DI SABINA MORANDI
Liberazione
Ci risiamo. Dopo Veronesi ora ci si mette anche Brunetta a confezionare la sua personale e fantasiosa versione di programma nucleare: basta costruire 50 centrali in Europa utilizzando come garanzia l’oro delle Banche centrali, ed è risolto il problema del caro petrolio e dell’energia. Non stupisce che il ministro della Funzione pubblica non abbia alcuna idea dei tempi di costruzione di un reattore (né della funzione delle scorte di oro, evidentemente) quanto che una questione così tecnica sia diventata il territorio dove esercitare le più spericolate fantasie da parte di ogni personaggio pubblico. Il fatto che esperti e Nobel per la fisica come Carlo Rubbia abbiano da tempo bocciato la scelta nucleare evidentemente non riesce ad inibire l’ansia di protagonismo degli auto-didatti dell’energia.
Dal referendum che ha messo fuori gioco il programma nucleare italiano sono passati vent’anni. Vent’anni di articoli, resoconti e cronache per analizzare a fondo una scelta condivisa da molti paesi europei, e non solo per la paura dell’incidente sempre in agguato. Vent’anni di articoli obbligatoriamente noiosi per dare conto del problema sotto tutti i suoi aspetti, prima di tutto quello economico. Vent’anni di numeri senza nemmeno una smentita, a dimostrazione del fatto che l’atomo è davvero la scelta più costosa in assoluto, anche senza mettere in conto tutti i disastri normalmente pagati dalla collettività, come ad esempio l’irrisolto problema della gestione delle scorie: le poche prodotte nella breve stagione nucleare italiana ancora viaggiano per il belpaese mentre oggi si scopre che gli scarti radioattivi ospedalieri (meno consistenti ma altrettanto pericolosi) vengono tranquillamente buttati nei cassonetti. Poi ci si sono messi pure gli americani – per la precisione l’US Army – con la stima della durata delle restanti scorte di uranio: ancora venti o trent’anni al ritmo di consumo attuale, e poi ti saluto.
Alla fine si finisce con lo scrivere sempre lo stesso articolo che, numeri a parte, dice sempre la stessa cosa: il nucleare è pericoloso, di forte impatto ambientale (le scorie) estremamente costoso e, comunque, di breve durata visto che il problema dell’esaurimento non riguarda solo il petrolio.
Fior di ecologisti – ma anche economisti, climatologi e ricercatori di ogni risma – hanno scritto libri su libri per illustrare metodi più economici e meno inquinanti per produrre la stessa quantità di energia dei costosi reattori. Anzi, paradossalmente, costerebbe ancora meno non produrla affatto, l’energia, ma riparare una rete vecchia di cinquant’anni che ne disperde quasi un terzo. Paesi più avanzati del nostro, e ben più freddi, utilizzano già da tempo l’energia solare così come quella del vento, mentre fioriscono i piani per l’efficienza energetica, quelli cioè che consentono di dimezzare i consumi e quindi raddoppiare l’energia a disposizione senza costruire alcunché. Vent’anni di studi che non vengono mai apertamente contestati dai fan dell’atomo ma semplicemente ignorati in nome dell’ennesima emergenza, vera (come quella climatica) o falsa (come le varie crisi del gas).
Che la lobby nuclearista del nostro paese si occupi poco di simili quisquiglie ha una spiegazione abbastanza ovvia: nello pseudo-capitalismo italico l’affare non è nel futuro – il solare e le rinnovabili – o nella manutenzione dell’esistente quanto nella solita cascata di denaro pubblico che accompagna l’apertura di ogni cantiere. Grazie agli aiuti di Stato – sotto forma di agevolazioni tariffarie, erogazioni a fondo perduto e chi più ne ha più ne metta – le grandi aziende come l’Enel potranno ripianare i debiti accumulati nella stagione delle acquisizioni e Confindustria è contenta. Se poi gli impianti non verranno ultimati non è un problema anzi, forse è anche meglio così saremo dispensati da un’altra stagione di dilettantesca gestione delle scorie.
A questo punto però, sorge spontanea una domanda: perché il governo italiano, ma anche i governi di paesi più “normali” del nostro, sono tornati a flirtare con i programmi nucleari? Visto che economicamente sarebbe più conveniente investire soldi pubblici in vasti progetti di riammodernamento delle reti e di riconversione alle energie rinnovabili, perché si sceglie invece una produzione non rinnovabile, costosa e tendenzialmente pericolosa? Sono due le risposte possibili, una peggio dell’altra. La prima riguarda la trasformazione dell’economia globale da produttiva a parassitaria, come è avvenuto negli Stati Uniti sotto l’amministrazione Bush dove, a riempire il vuoto lasciato dalla deindustrializzazione provocata dalla fuga delle fabbriche verso il lavoro schiavista, ci pensano i regali di Stato alle grandi corporation dell’energia, delle armi o di entrambe le cose insieme. Nell’era del capitalismo delle catastrofi non c’è più posto per i paesi “normali” né per una normale economia basata sul calcolo costi-benefici.
L’altra risposta è molto peggiore ma forse, nel mondo disegnato da Washington dopo l’11 settembre, è abbastanza realistica perché, di fatto, l’energia atomica ha un solo valore aggiunto di cui le altre fonti energetiche sono prive: ci si fabbricano le bombe. Questo non significa che il ministro La Russa sogni l’atomica (sebbene non lo escluderei a priori) ma significa che i governi di tutti i paesi, nel decidere dove riversare i soldi dei contribuenti, non possono non prendere in considerazione la nuova corsa agli armamenti innescata dall’aggressiva politica Usa. Del resto, per quanto intrisa di propaganda, la questione del nucleare iraniano riguarda proprio questo: la possibilità che, attraverso il nucleare civile, un paese ricavi del combustibile da riprocessare per costruire le famose armi di distruzione di massa mai trovate in Iraq. Le proposte occidentali sono incastrate in questo paradosso: si chiede a Teheran di bloccare il processo di arricchimento dell’uranio – pena sanzioni, incursioni o peggio – offrendo in cambio l’accesso alla tecnologia nucleare che migliorerebbe questo processo. Il fatto è che la firma del Trattato di non Proliferazione assicura all’Iran il diritto di sviluppare il nucleare civile sotto stretta osservazione dell’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica, ma non assicura il mondo sul suo eventuale impiego militare. Ma se anche un paese come l’Iran, circondato di vicini nucleari che non si sognano nemmeno di fare entrare gli ispettori (Israele, Pakistan, India…) corteggiasse l’idea di un sistema di difesa del genere c’è poco da stupirsi: è pura e semplice real politik come quella che muove i governanti di ogni paese, che siano fondamentalisti come Bush e Ahmedinejad o moderati come Sarkozy o Brown.
Ci sarebbe sempre l’altra strada, quella che potrebbe rispondere all’insicurezza globale rilanciando il multilateralismo per preparare la transizione al di fuori dei combustibili fossili senza dover passare per la guerra fino all’ultimo bidone. Ma purtroppo chi ci governa ha già imboccato la strada delle guerre coloniali e chi si oppone ha perso la visione d’insieme, e cade spesso vittima dell’ennesima favoletta propagandistica confezionata per convincere i nostri ragazzi a dedicarsi all’unico lavoro ancora ampiamente disponibile, quello del mercenario più o meno privatizzato. L’energia atomica è da sempre strettamente connessa con le esigenze militari, dalla bomba ai proiettili di uranio impoverito ricavati dalle scorie, e dimenticarlo in un momento come questo è davvero grave. Perché, al di là dell’ambiente e del costo economico, questo è forse il motivo più importante per opporsi alla deriva atomica, dove la distinzione fra civile e militare è puramente illusoria.
Sabina Morandi
Fonte: www.liberazione.it
4.07.08