DI LUCA PAKAROV
comedonchisciotte.org
Magari è un sentore, magari no. Quello che si vide più chiaramente a Genova e poi a Roma nella manifestazione dell’ottobre 2011, noi contro loro o loro contro noi, si palesa a poco a poco sempre più distintamente. Le forze dell’ordine che fanno quadrato anche quando si comportano da macellai, applaudono colleghi assassini, espongono nelle loro caserme simboli fascisti (questa è la più esilarante, visto che si sono giustificati dicendo che la bandiera era stata sequestrata in una manifestazione di estrema destra e, già che c’erano, l’avevano appesa nel commissariato di Porta Venezia a Milano, per un po’ – come quando copri un buco dell’intonaco) eppure, mogi mogi, a orecchie basse, si fanno una chiacchierata con Genny ‘a carogna.
Che poi, a dirla tutta, a me ‘sto Genny non mi pare abbia commesso chissà quale reato, con un daspo già scontato sicuramente sarà una testa di cazzo, un balordo, tanto ormai si è detta ogni nefandezza, ma forse non è stato il caso a indirizzare l’attenzione sugli ultrà, sul figlio del camorrista (che è come mettere il marchio di fabbrica) e sul terribile casus belli: una t-shirt che evocava uno dei tanti casi controversi del Paese.
Nella foto: la questura di Milano con la croce celtica
Un marchingegno malefico per schivare il punto: parcheggiare allo stadio per una manifestazione sportiva e farsi prendere a pistolettate, tuttora non si capisce bene perché. O forse il probabile e poco pubblicizzato pistolero, tal Daniele “Gastone” De Santis, è più tollerato perché, corre voce (un eufemismo), appartenente a nuclei neofascisti (candidatosi con Alemanno per Il popolo della Vita). Chissà.
Peggio ancora però mi è sembrato l’editoriale di ieri, martedì 6, del Corriere della Sera, a firma Marco Demarco, in cui, guarda un po’, si giustifica il malessere delle forze dell’ordine per questo ripetersi di attacchi nei loro confronti, e dove, dalle portentose colonne del primo quotidiano italiano, si auspica non verranno attuate le norme già presenti in buona parte d’Europa, tipo il numero identificativo appiccicato sulla divisa. Scrive Demarco: “Una foto può inchiodare un poliziotto e farlo diventare un mostro nell’atto di schiacciare una ragazza e il suo dissenso, ma una telecamera sul casco avrebbe potuto aiutare la ricostruzione del contesto rendendo l’istantanea meno ingannevole”. In altre parole sarebbe meglio fidarsi dei video girati dai caschi della polizia (che, manco a pensarlo, non verrebbero prima sbobinati e ripuliti dei momenti critici) che di un semplice numero di riconoscimento. E il motivo ce lo dice proprio il giornale di Stato per eccellenza: “Per un elementare principio di difesa di chi, in condizioni difficili, deve garantire la sicurezza dei cittadini”. E per la difesa dei cittadini dallo Stato, come la mettiamo?
Verso la fine dell’editoriale ci si chiede: “Quanto populismo istituzionale e quanta demagogia ci sono nel chiedere oggi, in nome della trasparenza, ma nell’indifferenza di una possibile incostituzionalità, la pubblicizzazione degli atti relativi ai provvedimenti disciplinari dei poliziotti e solo dei poliziotti?”. No amico mio, non è populismo chiedere di essere trattati tutti allo stesso modo, pure in un Paese dove il privilegio e le corporazioni tengono banco. È populismo non dare notizie, strisciare per luoghi comuni e casi umani facilmente infiammabili, per compiere il disegno predefinito su grande scala. Io per esempio voglio sapere il nome del poliziotto che ha appeso quella bandiera in quell’edificio perché, prima o poi, potrei finire fra le sue mani. Ed è probabile che al signor Demarco un incidente simile non sia mai capitato. Così come è plausibile che con più trasparenza ci sentiremmo più sicuri, tutti.
Certamente qui non si vuole dire che le forze dell’ordine siano solo piene cani sciolti pronti a punire, tutt’altro, ma mettere gli uni contro gli altri sembra sia un gioco che a qualcuno fa molto ma molto comodo. Alzare il livello dello scontro e della repressione all’interno di uno stesso girone dantesco, quello di una parte della società che a malapena arriva a metà del mese e che conosce solo il malaffare minimo, per il sostentamento, garantisce il perpetuarsi dei grandi saccheggi e dell’impunità. Divide et impera insomma, con i poliziotti sotto Montecitorio a manifestare contro le loro condizioni di lavoro e, il giorno seguente, schierati contro chi manifesta per la propria disoccupazione, ad esempio.
Non si vorrebbe crederlo ma troppe volte viene il dubbio che si stia preparando il campo per qualcos’altro, qualcosa che si percepisce sulla propria pelle, che si respira: la pressione di un sistema sulla strada del fallimento in cui ognuno, ingozzato d’individualismo mercantile, è pronto a battersi solo per se stesso. Non è questione di dietrologia quando i segnali sono tanti. Vecchie categorie di nemici, rinascite di ideologie preistoriche, notizie false, ricamate a puntino e rese vere dai numeri dello sdegno, mancanza di approfondimenti, sensazionalismo, sono il motore di frustrazione e paura che alimentano il senso di appartenenza e l’istinto alla sopraffazione.
Fra gli ultimi, come sempre. Eppure, buona parte – almeno quelli “presentabili” – di quanti ci negano un’esistenza ordinaria erano lì, in tribuna d’onore. Senza fare una piega.
Luca Pakarov
Fonte: www.comedonchisciotte.org
7.5.2014