politiche che erano state  delineate sono ancora valide. Si possono leggere nelle dichiarazioni del governo. È diminuita, però, in modo significativo la capacità di attuarle. In realtà c’è un tema importante nelle discussioni di politica estera, nel giornalismo e così via. Il tema si chiama “declino americano.” Quindi, per esempio, sul più prestigioso giornale di relazioni internazionali dell’establishment, il Foreign Affairs, (Affari esteri), un paio di mesi fa,  c’era un argomento che aveva sulla prima pagina in grandi lettere in neretto la domanda: “L’America è finita?” Questo annunciava il tema della questione. E c’è un corollario standard a riguardo: il potere si sta spostando verso occidente, verso la Cina e l’India, che sono le due potenze in ascesa e che saranno gli stati egemonici del futuro.

In effetti penso che il declino sia piuttosto reale, ma si richiedono  alcuni seri requisiti. Prima di tutto, il corollario è altamente improbabile, almeno nell’immediato futuro. La Cina e l’India sono paesi molto poveri. Date soltanto un’occhiata, per esempio, all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite: quei due paesi sono molto in basso. La Cina è circa novantesima. Penso che l’India sia  intorno al centoventesimo posto, l’ultima volta che ho guardato l’indice. E hanno anche terribili problemi interni: problemi demografici, povertà estrema, disuguaglianza terribile, problemi ecologici. La Cina è un grande centro manifatturiero, ma in realtà è soprattutto un impianto di assemblaggio. Assembla quindi parti e componenti,  frutto di un’alta tecnologia che arriva dai suoi centri industriali più avanzati: il Giappone, Taiwan, la Corea del sud, Singapore, gli Stati Uniti, l’Europa – e fondamentalmente si limita a un lavoro di assemblaggio. E così comprate una di queste cose che iniziano con la  -i,  un ipod  della Cina – si chiama prodotto di esportazione cinese, ma le parti, i componenti, e la tecnologia vengono da fuori. E il valore aggiunto in Cina è pochissimo: è stato calcolato. Saliranno nella scala della tecnologia, ma sarà una salita difficile, per l’India ancora di più. Si dovrebbe quindi essere scettici riguardo al corollario.

C’è però un altro requisito che è più serio. Il declino è reale, ma non è un fatto nuovo. Va avanti dal 1945, ed è avvenuto molto rapidamente. Alla fine degli anni 40, c’è un avvenimento che è noto qui come “la perdita della Cina”. La Cina  diventava indipendente. Era la perdita di un enorme pezzo della vasta area asiatica, ed è diventata un problema fondamentale nella politica interna americana. Chi è responsabile della perdita della Cina? Ci sono state un sacco di recriminazioni, ecc. In effetti l’espressione è piuttosto interessante. Per esempio, io non posso perdere il tuo computer, giusto? perché non lo possiedo. Posso perdere il mio computer. Ebbene, la locuzione “perdita della Cina” presuppone in un certo quale modo un principio profondamente rispettato del tipo di consapevolezza dell’elite americana: noi possediamo il mondo e se qualche suo pezzo diventa indipendente, lo abbiamo perduto. E quella è una perdita terribile; dobbiamo fare qualche cosa al riguardo. Non si mette mai in dubbio, e questo è di per sé interessante.

Ebbene, circa nello stesso periodo, intorno al 1950, cominciarono a sorgere preoccupazioni sulla perdita del Sud est asiatico. Questo ha portato gli Stati Uniti alle guerre in Indocina, alle peggiori atrocità del dopo guerra – in parte vinte in parte no. Un avvenimento molto significativo nella storia moderna è avvenuto nel 1965, quando in Indonesia, che era il punto di maggiore preoccupazione – infatti essa è la nazione del Sud est asiatico con la maggior parte della ricchezza e delle risorse – c’è stato un colpo di stato militare, quello di Suharto. Ha portato a un incredibile massacro, che il  New York Times ha chiamato una “sconvolgente strage di massa,” che ha ucciso centinaia di migliaia di persone, per lo più contadini senza terra; ha distrutto l’unico partito politico di massa; ha aperto il paese allo sfruttamento dell’Occidente. L’euforia in occidente era così enorme, che non si poteva contenere. E così sul New York Times , quando ha descritto la “sconvolgente strage di massa”, la ha chiamata “un barlume di luce in Asia.” Quell’articolo è stato scritto da James Reston, il principale intellettuale liberale del Times. E lo stesso è accaduto altrove -in Europa, in Australia. E’ stato considerato un avvenimento fantastico.

Anni dopo, McGeorge Bundy, che era il consigliere per la sicurezza nazionale di Kennedy e Johnson, a posteriori  ha fatto notare che sarebbe stata una buona idea porre fine alla guerra del Vietnam, a quel punto, e ritirarsi. Contrariamente a tante illusioni, la Guerra del Vietnam è stata combattuta principalmente per assicurarsi che un Vietnam indipendente non si sarebbe evoluto con successo e non sarebbe diventato un modello per altre nazioni di quella area. Per prendere a prestito la terminologia di Henry Kissinger usata per il Cile, dobbiamo impedire che quello che chiamava il “virus” dello sviluppo indipendente diffondesse il contagio altrove. Questa è una parte critica della politica estera americana fin dalla Seconda guerra mondiale: la Gran Bretagna, la Francia e altri paesi in grado minore. E nel 1965, era  finito. Il Vietnam del sud era praticamente distrutto. Si sparse la voce rivolta al resto dell’Indocina che esso non doveva essere il modello per nessuno e il contagio è stato contenuto. Il regime di Suharto si era assicurato di non venire contagiato.  E abbastanza presto gli Stati Uniti hanno avuto dittature in ogni nazione di quella zona: Marcos nelle Filippine, una dittatura in Tailandia, Park Chun  nella Corea meridionale. Non c’erano problemi per l’infezione. Pensava che sarebbe quindi stato un buon periodo per mettere fine alla Guerra del Vietnam.  Ebbene questo è il Sudest asiatico.

Il declino però continua. Negli ultimi 10 anni, c’è stato un avvenimento molto importante: la perdita del Sud America. Per la prima volta in 500 anni, dall’epoca dei conquistatori spagnoli, i paesi sudamericani hanno cominciato a muoversi verso l’indipendenza e verso un certo grado di integrazione. La struttura tipica di uno dei paesi Sudamericani era costituita da una piccola elite ricca, occidentalizzata, spesso bianca o per lo più bianca, e da una massa enorme di poveri; paesi separati tra l’uno dall’altro, ciascuno orientato verso l’Europa o, più di recente, verso gli Stati Uniti. Negli ultimi 10 anni, questo aspetto è stato superato in maniera significativa, c’è stato un inizio importante di integrazione, cioè il presupposto dell’indipendenza, e i paesi hanno cominciato ad affrontare alcuni dei loro spaventosi problemi interni. Questa è la perdita del Sud America. Un segno è che  gli Stati Uniti sono stati cacciati via da ogni singola base militare del Sud America. stiamo cercando di ripristinarne alcune, ma proprio adesso non ce ne è nessuna.

AMY GOODMAN : il Professore Noam Chomsky del MIT, discute del riscaldamento globale, della guerra nucleare e della Primavera Araba.

NOAM CHOMSKY: Passando a parlare  dell’anno scorso, la Primavera Araba è proprio una di queste minacce. Minaccia di eliminare quella grande regione dalla grande zona più grande E’ molto più importante del Sudest asiatico e del Sud America. Torniamo agli anni ’40, quando il dipartimento di stato aveva riconosciuto che le risorse energetiche del Medio Oriente sono ciò che chiamavano “uno dei maggiori tesori materiali nella storia del mondo,” una fonte spettacolare di potere strategico; se possiamo controllare l’energia del Medio Oriente, possiamo controllare il mondo. E questo è un tema che pervade tutte le decisioni politiche. Non se ne discute molto, ma è molto importante avere il controllo, proprio come i consulenti del Dipartimento di stato hanno fatto notare negli anni ’40. Se si controlla il petrolio, si controlla la maggior parte del mondo. E va ancora avanti così.

Finora, la minaccia della Primavera Araba è stata abbastanza ben contenuta. Nelle dittature del petrolio, che sono le più importanti per l’Occidente, ogni tentativo di unirsi alla Primavera Araba, è stato stroncato con la forza.  L’Arabia Saudita è stata così eccessiva, che quando c’erano tentativi di scendere in piazza, la presenza della sicurezza era così enorme, che la gente aveva perfino paura di uscire. C’è poco da discutere di quello che succede in Bahrein, dove la rivolta è stata soffocata,  ma l’Arabia Saudita orientale ha fatto di molto peggio. Gli Emirati hanno il controllo totale e quindi tutto va bene. Siamo riusciti ad assicurare che la minaccia di democrazia venisse schiacciata nei luoghi più importanti.

L’Egitto è un caso interessante. E’ un paese importante, è soltanto un piccolo produttore di petrolio. In Egitto gli Stati Uniti hanno però seguito una procedura operativa standard. Se qualcuno di voi entrerà in diplomazia, dovreste comunque impararla. C’è una  procedura standard quando uno dei vostri dittatori preferiti si mette nei guai. Prima lo si appoggia il più a lungo possibile, ma se diventa davvero impossibile, diciamo che l’esercito si rivolti contro di lui, per esempio, allora gli si dà il ben servito e si fa  in modo che la classe degli intellettuali  rilasci  risonanti  dichiarazioni sul proprio amore per la democrazia, e poi si cerca di restaurare il vecchio sistema il più possibile.  Ci sono una serie di casi di questa strategia: Somoza in Nicaragua, Duvalier ad Haiti, Marcos nelle Filippine, Chun nella Corea del sud, Mobutu in Congo. Ci vuole del genio per non accorgersi di tutto ciò. Ed è esattamente ciò che si è fatto in Egitto, e ciò che ha cercato di fare la Francia in Tunisia non proprio con lo stesso  successo.

Ebbene, il futuro è incerto, ma la minaccia della democrazia fin ora è stato contenuta. E’ una minaccia seria. Tornerò sull’argomento in seguito. E’ anche importante riconoscere che il declino negli ultimi 50 anni ce lo siamo inflitto da soli in misura significativa, specialmente a partire dagli anni ’70. Tornerò anche su questo argomento. Prima però fatemi dire un paio di cose sui problemi più importanti oggi e che vengono ignorati oppure non trattati seriamente – intendo dire trattati seriamente nelle campagne elettorali, per buone ragioni. Fatemi cominciare con gli argomenti più importanti.  Ce ne sono due tra questi: Sono di importanza assoluta, perché da questi dipende il destino della nostra specie. Uno è il disastro ambientale, e l’altro è la guerra nucleare.

Non dedicherò molto tempo a esaminare le minacce del disastro ambientale. In realtà, sono in prima pagina tutti i giorni.  Per esempio, la settimana scorsa il New York Times aveva una notizia in prima pagina intitolata: “Alla fine dello scioglimento estivo, il ghiaccio del Mare Artico stabilisce un nuovo record negativo che provoca allarme.” Lo scioglimento questa estate è stato molto più rapido di quanto era stato predetto dai sofisticati modelli informatici e dal più recente rapporto delle Nazioni Unite. Si prevede ora che forse il ghiaccio scomparirà entro il 2020. Secondo la precedente previsione la data doveva essere il 2050. Hanno citato scienziati che hanno detto che questo è “un primo esempio del conservatorismo intrinseco  delle [nostre] previsioni metereologiche. Per quanto terribili [siano le previsioni] sulle conseguenze a lungo termine delle emissioni  che intrappolano il calore….molti [di noi] temono che forse si stanno sottostimando la velocità e la gravità dei cambiamenti impellenti.” In realtà, c’è un programma di studio sui cambiamenti del clima al MIT (Massachusetts Institute of Technology) dove lavoro. Hanno avvertito di questo fenomeno da anni e ripetutamente si è dimostrato che avevano ragione. Il servizio del Times discute brevemente il grave attacco, il grave impatto di tutto questo sul clima del mondo, e aggiunge: “I governi non hanno però replicato al cambiamento con nessuna maggiore urgenza per limitare le emissioni di gas serra. Al contrario, la loro  principale replica è stata quella di programmare lo sfruttamento di minerali di recente accessibili nell’Artico, e le trivellazioni per cercare altro petrolio.” Questo vuol dire accelerare la catastrofe. È molto interessante. Dimostra una straordinaria volontà di sacrificare la vita dei nostri figli e nipoti a favore di guadagni a breve termine, o forse una volontà ugualmente notevole di chiudere gli occhi in modo da non vedere il pericolo incombente – queste cose talvolta si notano nei bambini piccoli; una cosa sembra pericolosa, alloara chiudo gli occhi e non voglio guardarla.

C’è un’altra possibilità, intendo dire che forse glie esseri umani stano in qualche modo cercando di far avverare alla previsione di un grande biologo americano scomparso di recente, Ernst Mayr. Sosteneva, anni fa, che l’intelligenza pare che sia una mutazione letale, e ne aveva delle buone prove. C’è una nozione di successo biologico, che vuol dire che ci sono tantissimi esseri umani sulla terra. Questo è il successo biologico. E ha fatto notare che se si guarda alle diecine di miliardi di specie nella storia del mondo, quelle che sono riuscite bene  sono quelle che mutano molto rapidamente, come i batteri, o quelle che hanno una nicchia ecologia fissa, come gli scarafaggi. Sembra che se la cavino bene. Se però ci si sposta in alto sulla scala di quella che chiamiamo intelligenza, il successo diminuisce nettamente.  Quando si arriva ai mammiferi, è molto bassa. Ne esistono pochi. Cioè, ci sono un sacco di mucche, soltanto perché le addomestichiamo. Quando parliamo degli umani, è la stessa cosa. Fino a tempi recenti,  troppo recenti  per comparire in qualsiasi  spiegazione di tipo evoluzionistico, gli esseri umani erano molto sparsi. C’erano tantissimi altri ominidi che però sono scomparsi, probabilmente perché gli umani li hanno sterminati, ma nessuno lo sa di sicuro. Comunque forse stiamo cercando di dimostrare che gli esseri umani  si inseriscono bene  in un modello generale. Possiamo anche sterminare noi stessi e anche il resto del mondo insieme a noi, e noi siamo fortemente determinati a farlo  proprio adesso.

Bene, passiamo alle elezioni. Entrambi i partiti politici ci chiedono di peggiorate questo problema. Nel 2008 entrambe le piattaforme dedicavano un certo spazio ai modi in cui il governo avrebbe dovuto occuparsi dei cambiamenti climatici. Attualmente, nella piattaforma repubblicana, l’argomento è essenzialmente  scomparso. La piattaforma, domanda, però, che  il Congresso agisca rapidamente per impedire che l’Agenzia di protezione dell’ambiente regoli i gas serra. Assicuriamoci, quindi, di peggiorare la situazione. E chiede anche di aprire la zona dove  dell’Arctic Refuge alle trivellazioni – per trarre (adesso riporto le parole) “vantaggio da tutte le risorse americane che Dio ci ha concesso.”

Dopo tutto, non si può disobbedire a Dio. Riguardo alla politica ambientale il programma dice: “Dobbiamo ripristinare l’integrità scientifica nelle istituzioni pubbliche per la ricerca e eliminare gli incentivi politici dalla ricerca finanziata con il denaro pubblico.” Tutto questo è una parola in codice rivolta al mondo della scienza climatica che significa:smettetela di finanziare le ricerche scientifiche sul clima. Lo stesso Romney dice che non c’è consenso tra gli scienziati, e quindi si dovrebbero sostenere altri dibattiti e ricerche all’interno della comunità scientifica, ma nessuna azione, tranne quella destinata a peggiorare il problema.

Ebbene, e i Democratici? Ammettono che ci sia un problema e sostengono che dovremmo operare per arrivare a un’intesa  che stabilisca i limiti delle emissioni [di gas serra], di comune accordo con altre potenze emergenti. Ma non è così. Nessuna azione. E infatti, come ha sottolineato Obama, dobbiamo lavorare duramente per guadagnare quello che chiama cento anni di indipendenza energetica ottenuta sfruttando le risorse nazionali o quelle canadesi per mezzo della fratturazione o di altre tecnologie elaborate. Non si chiede come cosa sarà il mondo fra cento anni. Ci sono, quindi delle differenze che riguardano  il livello di entusiasmo con cui i pecoroni dovranno marciare verso il precipizio. E’ bene saperlo.

Sergio Di Cori Modigliani
Fonte: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it
Link: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2012/11/due-o-tre-cose-su-antonio-di-pietro-su.html
6.11.2012

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