DI MIGUEL MARTINEZ
Kelebek
Una volta, le trasformazioni ci davano il tempo di illuderci di vivere in un mondo stabile. Solido, si direbbe.
Almeno quanto bastava per fare un progetto: una carriera, un matrimonio, una rivoluzione, ad esempio. Il futuro era quindi luogo di speranza, o almeno qualcosa che si può pensare di costruire.
Oggi, quando un giovane si iscrive al primo anno di una facoltà universitaria, sa già che quando si sarà laureato, il mercato vorrà qualcosa di completamente diverso da ciò che lui avrà da offrire: un segno della liquefazione del mondo.
Le mille manifestazioni di questa precarietà – termine che non a caso definisce oggi il lavoro stesso – generano uno stato globale di angoscia e insicurezza.
In un certo senso, la causa non è complessa: ha la semplicità delle macchine e dei conti in banca.
Ogni volta che facciamo qualcosa, ce ne viene qualcosa di utile, ma anche materiale di scarto. Mangio il pesce, e ne ricavo nutrimento; ma – a parte il pesce stesso, che nella trasformazione non ci guadagna di certo – molto è stato disperso lungo tutta la linea tra il mare e la mia bocca.
La linea di dispersione è varia e complessa, ma la direzione è sempre quella.
Il sudore e il tempo del pescatore, la benzina persa in mare dal peschereccio, le reti che si logorano, il camion che per portarmi il pesce ha dato il suo piccolo contributo alla devastazione del manto stradale, nonché all’inquinamento dell’aria.
Quindi, non c’è processo di trasformazione che non comporti la produzione di scarti.
Solo che non era mai esistito, nella storia umana, un sistema che avesse fatto dell’accelerazione della trasformazione la propria missione, come fa il capitalismo.
Investire 100, per ricavarne 110. Quel dieci in più dà l’impressione di un miglioramento, e sta qui il suo irresistibile fascino; ma da qualche parte quel dieci è stato cavato fuori, è un costo, non per l’investitore, ma per qualcosa o per qualcuno.
Miliardi di persone – potenzialmente l’intera specie umana – gareggiano nell’ottenere quel margine. In questa gara universale, ogni individuo è esposto: idealmente agisce da molecola, in competizione con ogni altro essere umano vivente su questo pianeta. Una gara totale, dove però vale il principio fondante dell’americanismo: “Second place is nowhere” – chi arriva secondo, non arriva da nessuna parte.
La gara è per la generazione di prodotti. Non necessariamente materiali, anzi l’evanescenza è una caratteristica dei nostri tempi – il virtuale e il logo vanno di pari passo.
Ma nemmeno i prodotti evanescenti sono esenti dalla produzione di scarti.
Prodotti e scarti, quindi. “Di più” e “più in fretta”.
“Di più” significa che nulla deve sfuggire al processo; ogni cosa esistente, dalla costa incontaminata alle visioni di un autore, deve diventare merce, cioè prodotto e scarto, o prodotto scartato, perché il prodotto precedente deve far posto al prodotto nuovo.
Ma anche umanità scartata, perché tutto ciò che non è integrabile come soggetto consumante, diventa scorie di umanità, la base dell’enorme produzione di sradicati, spiantati, profughi e rigettati di ogni colore e sorta.
“Più in fretta” significa che la produzione di scarti deve essere continuamente accelerata; e la velocità della rete permette di trasformare settimane in giorni, giorni in ore, e ore in simultaneità: il tempo, tendenzialmente, si accelera fino ad annientarsi.
Potremmo dire che la combinazione tra “di più” e “più in fretta” sia l’obiettivo del capitalismo, nel senso della meta verso cui tendono, magari senza pensarci, tutti coloro che partecipano ai suoi processi (compreso, ovviamente, il presente traduttore di manuali tecnici).
In una situazione ideale – come il vuoto senza attrito dei fisici – il “di più” del capitalismo dovrebbe a un certo punto significare tutto; e il “più in fretta” un unico istante.
Cioè la trasformazione, in un lampo, di tutto l’esistente in qualcos’altro; che è contemporaneamente un unico, totale prodotto e un unico, totale scarto – creative destruction.
L’Uomo dei miti ottocenteschi, con la sua lettera maiuscola, che forgia il proprio destino, realizzandosi come dio e principe di questo mondo, al grido di “Fiat!” (ma, dati i tempi, è più probabile che urli, “Nokiaaaaa!”).
Però non esiste l’Uomo in astratto: esistono gli uomini determinati. Non è l’umanità, ma è quel tale, il più grande imprenditore di tutti i tempi, che sgomitando sui cadaveri di tutti gli altri, in un solo gesto realizza il sogno della categoria: il Big Bang dell’Ultimo Concorrente.
Certamente non succederà questo. Sappiamo che nessuno al mondo ha mai realizzato davvero i propri obiettivi. Per questo, non possiamo dire come andrà a finire.
Sappiamo solo che la Grande Muraglia si è aperta: per la prima volta nella storia, a livello mondiale, è crollato ogni freno cosciente al capitalismo, che si è proclamato così assoluto: ab-solutus, sciolto, senza vincolo alcuno se non le proprie regole interne.
Il Big Bang dell’Ultimo Concorrente indica una meta, un destino per questo mondo.
Questa meta qualcuno la può condividere, anzi probabilmente la condividono in tanti.
Noi, no.
E questo crea una vera divisione, una vera scelta di campo, che viene prima di tutte le altre.
Miguel Martinez
Fonte: http://kelebek.splinder.com/
6.09.07