FONTE: PENSARE IN PROFONDO (BLOG)
In basso potete leggere l’articolo di Federico Rampini su uno sciopero che ha colpito una delle fabbriche che, in Vietnam, producono scarpe della Nike.
Fate attenzione alle parole che i manager della Multinazionale usano. “salari superiori alla media del paese”, “rispetto delle leggi locali” per quanto riguarda gli standard di lavoro.
L’altro elemento perfettamente incastrato in questa logica di un’economia asessuata ed a-etica è quello del meccanismo della catena di produzione che fa della Nike, di fatto, un’azienda virtuale della quale il vero business è quello della valorizzazione del marchio con appalto a terzi di tutti quelli che sono i processi produttivi.
In questa logica le maestranze avranno un interlocutore (il terzista) che potrà sempre dire “se non le produco io le scarpe, la Nike andrà da qualche altro fornitore”. Il ricatto su condizioni di lavoro e salario avrà realizzato il percorso perfetto per fermare al palo le condizioni di vita di quelle persone.
Cosa sia cambiato rispetto alle categorie del capitalismo dell’ottocento è un mistero. Ed è un mistero talmente fitto che è incomprensibile il modo in cui si liquidano categorie (padroni e lavoratori) che di fatto rispecchiano interessi contrapposti e conflittuali.
Non ci vuole un grande sforzo per capire questo tipo di realtà. Basterebbe farsi un giro anche da noi nelle fabbriche e fabbrichette del nord-est, piuttosto che nella cintura di Milano e Torino. Eppure in modo ossessivo rimbalzano le nuove parole d’ordine: produttività per avere maggiori salari, flessibilità per avere maggiore competitività del sistema paese.
Ieri sulla stampa un economista che gode di molto credito tra i giovani universitari ed i riformisti del Pd (Tito Boeri), parlava di produttività in un articolo comparso sulla Stampa.
Partendo dal titolo che denota una certa fragilità nel ragionamento (Se ci fosse la crescita), il nostro illustra la sua ricetta “illuminata”.
“nuove regole di contrattazione, che azienda per azienda, leghino l’andamento dei salari a quello della produttività, anche dove non si svolge contrattazione di secondo livello. Questo porterebbe ad un incremento della produttività in tre modi:
1- stimolerebbe ad incrementi di efficienza in ciascuna azienda perché questi miglioramenti trovano un corrispettivo in busta paga.
2- indurrebbe più lavoratori a cercare un impiego nelle aziende dove il loro contributo viene meglio valorizzato
3- permetterebbe di ridurre la disoccupazione nel mezzogiorno spiegata da salari fissati indipendentemente dalla produttività.”
Questo cumulo di “sciocchezze” testimonia di quanto questa gente sia lontana dalla realtà.
Intanto diciamo che, nella gran parte delle aziende di un certo livello, di solito esistono dei programmi di incentivazione che dovrebbero premiare la qualità del lavoro svolto. Che da questo dipenda il livello della produttività è tutto da dimostrare. E che dal livello della produttività dipenda la competitività dell’azienda e la sua capacità di stare sul mercato anche.
Diciamo anche che, in Italia, se c’è un deficit di produttività questo risiede nella scarsa capacità di rendere produttivo il capitale fisso e non quello del lavoro salariato.
Basterebbe citare il caso della Fiat e confrontare le buste paga dei lavoratori per capire come, indipendentemente da questo fattore, i salari dei lavoratori hanno perso potere d’acquisto (nonostante i premi) nel corso degli anni.
Pur in presenza di risultati significativi (30 anni fa ci voleva l’equivalente di circa 4 mesi di stipendio per acquistare un’auto per un operaio, oggi si è passati a 10/12- fonte la Repubblica) in settori di eccellenza e con risultati significativi sui bilanci delle aziende, nulla è cambiato sul fronte dei salari.
Cosa dire poi della produttività quando un mercato perde il 20% anno su anno (vedi ultimi dati di vendita del settore auto)?
Quello che è paradossale nel ragionamento di Tito Boeri è che il lavoratore avrebbe l’interesse ad andare dal suo capo e dire una roba tipo “senti testa di cazzo,se non mi cambi la catena di montaggio e non prendi quella con una frequenza maggiore e mi dai quindi la possibilità produrre di più sempre di più io non ci guadagno un cazzo”, dopo di che andrebbe dal direttore commerciale e direbbe “senti pirla faccia di minchia, che noi non abbiamo studiato e parliamo così, quando cazzo li mandi i tuoi venditori a vendere che ci abbiamo un 3.000 macchine ferme da due mesi sul cortile?” Per completare il quadro la sera a tavola cazzierebbe la consorte sentenziando “Uei sura Lella, quando cazzo cambi la macchina tu e quelle zitelle delle tue amiche che ci ho i risultati di vendita da raggiungere?” Una sorta di “padroncino” senza “mezzi di produzione”.
Lo stesso soggetto (ma possiamo pensare anche ad un operatore di call center, piuttosto che una cassiera, o un ricercatore) sfoglierebbe il venerdì il Corriere della Sera per cercare quelle aziende in cui il “suo contributo verrebbe meglio valorizzato”.
Mi chiedo dove siamo.
E per fare questa roba abbiamo bisogno di padroni e di gente come Tito Boeri?
Non male anche la questione del Sud, dove sembra che la disoccupazione dipenda dai salari fissi e non da fenomeni quali il caporalato e la micro imprenditorialità in cui si lavora in nero, perchè di dare un euro in più non se ne parla.
Non fosse così che interesse avrebbero i marchi ben noti del made in Italy a far produrre scarpe e borse nella provincia di Napoli piuttosto che in Cina?
Solo che Tito Boeri è economista e scrive, noi che anche abbiamo studiato non abbiamo capito un cazzo di come vendere l’anima al pensiero unico dei vari “Veltrusconi”.
Fonte: http://pensareinprofondo.blogspot.com/
Link: http://pensareinprofondo.blogspot.com/2008/04/di-produttivit-salari-tito-boeri-e.html
2.04.08
VIETNAM, LA MARCIA DEGLI OPERAI “NOI SFRUTTATI DALLA NIKE”
DI FEDERICO RAMPINI
La Repubblica
È il più grande sciopero nella storia del Vietnam riunificato sotto le bandiere del comunismo. E colpisce una marca-simbolo della globalizzazione: 20.000 operai e soprattutto giovani operaie hanno paralizzato uno dei più grossi stabilimenti della Nike. È un nuovo duro colpo per l’immagine della Nike, che è già stata il bersaglio di campagne delle associazioni umanitarie e dei consumatori americani per gli scandali del lavoro minorile e per lo sfruttamento sistematico della manodopera nei paesi più poveri.
I lavoratori della fabbrica di Ching Luh, nella provincia meridionale di Long An, da ieri sono scesi in lotta per ottenere aumenti salariali. La loro paga attuale non raggiunge i 40 euro mensili: meno del prezzo medio di un solo paio di scarpe sportive in un ipermercato occidentale. E anche se questo è un salario “superiore alla media degli operai vietnamiti”, come si è affrettata a precisare la multinazionale, le buste paga hanno visto il loro potere d’acquisto taglieggiato da un’inflazione galoppante, soprattutto per il genere alimentare più essenziale, il riso.
Nguyen Van Thua, il leader del sindacato provinciale, ha dichiarato ieri che “gli operai non riescono più a sopravvivere con questo salario, il costo della vita li impoverisce giorno dopo giorno”. L’improvviso sciopero ha bloccato una delle fabbriche più importanti, in un paese-chiave per la delocalizzazione produttiva della Nike. La multinazionale americana, numero uno mondiale nell’abbigliamento sportivo per teenagers e negli “sneakers” (scarpe da jogging, tennis e basket), fa confezionare in Vietnam 75 milioni di calzature all’anno. La fabbrica di Ching Luh è la più grossa tra i dieci centri di produzione situati nello Stato comunista.
Ma secondo una politica seguita sistematicamente dal colosso americano, lo stabilimento non è posseduto dalla Nike che perciò può dissociarsi dalle responsabilità del management. I proprietari in questo caso sono imprenditori taiwanesi, legati da un contratto di fornitura in esclusiva per la Nike.
“Riconosciamo che l’impatto dell’inflazione è duro per il popolo vietnamita – ha commentato dagli Stati Uniti il portavoce della Nike Chris Helzer – e speriamo che il problema sia risolto rapidamente e in modo consensuale”. Il rappresentante della multinazionale, celebre per i contratti di sponsorizzazione miliardari con le più celebri star dello sport mondiale, ha aggiunto che “tutti i fornitori della Nike sono tenuti a rispettare i nostri standard elevati riguardo alle condizioni di lavoro, nel rispetto delle leggi locali”.
Federico Rampini
Fonte:www.repubblica.it
LInk: http://www.repubblica.it/2008/04/sezioni/esteri/vietnam-sciopero/vietnam-sciopero/vietnam-sciopero.html
2.04.08