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La Redazione

 

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DEPRESSIONE MONDIALE: GUERRE REGIONALI E DECLINO DELL’ IMPERO USA (PARTE SECONDA

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A cura di Davide
Il 14 Maggio 2009
64 Views

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DI JAMES PETRAS
globalresearch.ca

Obama e la crisi del capitalismo: analisi di classe

I programmi messi a punto dagli USA, dall’Europa occidentale, e da altre regioni capitalistiche non hanno nemmeno cominciato ad ammettere le basi strutturali della depressione.

In primo luogo, Obama ha destinato 1 trilione di dollari all’acquisto di titoli bancari senza valore e oltre il 40% dei suoi 787 miliardi di dollari d’incentivi non ai settori produttivi ma a banche insolventi e ad evasori fiscali, in modo da salvare i possessori di azioni e titoli; e questo mentre ogni mese oltre 600.000 si ritrovano senza lavoro.

In secondo luogo, per sostenere la costruzione di un impero basato sulle armi, il regime di Obama sta destinando oltre 800 miliardi di dollari al finanziamento della guerre in Iraq e Afghanistan. Si tratta di un massiccio trasferimento di fondi pubblici dall’economia civile al settore militare che spinge decine di migliaia di giovani disoccupati ad arruolarsi dell’armata (Boston Globe, 1 marzo 2009).

In terzo luogo, la commissione di Obama per sorvegliare la “ristrutturazione” dell’industria automobilistica statunitense ha approvato i piani che prevedono di chiudere molte fabbriche, eliminare i piani di protezione sociale finanziati dalle aziende a favore dei pensionati e obbligare decine di migliaia di lavoratori a brutali tagli nelle pensioni e l’assistenza sanitaria. L’intero onere per riportare in attivo l’industria privata dell’auto ricade sulle spalle degl’impiegati, salariati e pensionati, e naturalmente sui contribuenti americani.

L’intera strategia economica del regime di Obama consiste nel salvare i possessori di titoli, iniettando trilioni di dollari in strutture insolventi e comprando titoli di credito senza alcun valore e azioni di società finanziarie in fallimento. Al tempo stesso, però, il suo regime evita ogni investimento diretto nelle imprese pubbliche produttive, cosa che permetterebbe di dar lavoro a 10 milioni di disoccupati. Mentre oltre il 40% del bilancio di Obama è destinato alle spese militari e al pagamento del debito, un americano su dieci è stato sfrattato, il numero di americani senza lavoro sta arrivando al 10%, e quelli che devono usare i buoni statali per ottenere gli alimenti di base sta aumentando di vari milioni nel 2009.

Il programma di “creazione di posti di lavoro” di Obama indirizza miliardi di dollari verso le società private di telecomunicazione, costruzione, ambientali e di produzione elettrica, dove il grosso dei fondi pubblici serve per i bonus degli alti papaveri e per i dividendi degli azionisti, mentre solo una quota minima serve per i salari dei lavoratori. Inoltre, il grosso dei disoccupati nei settori della produzione e dei servizi non può essere riconvertito nei settori “beneficiari”. Nel 2009 verrà assegnata solo una minima parte dei “pacchetti d’incentivi”, che hanno il fine di sostenere le entrate della classe finanziaria e dominante e di rimandarne la loro già da tempo necessaria eliminazione. L’effetto sarà quello di aumentare il divario tra classe dirigente e lavoratori salariati. Gli aumenti delle tasse per la classe ricca sono incrementali, mentre l’enorme debito legato al deficit fiscale ricadono sui contribuenti attuali e futuri.

L’adesione entusiastica alla creazione di un impero su basi militari – anche in una situazione di deficit di bilancio da record, di un enorme passivo commerciale e di una depressione incalzante – identifica Obama come un militarista senza eguali nella storia contemporanea. Nonostante avesse promesso il contrario, il bilancio militare per il 2009-2010 supererà di almeno il 4% quello di Bush: il numero di militari statunitensi aumenterà di varie centinaia di migliaia, in Iraq si manterrà vicino al massimo e in Afghanistan aumenterà di varie decine di migliaia, almeno nel 2009, mentre gli attacchi aerei e terrestri in Pakistan sono cresciuti in progressione geometrica. I massimi responsabili nominati da Obama al Dipartimento di stato, al Pentagono, al Tesoro e al National Security Council sono in gran parte, soprattutto per quel che concerne le funzioni legate al Medio oriente, ebrei guerrafondai con una lunga storia di incitamento alla guerra contro l’Iran e strettamente legati ai comandi militari israeliani.

Per riassumere, le massime priorità del regime di Obama sono messe in luce dall’assegnazione di risorse finanziarie e materiali, dalle nomine dei responsabili economici e di politica estera, e dalle classi che trarranno benefici o che verranno penalizzate dalle sue scelte. La politica di Obama dimostra che il regime si preoccupa solo di salvare la classe capitalistica e l’impero USA, e per raggiungere il suo scopo il presidente è disposto a sacrificare i bisogni basici immediati, gl’interessi futuri, gli standard di vita della grande maggioranza dei lavoratori e proprietari americani, più direttamente colpiti dalla depressione economica nazionale. Nella nuova amministrazione, Obama ha ampliato gli obiettivi della costruzione di un impero basato sulla forza militare e rafforzato il potere dei guerrafondai proisraeliani. Le sue strategie di escalation militare e di “recupero economico” e sono incompatibili dal punto di vista finanziario e fiscale: il costo dell’una annulla l’impatto dell’altra e lascia un vuoto incolmabile negli sforzi di contrastare il collasso dei servizi sociali, dei sempre più frequenti sfratti, delle bancarotte e delle chiusure massicce.

I trasferimenti orizzontali di ricchezza pubblica dal gruppo di potere di Obama alla classe economica dominante non “hanno ricadute” sull’occupazione, il credito e i servizi sociali. Il tentativo di trasformare le banche insolventi in attive aziende di credito è un ossimoro. Il dilemma centrale di Obama è come creare le condizioni per rendere nuovamente lucrosi i settori falliti dell’attuale economia statunitense.

La sua strategia presenta numerosi problemi di base:

In primo luogo la struttura economica del paese – che in passato generava occupazione, profitti e crescita – non esiste più: è stata smantellata dirottando il capitale oltremare, in strumenti finanziari e in altri settori economici non produttivi.

In secondo luogo le politiche “d’incentivi” di Obama rinforza il potere finanziario su quello economico, destinando importanti risorse a quel settore invece di “riequilibrare” l’economia a favore del settore produttivo. E all’interno del settore produttivo le risorse pubbliche vengono usate per sostenere le élite capitalistiche che hanno dimostrato la loro incapacità di creare impiego, rafforzare la competitività sui mercati e di innovare alla luce delle preferenze e degl’interessi dei consumatori.

In terzo luogo la strategia economica di Obama di un recupero diretto verso il basso annulla buona parte del suo impatto sussidiando imprese capitalistiche fallite invece di aumentare le entrate della classe lavoratrice raddoppiando il salario minimo e i sussidi di disoccupazione, la sola base reale per aumentare la domanda e stimolare il recupero economico. Alla luce della riduzione dello standard di vita, imputabile al crollo nazionale e all’espansione dell’impero basato sulla forza militare, due fattori che sono parte integrale delle fondamenta istituzionali dello stato, non esistono speranze per un tipo di trasformazione strutturale in grado di modificar le onerose politiche “top-down” promosse dal regime di Obama.

Il segreto per uscire dalla sempre più profonda depressione non consiste nello stampare trilioni di dollari, operazione che crea solo le condizioni per l’iperinflazione e la marginalizzazione del dollaro. La causa principale è la sovraccumulazione del capitale legata allo sfruttamento intensivo del lavoro, che ha provocato tassi di profitto sempre più alti e il collasso della domanda: alla base dell’esplosione della bolla finanziaria c’è l’enorme disparità tra espansione del capitale e declino del consumo della classe lavoratrice.

“Riequilibrare” l’economia significa creare domanda (non di un settore produttivo privato stremato o di un sistema finanziario insolvente) attraverso la proprietà pubblica diretta e gl’investimenti a lungo termine e grande scala nella produzione di beni e servizi sociali. L’intera “sovrastruttura” speculativa, cresciuta in massima parte mettendo da parte il valore generato dal lavoro, si è riprodotta in una miriade di “strumenti cartacei” senza rapporto con il valore d’uso. Per liberare le forze produttive dai legacci e limitazioni dei capitalisti improduttivi e dei loro seguaci, è necessario smantellare l’intera economia cartacea, definire un ampio programma di formazione per riconvertire i broker in elementi creativi e produttivi, smantellare completamente l’impero mondiale per ricostruire il mercato domestico e per fare largo a innovazioni che incrementino la produttività. Le costose e improduttive basi dell’armata, elementi essenziali per l’espansione di un impero su basi militari, dovrebbero essere chiuse e sostituite da reti commerciali, mercati, transazioni economiche con produttori che operano al di fuori dei mercati domestici. Invertire la tendenza al declino domestico esige la fine dell’impero e la costruzione di una repubblica socialista democratica. In questa ottica, è imprescindibile porre fine alle alleanze politiche con le potenze guerrafondaie d’oltremare, in particolare con lo stato israeliano, e modificare radicalmente una struttura domestica che mina alla base gli sforzi per una società democratica aperta al servizio degl’interessi del popolo americano.

Impatto regionale della crisi globale

La depressione mondiale ha cause comuni e differenti, influenzate dagli specifici legami tra economie e strutture socioeconomiche. A un livello globale più generale, il crescente tasso di profitto e la sovraccumulazione del capitale che ha portato alle folli speculazioni finanziarie e immobiliari e al susseguente crollo hanno colpito, in modo diretto o indiretto, la maggior parte dei paesi. Ma al tempo stesso, anche se tutte le economie regionali stanno subendo le conseguenze della depressione, gli effetti sono notevolmente diversi dato che le regioni sono posizionate differentemente nell’economia mondiale.

America latina

Il Brasile – con una politica di libero mercato e di profonde divisioni di classe che vanificano ogni tentativo di recupero interno, e con il rapido declino delle esportazioni e della produzione industriale – avanza a grandi passi verso la recessione, nonostante le roboanti dichiarazioni del presidente Lula da Silva, il pupillo di Wall Street e della Casa Bianca.

Nel gennaio 2009 la produzione industriale è scesa del 17,2% annuo, mentre nell’ultimo trimestre del 2008 il PIL si è ridotto del 3,6% (Financial Times, 11 marzo 2009). Tutto lascia pensare che in quel che resta del 2009 la decrescita continuerà e si aggraverà: i mercati esteri dell’esportazione e degl’investimenti diretti, forza trainante delle passata crescita, sono in netta contrazione. Le politiche di privatizzazione di Lula hanno permesso che il settore finanziario cadesse in mano a investitori stranieri, che hanno importato la crisi degli USA e dell’UE. Le “politiche di globalizzazione” hanno reso il Brasile più vulnerabile al collasso del commercio estero. I flussi di capitale sono decisamente negativi. Tra dicembre 2008 e aprile 2009 centinaia di migliaia di persone hanno perso il lavoro. I 5 milioni di lavoratori rurali senza terra impoveriti, e i 10 milioni di famiglie che vivono con il sussidio alimentare governativo di un dollaro al giorno sono esclusi dalla domanda interna, così come le decine di milioni di lavoratori che vivono con il salario minimo di 250 dollari al mese. Il potere d’acquisto degli agricoltori superindebitati non sostituisce la latitante domanda estera. Tutti i settori, rurale e urbano, della classe capitalistica stanno congelando i nuovi investimenti visto che il credito è scomparso, gl’investitori stranieri abbandonano il campo e i la spesa dei consumatori locali si riduce a causa della sempre più grave recessione. Le affermazioni di Lula e le sue previsioni di crescita del 4% sono considerate “pura illusione” per coprire il sopravvenire di una dura recessione economica. Il cieco sostegno di Lula alla globalizzazione e al “libero mercato” è un elemento determinante della crescente recessione.

Il passaggio del Brasile a un PIL negativo precede di poco quello previsto per gli altri paesi della regione: -2% l’Argentina, -3% il Messico, 0% o meno il Cile. America centrale e area caraibica, totalmente “integrate” nell’economia statunitense e mondiale, stanno provando la forza devastante della depressione mondiale, con un tasso di disoccupazione che schizza verso l’alto a causa del collasso del turismo, della ridotta domanda di beni primari, e della grave caduta delle rimesse dei lavoratori emigrati. Povertà, criminalità e possibili rivolgimenti sociali contro i governi di centro e centro-sinistra si aggraveranno.

La diffusione mondiale del capitale dell’imperialismo (“globalizzazione” secondo i sostenitori, “imperialismo” secondo gli avversari) ha portato al ripercuotersi della crisi finanziaria e dei fallimenti nei paesi più strettamente legati ai circuiti finanziari europei e statunitensi.

La globalizzazione ha legato le economie latino-americane ai mercati mondiali, a spese dei mercati interni, e ha aumentato la vulnerabilità alle cadute della domanda, dei prezzi e del credito che oggi sperimenta. La globalizzazione, che prima aveva agevolato l’entrata di capitali, ne agevola, ora che siamo in presenza della depressione, la fuga massiccia. Gli USA, che assorbono il 70% dei risparmi mondiali nel suo sforzo disperato di cancellare e rifinanziare il suo mostruoso deficit di bilancio e commerciale ha estromesso i suoi partner commerciali latino-americani dal mercato mondiale del credito. La depressione ha dimostrato in modo chiarissimo il vuoto della globalizzazione centrata sull’imperialismo e l’assenza di rimedi per i suoi collaboratori sudamericani. Il crescente protezionismo (e i miliardi di dollari in sussidi di stato per sostenere i capitalisti degli stati imperialisti nei settori bancario, assicurativo, immobiliare e produttivo) dimostra in modo lampante la disintegrazione dell’economia globale centrata sull’imperialismo. La depressione mondiale non solo mette in luce i limiti intrinseci dell’economia globalizzata ma ne rende inevitabile la frantumazione in una molteplicità di unità in conflitto: le nazioni, ognuna delle quali dipende dalle proprie finanze e settori statali per poter uscire dalla profonda depressione a spese degli antichi alleati. Man mano che la deglobalizzazione accelera, la depressione mondiale spinge a tornare alla nazione-stato.

Parallela e strettamente collegata alla caduta del mercato mondiale è la crescita dello stato capitalistico come elemento chiave per recuperare le ricchezze nazionali ed imporre un esorbitante tributo alle pensioni e ai fondi sanitari e pensionistici di miliardi di lavoratori, pensionati e contribuenti. In un momento di collasso del capitalismo, il crescente “capitalismo di stato” nasce solo per “salvare il sistema capitalistico dai suoi fallimenti”, come affermano i suoi sostenitori. E per arrivare a questo risultato sfrutta la ricchezza collettiva dell’intero paese. La “nazionalizzazione” delle banche e delle industrie insolventi è l’apice del capitalismo predatore. Non sono più le singole imprese o i singoli settori a profittare dei salariati, ma è il capitalismo di stato che rapina l’intera classe di coloro che producono ricchezza.

Le possibilità dell’America latina partono dal riconoscimento che la globalizzazione è morta, che solo grazie al controllo popolare democratico la nazionalizzazione può servire a generare ricchezza e creare occupazione, invece di servire per indirizzare e ridistribuire le risorse a una classe capitalistica fallita e in bancarotta.

Europa dell’est e paesi dell’ex blocco comunista

Nell’Europa dell’est, il passaggio dal comunismo al capitalismo ha seguito un processo di privatizzazione, spesso basato su una rapina generalizzata, l’uso illegale delle risorse pubbliche e la caduta drammatica del livello di vita e della produzione nella prima metà degli anni ’90. Approfittando del costo ridotto del lavoro e del facile accesso a lucrose opportunità in tutti i settori economici, i capitalisti europei e americani hanno assunto il controllo dei settori produttivo, estrattivo, finanziario e delle comunicazioni. La caduta delle barriere tra Est e Ovest è stata accompagnata da un flusso massiccio di lavoratori specializzati verso i paesi occidentali. Il recupero economico, e la susseguente crescita, nell’Europa dell’est e nei paesi dell’ex blocco comunista è andato a braccetto con l’espansione degl’investimenti e del credito dal capitalismo occidentale: il trasferimento dei centri produttivi, l’arrivo di capitale speculativo nei settori finanziario e immobiliare, l’accesso ai mercati occidentali in piena espansione, e, in particolare, il finanziamento via indebitamento delle spese dei consumatori hanno drogato la crescita. La regione è stata quindi doppiamente colpita: dal collasso economico causato da una speculazione interna insostenibile e dalla sua dipendenza da un occidente in fase di depressione per i capitali, il credito e i mercati. Le economie capitalistiche degli stati baltici, dell’Europa dell’est e della Russia hanno subito un collasso rapido: man mano che i mercati creditizi dell’Europa occidentale si restringevano e le multinazionali disinvestivano largamente, le valute locali si sono svalutate e i mercati esteri si sono dissolti. L’intera strategia dello “sviluppo dipendente” basata sulla disarticolazione dei mercati locali e il flusso di capitali ha vanificato gli sforzi per contrastare il crollo. La sola scelta possibile era cercare di ottenere un sostanzioso aiuto finanziario dal FMI e dalle banche, a condizioni pesanti e tali da limitare le opzioni dei piani nazionali d’incentivazione fiscale.

I legami regionali con i mercati mondiali, basati su rapporti di dipendenza con i capitalisti occidentali, implicano in primo luogo l’assenza di mercati interni e di capitali per attenuare il crollo e in secondo luogo il pericolo che l’arrivo di capitali esterni aggravi la depressione. Dal Baltico ai Balcani, dall’Europa dell”est alla Russia, la potente forza della depressione ha provocato disoccupazione generalizzata di lunga durata, bancarotta delle industrie locali sussidiarie, dei servizi e delle banche. I neonato movimenti popolari rimettono in discussione le politiche commerciali dei governi e, i certi casi, rifiutano il modello capitalistico di dipendenza dalle esportazioni.

Asia: la fine dell’illusione d’indipendenza e crescita autonoma

La grande depressione del 2009 ha colpito tutte le economie asiatiche, che dipendono dai mercati internazionali finanziari e dei beni. Anche i paesi più dinamici (Giappone, Cina, India, Corea del sud, Taiwan e Vietnam) non hanno potuto sottrarsi alle conseguenze del drastico declino del commercio, dell’occupazione, degl’investimenti e degli standard di vita. Due decenni di espansione dinamica, alta crescita ed elevati tassi di profitto, grazie ai mercati dell’esportazione e allo sfruttamento intensivo del lavoro, hanno provocato una sovraccumulazione di capitale. Molti esperti asiatici ed occidentali parlano di “un nuovo ordine mondiale”, guidato e orientato dalle potenze economiche emergenti dell’Asia, in particolare la Cina, in cui il potere si baserebbe sempre di più sulla loro “autonomia regionale”. In realtà, la dinamica crescita industriale cinese era profondamente inserita in una catena mondiale di beni in cui i paesi industriali avanzati (Germania, Giappone, Taiwan e Corea del sud, ad esempio) fornivano strumenti di precisione, macchinari e pezzi alla Cina, che li assemblava e li esportava poi nei mercati statunitensi, europei e asiatici. “L’indipendenza” era un mito.

La crescita pilotata dalle esportazioni è stata alimentata dallo sfruttamento selvaggio del lavoro, dalla distruzione di vaste aree di servizi sociali (servizi sanitari, pensioni, sussidi alimentari e istruzione) e dalla generalizzata concentrazione della ricchezza nelle mani di un gruppo ristretto di nuovi ricchi miliardari (Economic and Political Weekly – Mumbai, 27 dicembre 2008, p. 27-102). La crescita della Cina e del resto dell’Asia si basava sulla contraddizione tra espansione dinamica delle forze produttive e crescente polarizzazione dei rapporti produttivi di classe. Gli alti tassi di profitto hanno condotto alla sovraccumulazione del capitale (alti tassi d’investimento) e quindi a notevoli attivi di bilancio e commerciali che si sono poi propagati nei settori finanziari, nell’espansione oltremare (riciclaggio di fondi neri) e nella speculazione mobiliare.

L’edificio economico asiatico poggiava precariamente sulle spalle di centinaia di milioni di lavoratori, virtualmente non consumatori, e sulla sempre maggiore dipendenza dai mercati di esportazione. La crisi mondiale ha fatto collassare soprattutto i mercati di esportazione, mettendo in luce i punti deboli delle economie asiatiche e provocando una grave caduta del commercio e della produzione, accompagnata da una considerevole crescita della disoccupazione. Gli sforzi cinesi e degli altri paesi asiatici per contrastare il crollo dei mercati di esportazione con massicce iniezioni di capitale pubblico per stimolare la liquidità finanziaria e lo sviluppo delle infrastrutture sono risultati insufficienti per bloccare l’aumento della disoccupazione e la bancarotta di milioni di imprese dipendenti dall’esportazione.

La classe capitalistica asiatica e il gruppo dirigente sono del tutto incapaci di “ristrutturare” la struttura economica e sociale dando forza alla domanda interna ora che il mercato esterno ha ceduto. Un tale passo comporterebbe molte profonde trasformazioni nella struttura di classe: ad esempio il passaggio da investimenti basati sul profitto elevato a servizi produttivi e sociali a scarso margine per centinaia di milioni di lavoratori e contadini a basso reddito, oppure il trasferimento di capitali dal settore immobiliare privato, i mercati azionati, e l’acquisto di titoli stranieri, per finanziare servizi sanitari universali, istruzione, pensioni, o ancora il recupero dei suoli per un uso produttivo piuttosto che per le speculazioni immobiliari.

L’intera crescita dinamica dall’Asia, costruita sulla concentrazione di capitale, alti profitti e bassi salari, sta cercando di sopravvivere aggravando l’impoverimento del lavoro con massicci licenziamenti, ampliando i flussi di ritorno dei lavoratori migranti verso i campi devastati, e aumentando il surplus di forza di lavoro. L’espulsione del lavoro, tradizionale soluzione del capitalismo, non fa altro che spostare e intensificare la contraddizione e allargare il conflitto tra il capitale industriale e finanziario a base urbana e le centinaia di milioni di lavoratori e contadini poveri, disoccupati o sottoccupati. Le iniezioni statali di capitale per stimolare l’economia passano attraverso il “filtro” dei dirigenti regionali e della classe capitalista, che assorbe e usa buona parte dei fondi per puntellare le imprese in fallimento, senza impatto sensibile sulla massa di lavoratori disoccupati.

La proprietà privata e il controllo capitalistico sullo stato impedisce il tipo di trasformazione sociale che potrebbe espandere il mercato interno e far ripartire la crescita.

Il sistema cinese di crescita ha ovviamente minato i suoi partner commerciali, che dipendono dalle esportazioni verso il paese di materie prime e industriali. Il collasso della domanda dei mercati euro-americani ha distrutto l’intera architettura delle industrie che lavorano per l’esportazione. Lo sfruttamento selvaggio del lavoro e il potere della nuova borghesia cinese fa sì che esistano poche possibilità di una ripresa della domanda interna.

La riprese economica della Cina dipende da una nuova trasformazione socialista che renda la domanda interna il vero motore della crescita.

Medio oriente: depressione e guerre regionali

Il motivo fondamentale della crisi e del fallimento del Medio Oriente risiede nelle guerre regionali sionistiche e nel collasso dei prodotti di base.

I paesi produttori di petrolio hanno accumulato ampi “redditi”, usati per acquisti a grane scala, nella regione o fuori, nei settori finanziario, immobiliare e militare. I profitti si sono concentrati nelle mani di capi assolutisti miliardari con un rapporto di classe estremamente polarizzato: super ricchi e lavoratori immigranti con salari bassissimi hanno limitato la portata e l’ampiezza dei mercati interni. Per eliminare la crisi della sovraccumulazione e della contrazione dei profitti, i gruppi dirigenti hanno adottato due strategie che hanno ritardato l’inevitabile: in primo luogo la dipendenza dall’esportazione massiccia (dapprima in USA e Europa e poi in Asia e Africa) di capitali da prestare ad alti tassi d’interesse, in secondo luogo il reimpiego dei profitti in immobili faraonici, centri turistici e settore bancario negli Stati del Golfo che ha portato a una immensa bolla immobiliare. Il collasso dei beneficiari di questi redditi (non produttivi) nel Medio oriente è stato preparato dal frenetico aumento dei prodotti petroliferi, tra il 2004 e il 2008, che ha accelerato il processo di sovraccumulazione e la generalizzazione del debito e dell’importazione di lavoro. Ne è seguita una crisi economica regionale, in cui gli attivi di bilancio e commerciali sono stati rimpiazzati da deficit sempre più grandi. Le economie mediorientali non si sono mai modificate dopo la loro creazione per dar vita a un sistema diversificato, basato non più sui “redditi” ma sulla produzione e la creazione di un dinamico mercato regionale di massa. La classe dominante deve far fronte a una sempre crescente massa di lavoratori locali e immigrati disoccupati, la fuga compatta di migliaia di espatriati europei del settore finanziario, del settore immobiliare e di altri operatori di settori non produttivi. Ora che non possono più profittare del boom petrolifero (prezzi, profitti e ricavi sono crollati) e non sono più i potenti banchieri e detentori di debiti, la classe dominante dei Paesi del Golfo dispone di poche risorse esterne o interne per mettere a punto un “programma di recupero”. Peggio ancora, nel pieno di questo crescente collasso economico lo stato militarista di Israele funziona da forza regionale di destabilizzazione e proietta la sua potenza e le sue ambizioni coloniali in tutta l’area. Con una situazione di potere unica nella storia del mondo, lo stato d’Israele, economicamente insignificante, controlla i livelli fondamentali del potere politico del governo USA grazie all’attività di varie decine di migliaia di membri della Diaspora strategicamente situati, estremamente organizzati e disciplinati, e ideologicamente impegnati… (CONTINUA)

James Petras
Fonte: www.globalresearch.ca
Link: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=12955
30.03.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CARLO PAPPALARDO

VEDI ANCHE: DEPRESSIONE MONDIALE: GUERRE REGIONALI E DECLINO DELL’ IMPERO USA (PARTE PRIMA)

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