DI “EDGAR J.” E DEI TEMPI CHE CI ASPETTANO…

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DI HS
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Da che ricordi ho sempre diffidato di chi sostiene che un prodotto dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento si può considerare esclusivamente sotto il profilo puramente commerciale e del consumo. Se è indubbiamente ovvio che prodotti editoriali come libri e riviste di settore, i CD musicali, le pellicole cinematografiche e gli spettacoli televisivi come realities e fiction – e perfino taluni spettacoli sportivi – sono ideati e realizzati per attrarre pubblico e introiti, nondimeno – e anche inconsapevolmente – costituiscono delle operazioni culturali e – per ciò stesso – anche “politiche” nel senso più stringente del termine. Comportamenti, atteggiamenti ed opinioni che stanno alla base della vita individuale e collettiva vengono condizionati e perfino determinati dalle nostre esperienze, dalle nostre relazioni sociali, dal contesto sociale e culturale in cui viviamo e – sembra quasi scontato ammetterlo – da ciò che consumiamo, in primis proprio nell’ambito del mercato culturale, dei mass media e dello spettacolo. Non sarei così netto e reciso – fossi nei panni di qualche solerte e borioso critico – da escludere che l’intrattenimento e il divertimento costituiscano una sfera completamente separata dal nostro quotidiano vivere civile e politico, perché spesso quelle che appaiono operazioni da puro divertissement celano un intento culturale e propagandistico. In tal modo, se si accetta tale premessa risulta arduo accogliere un approccio critico che ricorra esclusivamente ai canoni estetici, formali e stilistici. Il contenuto, inevitabilmente, vuole la sua parte anche quando sembra latitare o essere assente. Accanto al giudizio estetico deve essere preso attentamente in considerazione un approccio contenutistico e, anzi, l’uno finisce per intrecciarsi quasi inevitabilmente con l’altro. E poi narrazione, situazioni, personaggi, tempi, luoghi, ecc… non ci comunicano forse e soprattutto dei contenuti di diversa natura. Un recipiente va giudicato l’acqua che riesce ad accogliere, per la sua capacità… A mio avviso un’opera che è frutto di creazione e di inventiva è tanto più “artistica” e “personale” e, quindi, pregna di bellezza e di valore quanto più il suo creatore riesce ad oggettivare il proprio spirito creativo distanziandosi e quasi astraendosi dalla massa e dal conformismo imperante. Ciò implica necessariamente che l’artista, l’autore autentico sia colui che si oppone tanto alla spettacolarizzazione e alla commercializzazione della creatività quanto all’allestimento di operazioni culturali dal sapore propagandistico.

Fate attenzione quando assistete alla proiezione di una pellicola, tenete a mente i dialoghi e registrate le sequenze, vi accorgerete che il cinema – e soprattutto quello hollywoodiano – registra la temperie culturale quotidiana e contemporanea e che, in qualche modo, influisce sulla stessa. In questo senso il successo di pubblico diventa anche funzionale alla trasmissione quanto più estesa possibile di un messaggio che deve arrivare a una buona fetta della “polis”. Ripensiamo a Hollywood e al cinema degli ultimi anni, senza andare troppo indietro nel tempo… A cavallo fra il 2007 e il 2008, quando l’Amministrazione della “guerra permanente” del repubblicano Bush jr. stava rapidamente declinando e perdendo consensi significativi nella popolazione, uscì una serie di cupe e perturbanti pellicole che alludevano ai guasti, alle storture e alla crisi morale della società americana. Pensiamo ai titoli migliori del lotto come “Non è un paese per vecchi” – una delle opere migliori dei fratelli Coen -, “Il petroliere” di Paul Thomas Anderson che alludeva evidentemente alle origini poco nobili delle fortune della dinastia di petrolieri della famiglia Bush, “Onora il padre e la madre” – ultima fatica del compianto Sidney Lumet, autore di tante memorabili pellicole – o anche “American gangster” di Ridley Scott. Gli “eroi” di tutte queste opere – alcune delle quali degne di rimanere scritte a caratteri cubitali nel libro della storia del cinema – sono assassini, depravati, mostri senza pietà… L’America sembrava aver acquisito la cognizione della perdita di una leadership “morale” e di essere sprofondata nel vuoto di valori e di principi. L’anno dopo la musica dello spartito cambia e si modifica radicalmente: i toni mesti e crepuscolari vengono rimpiazzati da un ritmo frizzante che spazia dall’”allegro” all’”allegretto”, all’insegna di una ritrovata speranza e di un rinnovato ottimismo. Nella stagione della sbornia mediatica obamiana sull’”altra America”, quella dei diritti civili e della libertà, spicca il successo di “Milk” di Gus Van Sant, manifesto sui diritti degli omosessuali in America e “Nixon/Frost – la sfida” di “Richie Cunningham” Ron Howard, un omaggio al giornalismo di denuncia e di assalto, capace di pungere il Potere e i politici disonesti. Anche quel periodo si è avviato rapidamente alla conclusione e il cinema si adatta ai tempi nuovi, tempi in cui non c’è più spazio per le “orge democratiche” spesso prive di reale sostanza…

Le feste natalizie stanno per concludersi e, con loro, il clima parzialmente “spensierato” diffuso dalle pellicole che usualmente sono le peggiori della stagione. Curiosamente l’anno nuovo si aprirà con due film che “recuperano” due storiche e controverse figure celebrate dalle vecchie destre visceralmente anticomuniste e dalla Nuova Destra economicista, neoliberista e neoconservatrice, espressione di quella “superclasse” che, insediata ai vertici delle corporations, delle multinazionali, degli istituti finanziari internazionali, delle grandi industrie e delle Borse, condiziona i destini di popoli, nazioni e stati. Se l’attesissimo “Edgar J.” del sempreverde Clint Eastwood ritrae la vita dell’onnipotente Hoover, il direttore dell’FBI che si segnalò come efficiente ed efficace repressore e persecutore dei nemici dell’American Way of Life, “The Iron Lady” di Phyllida Lloyd rappresenta il premierato britannico della neoconservatrice Margaret Thatcher, la donna che per prima rese popolari quelle idee e quei principi neoliberisti e neoconservatori che già erano patrimonio delle elites. Guardando il trailer di quest’ultimo, si ravvisa immediatamente il tono compiaciuto e ammiccante affidato alle capacità attoriali della bravissima Meryl Streep, come ben si confà alla regista del musical furbetto “Mamma mia !”. L’impressione di assistere a sapienti orchestrazioni di operazioni politico culturali che, astutamente, cercano di guadagnare consensi ad un nuovo corso politico negli USA e nella Gran Bretagna – con riflessi anche sugli “alleati” occidentali – non è stata attenuata, ma, anzi, rafforzata dalla visione dell’ultima fatica del vecchio Clint. D’altronde è pure singolare la scelta di tradurre nel linguaggio di celluloide le gesta e i travagli di due personaggi che, in qualche modo, appartengono a minoranze che a lungo sono rimaste senza voce in capitolo nella sfera civile e politica. Se Mrs Thatcher è stata la prima donna – premier occidentale, a lungo si è discusso sulla presumibile – ma quasi certa – omosessualità del potente direttore dell’FBI. Come vedremo Eastwood calcherà la mano sul versante “privato” della biografia di Hoover affidando la stesura della sceneggiatura a Dustin Lance Black – premio Oscar per “Milk” – che non si risparmierà certo a raccontare il lato omosessuale nascosto del poliziotto numero uno d’America. Il nuovo (?) corso ha bisogno di strizzare l’occhio alle minoranze…

Poteva il buon Clint imbarcarsi in quella che – ai miei occhi – è apparsa in tutta evidenza come un’abile e accorta operazione propagandistica a beneficio dei “tempi nuovi” ? In fondo sono sempre stato un buon ammiratore del regista ed attore californiano che reputo uno dei migliori autori americani degli ultimi due decenni, un artista anche coraggioso in grado di “infilare” una serie di pellicole memorabili e di indubbio valore come “Mystic River” – per il quale venne chiamato un affiatato gruppo di attori piuttosto “disallineati” rispetto all’establishment hollywoodiano -, il commovente “Million dollar baby” e il crepuscolare “Gran Torino”, per tacere del “western definitivo” che ha seppellito il genere e ogni sua possibilità di rinascita, ossia “Gli spietati”. Sapere che “Edgar J.” reca la sua illustre firma, non mi procura però soverchia delusione, poiché da qualche tempo il buon vecchio ispettore Callaghan sta sparando cartucce “a salve”, proiettili spuntati e privi di efficacia e ci si avvede che quanto più il suo sguardo d’autore si fa esplicitamente “politico” come nel non esaltante ed “obamiano” “Changeling” o nel trascurabile “Invictus” tanto più il risultato lascia a desiderare per forma e per contenuto. Anzi, soprattutto in “Edgar J.” emergono i difetti delle precedenti fatiche. Intendiamoci, il tocco esperto, personale e creativo è sempre ravvisabile, soprattutto nell’ottima ed elegante fotografia, nella cura dei dettagli, nella innegabile bellezza di alcuni fotogrammi e nella lieve e struggente musica composta dallo stesso Eastwood. Ma nel complesso “Edgar J.” è sin troppo artefatto, programmato e costruito per emozionare realmente e il suo intreccio rivela una linearità disarmante. Certo, l’autore conosce i suoi polli, un pubblico ormai poco avvezzo alle sale cinematografiche, e riesce nell’intento di destare commozione quando affronta i risvolti sentimentali della vicenda. Si tratta, tuttavia, di un espediente che non cancella l’impressione di un allestimento asettico e freddo e che non rifugge da una certa convenzionalità, tipica delle realizzazioni filmiche programmate e pianificate. Certo è che con “Edgar J.” finalmente il regista si sbarazza di ambiguità e delle apparenti contraddizioni e, nonostante tutto, rivela chiaramente di essere sempre stato un repubblicano di ferro, un conservatore “illuminato” di estrazione tipicamente americana. Naturalmente che nell’anima del vecchio Clint ci sia sempre posto per le ossessioni e le convinzioni del buon ispettore Callaghan non è una vera sorpresa. Un senso di amarezza e di inquietudine mi attanaglia e mi attraversa, però, se penso che un film possa essere realizzato per cercare di imporre e di estendere presso il pubblico adorante una particolare visione del mondo passato ed attuale con il ricorso di astuti espedienti di mestiere…

Oscuro e giovane ex funzionario della Biblioteca del Congresso e poi dell’FBI, Edgar J. Hoover dirigerà per circa cinquant’anni l’agenzia investigativa federale, ammodernandola e creandola praticamente dal nulla. In tale veste si farà la fama di efficiente ed integerrimo superpoliziotto, persecutore di malviventi, delinquenti, gangster, rapinatori, teppisti, radicali ed estremisti. Tuttavia non si limiterà a indossare le vesti del solerte e leale esecutore e di custode dell’ordine e della sicurezza americane, ma influirà sulla politica in maniera assolutamente spregiudicata grazie alla imponente opera di schedatura e alla potenzialità di ricatto accumulate nei confronti di ben otto Presidenti, repubblicani e democratici. In altri tempi un simile personaggio avrebbe offerto la ghiotta opportunità di sviluppare un complesso, ficcante e critico discorso sul Potere nella sua versione poliziesca e repressiva mostrandone senza fronzoli e sconti le storture e le deviazioni anche in un contesto istituzionale che si presume “democratico”. Immaginate che figura ne sarebbe scaturita nelle mani di un regista come il compianto Elio Petri – l’autore dell’indimenticato “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” che ha offerto un ritratto al vetriolo di “sbirro” ligio alle necessità e alle finalità del Potere – o anche, parzialmente, come l’Oliver Stone degli anni Ottanta – Novanta. Indubbiamente questi approcci autoriali non corrispondono alla personalità e alla poetica di Eastwood il quale mostra un’innegabile indulgenza nei confronti del discusso protagonista. D’altronde già il titolo – con l’indicazione del solo nome proprio del direttore dell’FBI – prelude già ad un tono di “familiarità” e vagamente affettuoso… Nella pellicola Hoover ha il bel volto di Leonardo Di Caprio – molto diverso dall’originale che, fisicamente era un ometto basso, tarchiato ed insignificante – il quale fornisce un’ottima performance ma non certo eccezionale. Fra un flashback e l’altro assistiamo alle sue gesta e alle vicende relative alla sfera privata vissute in gioventù e durante la vecchiaia. Quello che dovrebbe balzare immediatamente all’attenzione dello spettatore accorto è la mancanza di una minima descrizione del contesto istituzionale, sociale ed economico in cui l’FBI di Hoover operò. Una lacuna di un certo peso in un film che si presume appartenere al genere “storico” a cui si accompagnano le omissioni sugli aspetti più oscuri, discussi ed inquietanti della vita di Hoover. Innanzitutto non si capisce esattamente chi fossero gli anarchici e gli stranieri che minacciavano lo stile di vita americano al principio degli anni Venti e che rappresentavano il “pericolo rosso”, da dove venissero e cosa si proponessero. L’accenno alle deportazioni manca di rilevare come esse fossero dettate anche dal razzismo e dall’isteria e, naturalmente, non un cenno viene dedicato al caso degli anarchici italiani Sacco e Vanzetti, condannati ingiustamente a morte perché ritenuti due individui pericolosi per la società. Perfino la Crisi del Ventinove con la sua portata e le sue conseguenze non trovano il minimo spazio nella pellicola di Eastwood. Le domande più scomode sulla carriera e sulla biografia di Hoover sono state accuratamente scansate, mentre invece avrebbero meritato un altro tipo di approccio. Come mai, ad esempio, mentre l’FBI di Hoover non si risparmiava nella guerra dichiarata al gangsterismo, Cosa Nostra italoamericana e la criminalità organizzata espandevano i loro profitti prima con la vendita clandestina degli alcolici e poi con i traffici di stupefacenti e con il gioco d’azzardo senza il minimo disturbo ? Come mai il direttore dell’FBI sostenne a lungo che la “mafia non esisteva”? Era forse ricattato dalla criminalità organizzata a causa del suo vizietto per le scommesse sui cavalli ? Perché l’FBI diede un così scarso contributo nelle investigazioni sui delitti eccellenti degli anni Sessanta come gli assassinii dei fratelli Kennedy, di Martin Luther King – letteralmente detestato da Hoover – e di Malcolm X ? Mentre nel film Hoover/ Di Caprio indirizza una falsa lettera minatoria per screditare Martin Luther King, viene citata la famigerata operazione COINTELPRO, una vasta operazione di spionaggio e provocazione zeppa di illegalità e altre violazioni messa in piedi dall’FBI per annientare quelli che venivano – a torto o a ragione – percepiti come “gruppi di odio”, movimenti ed associazioni presumibilmente estremistiche che minacciavano la nazione, dalle Pantere Nere al Klu Klux Klan passando per gli studenti radicali dell’SDS. Una Commissione senatoriale accertò come nei confronti anche di comuni cittadini americani vennero compiuti gravissimi atti senza alcuna giustificazione o appiglio di legge. L’FBI non si limitò solo a spedire lettere minatorie, ma si rese responsabile di episodi di violenza artatamente istigati. Sarebbe superfluo ribadire come niente di tutto compaia nell’ultima fatica di Eastwood. Giovandosi della sua esperienza di archivista e, avendo appreso l’importanza delle informazioni riservate opportunamente gestite e trattate, Hoover accrebbe il suo potere e la sua influenza, rafforzo il Bureau, ricattando diversi Presidenti, ma nel film tale spregiudicatezza pare ben riposta perché Hoover/Di Caprio rimane un “poliziotto”, un custode dell’ordine, grazie al quale anche le informazioni imbarazzanti e scottanti vengono trattate con la cura opportuna e a beneficio della nazione. Insomma le ombre vengono cancellate, mentre, al contrario, il regista si sofferma sulla risoluzione del caso del rapimento e della morte del figlioletto di Lindbergh, l’aviatore più famoso del mondo e sull’efficacia dell’opera di modernizzazione delle strutture investigative dell’FBI operata da Hoover…

Tali obiezioni mosse nei confronti della ricostruzione “storica” presentata da “Edgar J.” quasi si squagliano e si dissolvono di fronte a un astuto espediente a cui solo un autore intelligente e dal solido mestiere di Eastwood poteva ricorrere. La vicenda narrata dal film non è quella reale, bensì la stessa versione data da Hoover/Di Caprio intento a dettare la sua autobiografia a giovani collaboratori del Bureau. Un’autobiografia che non difetta di menzogne e deliberate manipolazioni… Affiora l’importanza che Hoover attribuiva all’informazione, ai mass media, allo spettacolo e a Hollywood per convogliare consenso sull’FBI, così come il tema fordiano del rapporto fra mito e realtà nella società americana, senza, tuttavia un adeguato sviluppo. Rimane il “vuoto storico” che consente al vecchio Clint – grazie all’apporto di Lance Black – di concentrarsi sul “privato” del direttore dell’FBI, sulla sua fragilità emotiva, sul rapporto edipico con la madre, sull’omosessualità repressa, ecc… Le bugie, i rancori, le invidie e le gelosie di un uomo pieno di difetti vengono collocati in una cornice puramente psicologica e, ancora una volta, la regia dimostra tutta la sua scaltrezza. Proprio perché Hoover/Di Caprio è in fondo un “piccolo” uomo fragile e nevrotico scattano i meccanismi di identificazione e di immedesimazione del pubblico. Egli non è che un uomo comune, sia pure talentuoso e intelligente, che si è imposto di “essere forte” e di reprimere la sua fragilità sacrificandosi per mettersi al servizio del bene della nazione. In questo senso la storia sentimentale con il collaboratore di una vita Clyde Tolson non risulta essere altro che un corollario dell’approccio succitato sciorinando tutte le convenzioni del caso…

Ma come si colloca politicamente l’Hoover/Di Caprio di Eastwood ? La pellicola ne lascia qualche traccia ? Verso la conclusione ci viene mostrato il protagonista ormai stanco e prossimo alla morte e fuori campo, il voce del doppiatore ci restituisce tutto il senso della “democrazia americana” fondata sull’Amore e sull’individuo. L’immagine è preceduta da sequenze di repertorio che mostrano alcuni momenti poco edificanti dell’America degli anni Sessanta con l’avvertenza che chi non guarda ai propri errori è costretto inevitabilmente a ripeterli. E’ chiaro che le parole riflettono la concezione politica e culturale dell’autore, l’idea della superiorità dell’America, unico pese al mondo in grado di valorizzare gli individui. E’ bene ricordare che l’individuo di cui parla Eastwood e come lui tanti altri americani – è semplicemente un essere avulso da qualsiasi contesto storico, sociale, istituzionale ed economico. Niente dovrebbe mai condizionare il comportamento individuale perché le persone – in America – sono libere e, perciò, pienamente responsabili delle loro azioni. L’unico orizzonte possibile ed esclusivo da coltivare rimane quello morale: se il Male – con la m maiuscola – esiste e sopravvive in questo mondo succede perché gli uomini “commettono errori” oppure perché sono intrinsecamente malvagi come i comunisti, gli stranieri, i radicali e i gangster da cui Hoover era ossessionato. Visionando “Edgar J.” si ha come l’impressione che nel bagaglio culturale di Clint Eastwood non trovi posto nessun concetto o fattore di ordine “sistemico”. Da ciò deriva, in realtà, l’assenza di prospettiva storica… Se crimini e violazioni dei diritti umani vengono compiuti in patria e fuori nel nome dell’America – ieri poteva essere il Vietnam, più recentemente Guantanamo e Abu Ghraib – la responsabilità ricadrebbe sui singoli e sui loro errori, perché l’intero sistema “regge” ed è il migliore al mondo. Una visione in cui ben si rispecchia l’attuale establishment economico, finanziario, diplomatico e politico e non solo americano: se i Rockefeller, i Morgan, i Ford, ecc… hanno avuto successo e ricchezza dalla vita ciò è dovuto alle loro esclusive capacità e meriti, mentre i deboli e gli incapaci sarebbero naturalmente destinati al fallimento. L’idea che magnati e finanzieri ricorrano alle peggiori bassezze per arricchirsi non è concepibile se non quando i buoi hanno lasciato già il recinto – vedi il caso della Crisi del 2008 -. Neanche troppo velatamente Eastwood apprezza e ammira i “piccoli uomini” come Hoover, i mastini dei Rockefeller, dei Morgan, dei Ford, ecc…, coloro che, per combattere il Male e la delinquenza propongono la schedatura di massa e un’intensa opera repressiva, i superpoliziotti e poliziotti che dedicano anima e corpo alla guerra contro i nemici reali e quelli di comodo, i comunisti, gli islamisti, gli “indignati”, gli stranieri, i radicali, gli estremisti, i contestatori, i gangster, i delinquenti, i rapinatori, i ladri, i teppisti, i giovani “intemperanti”, ecc… Coloro che profondono energie nella lotta al crimine più “visibile” e, per ciò stesso, minore per trascurare quello “invisibile” ma infinitamente più grande.
La società democratica di liberi ed uguali a cui si riferisce l’autore per bocca del suo protagonista è la stessa che si permette di spendere – e di indebitarsi indefinitamente – milioni di dollari per mantenere uno stato poliziesco e la detenzione di due milioni di persone per la gran parte appartenenti alle minoranze e per garantire la sopravvivenza di una rete militare imperiale e globale dai costi esorbitanti. Una gigantesca macchina militare, poliziesca, repressiva e perfino terroristica concepita per arginare e rintuzzare le pretese e le istanze di chi non appartiene al ristretto club dei fortunati. E’ l’ulteriore dimostrazione che, in realtà, la libertà è merce rara—
Il vecchio Clint probabilmente giustificherebbe queste scelte con la necessità di proteggersi dal Male e dall’irresponsabilità di individui che naturalmente sono indotti all’”errore”.
Ahi, ahi… quali guasti ha prodotto il permissivismo !!!

Con i tempi attuali, per perpetuare quel che è stato voluto dall’establishment, un Hoover farebbe sempre comodo…

Per questo l’establishment guarda “Edgar J.” e applaude e noi, pubblico pagante, applaudiamo con loro…

E il vecchio Clint ? Beh ! Non mi risulta che a Hollywood e dintorni siano estranei all’establishment…

FINE

HS
7.01.2012

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