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DI RINALDO FRANCESCA

Allora, vediamo se ho capito: il processo ai co-architetti dell’11 settembre è la “Norimberga della nostra generazione”; eccetto che, a dire la verità, le cose non stanno proprio così. Oppure: le confessioni fornite da questi criminali sono senz’ombra di dubbio assolutamente attendibili; senonché, neanche questo è proprio del tutto vero. È stata fatta giustizia; no, meglio andarci cauti anche su questo punto.

Procediamo con ordine: “Il Pentagono ha annunciato ufficialmente l’incriminazione di sei presunti terroristi detenuti a Guantánamo per l’attacco all’America dell’11 settembre 2001, che provocarono la morte di 2.973 persone. Per tutti e sei è stata chiesta la condanna a morte”, annuncia Repubblica l’11 febbraio 2008.
Ciò, verrebbe da pensare, è forse stato il prodotto di un processo ricco di suspense, dove gli imputati, confrontati con prove sempre più incriminanti, sono caduti inevitabilmente in contraddizioni e hanno finalmente singhiozzato la loro colpevolezza? Non proprio.
Ne ho tante di domande, cari amici, ma non so da dove cominciare. Dalle investigazioni?
D’accordo: quante nuove sezioni di intelligence pensate siano state create dal Pentagono, dallla Difesa o dal dipartimento della Homeland Security degli Stati Uniti dopo l’11 settembre, per esempio? Io ho perso il conto: Defense Venture Catalyst Initiative (settembre 2001), Counterintelligence Field Activity (febbraio 2002), Office of Special Plans (settembre 2002), National Counterterrorism Center (maggio 2003, inizialmente Terrorist Threat Integration Center), senza contare le pre-esistenti CIA, NSA, NRO, NGA, DIA, etc. ognuna delle quali va ulteriormente frammentata nelle decine di imprese private che hanno in subappalto gli aspetti vitali sui quali si basano questi servizi, come software, sorveglianza, apparecchiature, sistemi satellitari, sistemi informatici che monitorano comunicazioni telefoniche, emails, conti bancari: un complicatissimo labirinto costituito da innumerevoli ditte private che competono fra loro per ottenere i contratti più lucrativi, nella corsa ad offrire ai loro committenti lo stesso identico prodotto: terroristi (o presunti tali).
Poco importa, in questo caotico scenario, se un qualsiasi errore informatico, una comunicazione scorretta, un informatore in malafede, un caso di omonimia, portano all’arresto di persone che non c’entrano in alcun modo (ci scusi tanto: cercavamo un altro Mohammed), come nei casi di Maher Arar (detenuto per un anno in Siria), Bisher al-Rawi (quattro anni a Guantánamo), Jamil el-Banna, Omar Deghayes, Ahmed Errachidi, etc. Quello che importa è che questo business multimiliardario continui a fruttare costanti profitti, indisturbato da irrilevanti dettagli come l’innocenza dei detenuti.
Come sto andando, fino a qui? Procediamo: prove.

In circostanze normali un castello di carte del genere sarebbe destinato a crollare immediatamente, una volta dimostrato quanti innocenti siano stati catturati per errore. In circostanze normali. Fortunatamente per tutti questi sub-appaltatori privati, le circostanze a Guantánamo (e in chissà quante altre simili prigioni sparse per il mondo in locazioni segrete) sono tutt’altro che normali: trovandosi fuori dal territorio statunitense (e pertanto al di fuori della giurisdizione del Congresso) e potendo ignorare sciocche piccolezze come habeas corpus, le compagnie private che hanno condotto gli interrogatori segreti in loco (Blackwater USA? Dynacorp? Inter-Con Security Systems Inc?) sapevano fin dall’inizio di avere carta bianca per ottenere prodotti altamente commerciabili – altresì noti come “confessioni” – con qualsiasi mezzo a loro disposizione, senza timore di fastidiose inchieste. Questo porta alla prossima logica conclusione: tortura?
Certo che no, mai e poi mai, ci è stato ripetutamente detto. Ma allora perché distruggere i nastri sui quali erano incise le confessioni di due presunti operativi di Al Qaida, tali Abu Zubaydah and Abd al-Rahim al-Nashiri? [1]

Sono sempre più confuso. Non si trattava forse di prove irrefutabili della loro colpevolezza? Per non parlare dell’interminabile dibattito su alcune tecniche di interrogatorio (se fossero state utilizzate o no, se alcune di esse fossero da considerarsi “tortura” oppure no, quale fosse in primo luogo la definizione filologoca di tortura) che ha finalmente visto il guardasigilli/procuratore generale degli Stati Uniti Michael Mukasey – torchiato dal Comitato Giudiziario del Senato il 30/01/08 – ammettere con riluttanza che sì, effettivamente, se la procedura da interrogatorio conosciuta come “waterboarding” (quella di affogare temporaneamente una persona; da non confondere con l’altra tecnica che consiste nell’affogare una persona definitivamente, e che è anche conosciuta con il nome di “omicidio”), se tale procedura fosse usata su di lui, allora, in quel caso, sarebbe da considerarsi “tortura”. Sorprendente, no? Il tutto seguito da un cambiamento di posizione sull’adozione della tortura: dalla storiella che no, mai e poi mai, si è passati a una confessione da parte del direttore della CIA Michael Hayden, il quale, davanti alla stessa commissione, ha ammesso che, a dire proprio la verità, alcuni detenuti a Guantánamo erano stati effettivamente, come dire, affogati del più e del meno; ma attenzione, si è subito aggiunto, attenzione a non mettere frettolosamente in discussione la credibilità delle confessioni, perché si sappia che solo ed esclusivamente su tre prigionieri la cui colpevolezza era già certa (Khalid Sheikh Mohammed, Abu Zubaydah e Nashiri) era stata utilizzata detta tecnica, e nessun altro. D’accordo? Le mie domande: quanto tempo passerà prima che quest’ultima versione cambi ulteriormente? E a che scopo affogarli, se la loro colpevolezza era già dimostrata da prove schiaccianti?

È forse il caso di ripetere che, in materia di confessioni, quelle che sono ottenute sotto tortura (di cui “waterboarding” – a quanto pare – è solo la punta dell’iceberg a Guantànamo), hanno tutte una cosa in comune: il fatto che vengono rilasciato in uno stato di agonia, e con l’unico scopo di cessare il dolore? E che una persona giurerebbe qualsiasi cosa sotto tortura? O che un’indagine condotta da Robert Windrem (reporter della NBC) fra gli atti della commissione dell’11 settembre sembra aver rivelato che qualcosa come un quarto delle informazioni fornite alla commissione erano state ottenute tramite la tortura? No scusate, qui esagero: il termine effettivamente usato è “harsh interrogation” che più o meno si traduce come “interrogatorio sgarbato”. Una definizione da far impallidire George Orwell, a mio parere.
Ma la parte più interessante è emersa in un articolo pubblicato sulla rivista americana The Nation il 20/02/08 [2], nel quale si legge che, stando a dichiarazioni rilasciate dal colonnello Morris Davis, ex capo dell’accusa nella commissione militare di Guantánamo, l’intero processo è stato manipolato da elementi installati dall’amministrazione Bush con lo scopo di impedire che vi fossero assoluzioni. Andiamo bene! Spiego: Davis racconta di una conversazione avuta con il consigliere generale per il Dipartimento della Difesa, generale William Haynes, riguardo al famoso paragone con il processo di Norimberga (e al fatto che anche a Norimberga vi fossero state assoluzioni). È a questo punto che Haynes, occhi sgranati di terrore, ha spiegato “Non possiamo avere assoluzioni qui: se abbiamo tenuto questi tizi così a lungo, come possiamo giustificare il loro rilascio? Non possiamo avere assoluzioni, dobbiamo avere condanne”. A questo punto vi consiglio di fare un piccolo esperimento: provate a digitare le parole “we can’t have acquittals” (non possiamo avere assoluzioni) in un qualsiasi motore di ricerca e state a guardare la valanga di articoli che sono stati scritti sulle implicazioni di questa citazione. Una mia ultima domanda (e grazie per la vostra pazienza): riuscite a trovarne anche una microscopica menzione su uno qualsiasi dei nostri letargici giornali italiani? Conto sul vostro aiuto.
Grazie,

Rinaldo Francesca
22.02.08

NOTE:

[1] Vedere, a questo proposito, l’articolo apparso sul New York Times il 19/12/07 intitolato Bush Lawyers Discussed Fate of C.I.A.Tapes, e reperibile su http://www.nytimes.com/2007/12/19/washington/19intel.html?_r=1&adxnnl=1&oref=slogin&adxnnlx=1203772812-NPUIqHg4wlZvWWEd+FXqvg

[2] Ross Tuttle: Rigged trials at Gitmo, The Nation, 20/02/08, reperibile su http://www.thenation.com/doc/20080303/tuttle

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