DI MASSIMO FINI
IlConformista
Quand’ero ragazzo, e avevo appena letto Opera aperta, pensavo che Umberto Eco, nello stagnante panorama intellettuale italiano, fosse un geniale eversore culturale. Negli anni ho dovuto rendermi conto, un poco a malincuore per la verità, che anche Umberto Eco è una vecchia zia del conformismo, del logo comune, dell’ottimismo obbligatorio, non diversamente da quel Mike Bongiorno (l'”everyman”) che egli sbertucciò selvaggiamente in uno dei suoi più famosi Diari minimi. Solo che mentre Mike è una vecchia zia del conservatorismo, Eco lo è, meno innocentemente, del progressismo. Non c’è infatti “communis opinio” o filosofia a “everyman” che gli sfugga o gli ripugni quando si tratta di mettere al riparo dalle critiche quel dogma assoluto del progressismo che è la modernizzazione. Il metodo è quello collaudato e di sicura efficacia: demonizzare il passato, opportunamente caricato dei più triti luoghi comuni, a maggior gloria del presente.
È quanto Eco ha fatto nel bell’inserto dell’Espresso (“La nuova civiltà”, con interventi anche di Ivan Illich e Ilya Prigogine) dove è stato chiamato a dare un giudizio sul Novecento, cioè sulla società tecnologico-industriale, cioè sulla modernizzazione. Il concetto di Eco, non originalissimo, è che, anche ammesso che oggi non si stia granché bene, prima, naturalmente, si stava peggio. E poco importa se, per suffragare questa ipotesi, l’autore è costretto a far torto a qualche realtà e, a volte, anche alla sua intelligenza.
Per segnalare l’immane violenza che caratterizzò la società preindustriale, Eco ricorda i progrom dei Crociati, la strage degli albigesi, la guerra dei Trent’anni e invita a fare la conta. Ma, a parte il fatto che mette insieme avvenimenti appartenuti a secoli diversi (la strage degli albigesi è del 1200, la guerra dei Trent’anni del 1600), Eco sembra dimenticare che solo i due conflitti mondiali del 1900 hanno fatto, fra gli europei, rispettivamente 10 e 38 milioni di morti.
Se si tratta di far di conto non c’è dubbio che il Novecento abbia il record assoluto della violenza. Scrive ancora Eco: “Il nostro secolo è stato meno ipocrita degli altri: ha enunciato delle regole di convivenza… non conta che si continui a uccidere, a violentare, a prevaricare, a negare l’esistenza,: tutte queste cose per la coscienza comune sono diventate delitti, e certamente le si fanno con minor protervia”. A me parrebbe l’esatto contrario. Mi sembra molto più ipocrita e proterva una società che continua a fare il male sotto le bandiere del bene di altre che facevano il male senza considerarlo tale.
Eco evoca l’orrore per “il numero di persone che morivano di fame il secolo scorso”e sembra ignorare quello che Van Illich scrive due pagine più avanti: “Se credete alle statistiche, oggi ci sono più persone denutrite di tutte quelle del passato messe insieme”.
Naturalmente Eco non rinuncia all’argomento di cui tutti i fautori delle “magnifiche sorti e progressive” sogliono servirsi per tappare la bocca ai critici della modernità: nella società preindustriale la vita media era di trent’anni. E gioca volutamente sull’equivoco, fingendo di non sapere che la vita media dell’uomo preindustriale non ha nulla a che vedere (poiché sconta l’alta mortalità perinatale) con la durata effettiva della sua esistenza. Un uomo dell’ancient regime, che si sposava di solito proprio sui trent’anni, viveva mediamente un poco oltre la sessantina. Ciò che abbiamo guadagnato sono quindi una decina d’anni. Ma in conto bisognerebbe anche mettere come era vissuta la vecchiaia allora e come lo è oggi. Ha scritto lo storico C. M. Cipolla: “Il vecchio nella società agricola è il saggio; in quella industriale è un relitto”.
Eco ammette che la modernizzazione ha portato l’angoscia. E non potrebbe fare diversamente perché tutti gli indicatori sono lì a confermarlo. A cominciare dal suicidio. Nella Londra della metà del Seicento, quando la rivoluzione industriale non si era ancora messa in marcia, la percentuale dei suicidi era di 2,5 per centomila abitanti. Nel 1850 i suicidi, nel mondo industrializzato, si erano già triplicati: 6,8 per centomila abitanti. Oggi sono 19,4. In quanto alle malattie mentali hanno avuto un’impennata con la rivoluzione industriale, sono diventate un problema sociale nell’800 e nella prima metà del 900, per esplodere come segno di disagio acutissimo ne secondo dopoguerra. Anche l’alcolismo di massa nasce con l’avvento della società industriale. Infine l’enorme espansione del fenomeno droga è sotto gli occhi di tutti.
In realtà è un’armonia complessiva, dove ogni uomo, per povero che fosse, aveva un posto, un ruolo e un senso (o credeva di averlo, il che fa lo stesso), che è stata irrimediabilmente spezzata dalla modernizzazione. Eppure, nel suo scritto Eco sembra considerare l’angoscia come un prezzo necessario da pagare a quel “benessere” che ripugna a tutti ridurre”. Ma perché? Che società del benessere è mai quella che conosce il più diffuso malessere che sia stato registrato nella storia dell’uomo?
Perché è così difficile riconoscere che il benessere fa male? L’impressione è che uomini come Umberto Eco rinuncino a guardare in faccia la realtà della modernizzazione per il conformistico timore, tipico d’una certa generazione, di non apparire progressisti. Ma progresso non è un ottuso andare avanti. Può essere anche fare qualche passo indietro, o perlomeno di lato, quando ci si accorge di aver imbroccato una strada sbagliata. È preoccupante che “maître à penser” del valore di Umberto Eco non vogliano capirlo e si riducano a livello di “everyman”, imbozzolati, mentre la barca sta già facendo acqua da tutte le parti, in un ottimismo insensato alla Mike Bongiorno. Ancora un passo e li sentiremo gridare: “Allegria!”.
Massimo Fini
L’Europeo 13 – Il Conformista 31 marzo 1990
Fonte: www.ilribelle.com
Link: http://www.ilribelle.com/archivio-editoriali-fini/2010/12/16/dilemma-essere-o-benessere.html
6.12.2010