DI JAMES PETRAS
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Introduzione
Tutti gl’idoli del capitalismo degli ultimi 30 anni sono crollati: premesse, deduzioni, paradigmi e previsioni di un progresso senza fine, grazie al libero mercato capitalistico, sono stati messi alla prova e hanno fallito. Stiamo vivendo la fine di un’era, e gli esperti sono oramai concordi nel riconoscere il collasso degli USA e del sistema finanziario mondiale, la mancanza di credito per le attività commerciali e di finanziamenti per gl’investimenti. L’ombra di una depressione mondiale, in cui più di un quarto delle forze attive sarà senza lavoro, incombe minacciosamente, e il peggior crollo del commercio della storia mondiale contemporanea (meno 40% annuo) lascia capire quale sarà il nostro futuro. L’imminente bancarotta delle più grandi aziende produttrici del mondo capitalistico ossessiona i politici occidentali. Il “mercato”, inteso come meccanismo di distribuzione delle risorse, e il governo statunitense, inteso come “leader” dell’economia globale, sono completamente screditati (Financial Times, 9 marzo 2009). Tutte le tesi su un “mercato in grado di autostabilizzarsi” sono manifestamente false e sorpassate. Il rifiuto dell’intervento pubblico nel mercato e l’esaltazione dell’economia dell’offerta sono oramai screditati anche agli occhi di chi ne fa uso. Persino gli ambienti ufficiali riconoscono che “lo squilibrio delle entrate” ha contribuito a spianare la strada al collasso economico e che dovrebbe essere corretto. Pianificazione, proprietà pubblica, nazionalizzazione sono i temi in agenda, e le alternative socialiste appaiono ora quasi accettabili.
Col sopravvenire della depressione, tutte le scelte dell’ultimo decennio sono state accantonate: le strategie volte alla crescita delle esportazioni hanno fallito ed ecco che emergono le politiche di sostituzione delle importazioni, l’economia mondiale “deglobalizza” mentre il capitale viene “rimpatriato” per salvare le aziende prossime al fallimento ed ecco che viene suggerita la proprietà nazionale. Beni per trilioni di dollari/euro/yen vengono distrutti e svalutati, licenziamenti in massa diffondono la disoccupazione dappertutto. Timori, ansietà e incertezza pervadono gli uffici pubblici, i gruppi dirigenti finanziari, le società, le fabbriche, le strade…
Entriamo in un’epoca di sconvolgimenti nel quale le fondamenta stesse dell’ordine politico ed economico mondiale sono frantumate, al punto che nessuno osa più immaginare il restaurarsi di quel sistema politico-economico che ha caratterizzato il recente passato. Il futuro ci promette caos economico, cataclismi politici e impoverimento di massa. Ancora una volta, lo spettro del socialismo aleggia sulle rovine degli antichi giganti della finanza.
Man mano che il mercato libero dei capitali collassa, i suoi sostenitori ideologici abbandonano la nave che affonda, mettono da parte la linea di pensiero che esaltava le virtù del mercato e inneggiano adesso allo Stato come salvatore del sistema, una proposta dubbia il cui solo risultato sarebbe quello di prolungare la rapina del tesoro pubblico e l’agonia del capitalismo che abbiamo conosciuto.
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Teoria della crisi del capitale: la morte dell’esperto economico.
Le fallimentari politiche economiche dei leader mondiali sono insite nel funzionamento dei mercati capitalistici. Per non dover criticare il sistema, leader ed esperti finanziari vengono accusati d’incompetenza, “avidità” e carenze personali.
Fumose spiegazioni psicologiche hanno sostituito le ragionate analisi delle strutture, forze materiali e realtà obiettive che guidano, motivano e incentivano investitori, decisori e banchieri. Quando le economie capitalistiche collassano, gli dei ottenebrano la mente di politici ed editorialisti, rendendoli incapaci di analizzare i processi obiettivi e spingendoli a formulare insensate ipotesi soggettive.
Invece di esaminare le opportunità create dall’enorme surplus di capitali e i margini di profitto reali che spingono i capitalisti verso l’attività finanziaria, ci viene detto che si è trattato di una “incapacità dei leader” Invece di studiare il potere e l’influenza della classe capitalistica sullo Stato, in particolare nella scelta dei responsabili economici e dei normatori che volevano massimizzare i loro profitti, ci viene detto che si è trattato di “incapacità di capire” o di un “deliberato trascurare le necessità dei mercati”. Invece di guardare alle classi sociali e ai rapporti di classe (in particolare le classi capitalistiche storiche che operano in mercati reali) i venditori di fumo favoleggiano di un “mercato” ideale popolato di irreali capitalisti “razionali”. Invece di valutare fino a che punto la crescita dei profitti, l’espansione dei mercati, il credito facile, la flessibilità del lavoro, e il controllo sulle politiche e i bilanci pubblici, abbiano contribuito a plasmare la “fiducia degl’investitori” (o, in loro assenza, a distruggerla) gli affabulatori dicono che è stata la “mancanza di fiducia” a provocare il crollo dell’economia. La causa obiettiva della crisi, il venir meno delle condizioni specifiche che generano profitto, viene invece cercata in una errata “percezione” di tale venir meno.
Nelle economie capitalistiche fiducia, confidenza e sostegno nascono dai rapporti economici e dalle strutture che generano profitto. Si tratta di percezioni psicologiche confortate da risultati positivi: transazioni economiche, investimenti e quote azionarie che aumentano di valore e moltiplicano i guadagni attuali e futuri. Quando gl’investimenti vanno male, le società perdono soldi, le aziende falliscono, e ne consegue una “perdita di fiducia” di azionisti e broker. Quando interi settori economici danneggiano gravemente in toto investitori, depositanti e risparmiatori, si ha una “perdita di fiducia nel sistema”.
Nell’universo capitalistico i venditori di fumo sono l’ultima risorsa di ideologi, accademici, esperti ed editorialisti di pagine finanziarie. Per non dover ammettere il crollo dei mercati capitalistici reali, scrivono e parlano di vaghe utopie, come quella dei “mercati responsabili” compromessi da “alcuni sconsiderati”. In altri termini, per salvare un’ideologia fallita fondata sui mercati capitalistici hanno inventato un ideale morale, un “mercato e una visione capitalistica responsabile”, estranea al comportamento, agl’imperativi economici e alle contraddizioni insite nella guerra tra classi.
Gl’inadeguati e scadenti argomenti economici che caratterizzano gli scritti degl’ideologi capitalistici vanno di pari passo con il fallimento del sistema sociale in cui sono inseriti. I fallimenti intellettuale e morale della classe capitalistica e dei suoi sostenitori politici non sono difetti individuali; riflettono il fallimento economico del mercato capitalistico.
Il crollo del sistema finanziario statunitense è il sintomo di un più profondo collasso del sistema capitalistico, che affonda le sue radici nello sviluppo dinamico del capitalismo nei 30 anni precedenti. In termini più generali, l’attuale depressione mondiale deriva dalla formulazione classica descritta da Karl Marx oltre 150 anni orsono: la contraddizione tra lo sviluppo delle forze e dei rapporti di produzione.
Al contrario di quel che affermano i teorici (secondo i quali la “finanza” e il capitalismo “postindustriale” avrebbero “distrutto” o deindustrializzato l’economia mondiale, sostituendola con una sorta di roulette o di capitalismo speculativo), abbiamo in effetti assistito alla più spettacolare crescita a lungo termine del capitale industriale, che ha usato più lavoratori e salariati di qualsiasi altro periodo storico. Sulla spinta dei crescenti tassi di profitto, gl’investimenti a grande scala e a lungo termine sono stati la forza motrice che ha permesso al capitale industriale, o a esso collegato, di penetrare nelle più remote regioni sottosviluppate del mondo. Nuovi e vecchi paesi capitalisti hanno dato vita a enormi imperi economici, abbattendo le barriere politiche e culturali per incorporare e sfruttare miliardi di lavoratori in un incessante processo. Quando la concorrenza dei nuovi paesi industrializzati si è intensificata e la crescente massa di profitti ha superato la capacità di reinvestimento vantaggioso nei centri capitalistici tradizionali, enormi quantità di capitale si sono trasferite in Asia, America latina, Europa orientale, e, anche se in misura più limitata, in Medio oriente e Africa meridionale.
I profitti in eccesso hanno sommerso i servizi, inclusi quelli finanziari, il settore immobiliare residenziale e industriale, il comparto assicurativo, l’area urbanistica.
La crescita dinamica delle innovazioni tecnologiche del capitalismo si è concretizzata in un maggior potere sociale e politico: ridimensionamento dell’organizzazione del lavoro, riduzione delle sue capacità negoziatrici, aumento esponenziale dei profitti. Con l’espandersi dei mercati mondiali i lavoratori sono stati sempre più considerati “costo di produzione” e non consumatori finali: gli aumenti salariali si sono fermati e i benefici sociali sono stati limitati, ridotti o posti a carico dei lavoratori. In una situazione di crescita dinamica del capitalismo, stato e politiche pubbliche sono diventate uno strumento conseguente: restrizioni, controlli e norme sono state indebolite. Il cosiddetto “neoliberalismo” ha aperto nuove aree d’investimento per i profitti in eccesso: aziende pubbliche, terre, risorse e banche sono state privatizzate.
Quando la concorrenza si è intensificata per l’emergere di nuove potenze industriali in Asia, il capitale statunitense ha cominciato a investire sempre di più nel settore finanziario, e ha elaborato, all’interno dei circuiti finanziari, una serie di strumenti basati sulla crescente ricchezza e i profitti dei settori produttivi.
Il capitale statunitense non ha “deindustrializzato”: ha delocalizzato in Cina, Corea e altri centri in pieno sviluppo, non a causa di una “caduta dei profitti” ma piuttosto dell’eccesso di profitto e dei maggiori profitti oltremare.
La Cina è stata in grado di fornire milioni di lavoratori per uno sfruttamento brutale caratterizzato da salati da fame, nessuna copertura sociale e un potere sociale nullo o scarsissimo. Una nuova classe di collaboratori asiatici del capitalismo, allevati e preparati dal capitalismo di stato asiatico, ha fatto abnormemente lievitare il volume dei profitti. I tassi d’investimento hanno raggiunto proporzioni vertiginose, grazie allo squilibrio tra beneficiari delle entrate o dei beni e lavoratori. La produzione è aumentata di molto, ma la domanda interna è stata mantenuta sotto stretto controllo: esportazione, crescita delle esportazioni e consumatori d’oltremare sono diventati la forza trainante delle economie asiatiche. I produttori americani ed europei hanno investito in Asia per esportare poi nei propri mercati interni, spostando la struttura del capitale interno verso commercio e finanza. I minori salari pagato ai lavoratori hanno portato a un’ampia espansione del credito. L’attività finanziaria è cresciuta in proporzione diretta con l’aumento delle importazioni di beni dai dinamici paesi di recente industrializzazione. I profitti industriali sono stati reinvestiti nei servizi finanziari; dal loro canto, profitti e liquidità sono cresciuti contemporaneamente al declino relativo in valore reale dovuto al passaggio dal capitale industriale a quello finanziario/commerciale.
Gli enormi profitti legati a produzione, commercio e finanze mondiali – e il riciclaggio dei risparmi d’oltremare negli USA attraverso i circuiti finanziari pubblici e privati – hanno generato un’enorme liquidità, di gran lunga superiore alla capacità storica delle economie statunitense ed europea di assorbire tali profitti in settori produttivi.
Il dinamico e vorace sfruttamento delle abbondanti forze di lavoro in Cina, India, e altrove, e la rapina e successivo trasferimento di centinaia di milioni dalla Russia ex-comunista e dall’America latina “neoliberalizzata” ha permesso di riempire le casseforti delle istituzioni finanziarie, vecchie e nuove.
Il supersfruttamento del lavoro in Asia, e la sovraccumulazione della liquidità finanziaria negli USA, ha portato all’ottimizzazione dell’economia cartacea e di quella che gli economisti liberali hanno definito “lo squilibrio globale” tra risparmiatori/investitori industriali/esportatori (in Asia) e consumatori/strutture finanziarie/importatori (negli USA). I consistenti surplus commerciali nell’est sono stati monetarizzati con l’acquisto di biglietti di banca statunitensi. L’economia americana è stata precariamente sostenuta da un’economia cartacea sempre più gonfiata.
L’espansione del settore finanziario è stata resa possibile dall’elevato tasso dei benefici, grazie anche all’economia “liberalizzata” imposta dal potere degl’investimenti di capitale diversificati dei precedenti decenni.
L’internazionalizzazione del capitale, la sua crescita dinamica e lo smisurato aumento del commercio hanno superato i salari stagnanti, la caduta dei pagamenti sociali, l’ampio surplus della forza di lavoro. Il capitale ha cercato per un certo tempo di sostenere i suoi profitti grazie al settore immobiliare, gonfiato con l’espansione del credito, l’effetto leverage sul debito, e la massiccia emissione di “strumenti finanziari” fraudolenti (beni invisibili senza valore). Il collasso dell’economia cartacea ha messo in pericolo un sistema finanziario sovradimensionato e ha obbligato a modificarlo. La perdita di finanze, crediti e mercati, ha avuto conseguenze per tutte potenze industriali produttrici di beni per l’esportazione. La mancanza di consumo sociale, la debolezza del mercato interno e gli ampi squilibri hanno reso impossibile alle potenze industriali sfruttare mercati alternativi per stabilizzare o limitare la spirale recessiva e depressiva. La crescita dinamica delle forze produttive fondate sullo sfruttamento intensivo del lavoro ha portato al sovradimensionamento dei circuiti finanziari, con la conseguenza di avviare il processo di “eliminazione” dell’industria e di subordinare il processo di accumulazione a un capitale estremamente speculativo.
Lavoro a basso costo – alla base della crescita di profitti, investimenti, commercio ed esportazione a scala mondiale – non è più stato in condizione di sostenere la rapina del capitale finanziario e di fornire un mercato al dinamico settore industriale. Quella che è stata erroneamente indicata come una crisi finanziaria, o in senso più stretto una crisi dei “mortgage” o dell’immobiliare, era più semplicemente il segnale del collasso di un settore finanziario sovradimensionato. Il settore finanziario, nato dall’espansione del capitalismo “produttivo”, gli si è poi “rivoltato contro”. I legami storici e i collegamenti storici tra industria e capitale finanziario hanno inevitabilmente condotto a una crisi sistemica del capitalismo, preso nella contraddizione tra un lavoro impoverito e un capitale concentrato. L’attuale depressione mondiale è il risultato di un processo di “sovraccumulazione” del sistema capitalistico, all’interno del quale il crollo del sistema finanziario ha funzionato da “detonatore” ma non da determinante strutturale. E le cose stiano così è dimostrato dal fatto che due paesi industriali, Giappone e Germania, hanno affrontato una caduta delle esportazioni, degl’investimenti e della crescita superiore a quella registrata in due paesi “finanziari”, USA e Regno Unito.
Il sistema capitalistico in crisi distrugge capitale per “espellere” le industrie e i settori meno efficienti e competitivi e più indebitati, in modo da riconcentrare il capitale e ricostruire il potere dell’accumulazione, se le condizioni politiche lo permetteranno. La ricomposizione del capitale passa attraverso la rapina delle risorse pubbliche: il cosiddetto bailout e gli altri massicci trasferimenti dal tesoro pubblico (ovverosia dai “contribuenti”) ottenuti con la selvaggia riduzione dei trasferimenti sociali (ovverosia i “servizi pubblici”), del costo del lavoro (grazie ai licenziamenti, alla disoccupazione generalizzata e alla riduzione dei salari, delle pensioni e delle spese sanitarie) e degli standard di vita. Tutto per aumentare i tassi di profitto.
La depressione mondiale: analisi di classe
Gl’indicatori economici aggregati sull’ascesa e la caduta del sistema capitalistico mondiale non ci aiutano molto a capire le cause, la traiettoria e l’impatto della depressione mondiale. Nel migliore dei casi descrivono il macello economico; nel peggiore nascondono le classi sociali dominanti (classi dirigenti), che con le loro complesse reti e trasformazioni hanno pilotato l’espansione e il collasso economico, e le classi dei lavoratori e salariati (classi lavoratrici), che hanno prodotto la ricchezza necessaria ad alimentare la fase espansiva e che adesso pagano i costi del collasso economico.
È un truismo ben noto che quelli che hanno innescato la crisi sono anche i maggiori beneficiari della generosità del governo. Le nude e crude osservazioni quotidiane ci mostrano che la classe dirigente “ha creato” la crisi e che la classe lavoratrice “ne paga” a dir poco i costi; un riconoscimento dell’utilità dell’analisi di classe per decifrare la realtà sociale soggiacente agli aggregati economici. Dopo la recessione dei primi anni ’70, la classe capitalistica industriale dell’occidente ha garantito i fondi per dar vita a un periodo di ampia e profonda crescita per il mondo intero. I capitalisti tedeschi, giapponesi e del sud-est asiatico hanno prosperato, entrando in concorrenza e in collaborazione con le loro controparti statunitensi. In tutto questo periodo il potere sociale, l’organizzazione delle classi lavoratrici e la loro influenza politica hanno subito una perdita di posizioni (relative e assolute) nel totale delle entrate materiali. Le innovazioni tecnologiche, compresa la riorganizzazione del lavoro, hanno controbilanciato gli aumenti salariali riducendo la “massa dei lavoratori” e, in particolare, la loro capacità di esercitare pressioni sulle prerogative della dirigenza. La posizione strategica capitalistica nella produzione ne è uscita rafforzata, e ha reso possibile un controllo quasi assoluto sulla localizzazione e i movimenti di capitale.
Soprattutto negli USA e nel Regno Unito, i poteri consolidati dei capitalisti, con consistenti accumuli di capitale e una sempre maggiore concorrenza dei colleghi tedeschi e giapponesi, avevano cercato d’incrementare i tassi di guadagno spostando gl’investimenti di capitale nelle finanze e nei servizi. In un primo momento l’operazione mirava a fornire credito e finanziamento per favorire la vendita di automobili e di elettrodomestici “bianchi”. I capitalisti industriali meno dinamici avevano trasferito le linee di montaggio in regioni o paesi a basso costo di lavoro. Come conseguenza, negli USA i capitalisti industriali avevano assunto l’aspetto di “finanzieri”, pur conservando il carattere industriale nella gestione delle fabbriche sussidiarie nei paesi oltremare e dei fornitori in subappalto. L’utile delle fabbriche oltremare e delle operazioni finanziarie locali gonfiava il profitto aggregato della classe capitalista. Mentre l’accumulazione di capitale aumentava nel “paese di origine”, i salari locali e i costi sociali erano sotto pressione, perché, con la collaborazione delle unioni sindacali negli USA e dei partiti politici socialisti in Europa, i capitalisti scaricavano i costi della concorrenza sui lavoratori. Le clausole salariali, che legavano in modo asimmetrico salari e produttività, e i patti lavoro-capitale facevano aumentare i profitti. I lavoratori statunitensi erano “ricompensati” dal basso costo dei beni di consumo importati, prodotti da forze di lavoro sottopagate nei paesi di recente industrializzazione, e dal facile accesso al credito.
Per tutti gli anni ’90, la rapina dell’ex Unione Sovietica, con la collaborazione degli oligarchi locali, aveva dato luogo a un massiccio flusso di capitali saccheggiati nelle banche occidentali. La transizione della Cina verso il capitalismo, avviatasi negli anno ’80 e intensificatasi nel decennio successivo, aveva poi aumentato l’accumulazione dei profitti industriali, grazie allo sfruttamento intensivo di decine di milioni di salariati a livelli di pura sopravvivenza. Mentre i trilioni di dollari dell’ex Unione sovietica si riversavano nei settori finanziari dell’Europa occidentale e degli USA, il sovradimensionamento del settore finanziario era aggravato dalla massiccia crescita di miliardi di dollari dei trasferimenti illegali e del riciclaggio tra banche statunitensi e britanniche.
L’aumento dei prezzi petroliferi e gli utili dei capitalisti “rentier” (il termine indica i capitalisti che vivono essenzialmente del profitto ricavato dal capitale liquido. NdT) aveva nel frattempo aggiunto un’importante nuova fonte di profitti finanziari e liquidità. Rapina, profitto, e capitale illecito aveva dunque permesso un’ampia accumulazione di ricchezza finanziaria del tutto indipendente dalla produzione industriale. D’altra parte, la rapida industrializzazione della Cina e di altri paesi del sud-est asiatico aveva aperto un importante mercato ai fabbricanti tedeschi e giapponesi di beni tecnologicamente complessi, permettendo loro di vendere alle fabbriche vietnamite e cinesi apparecchiature di alta qualità e tecnologicamente complesse.
I capitalisti statunitensi non hanno “deindustrializzato”, lo ha fatto il paese. Spostando la produzione oltremare, importando i prodotti finiti, e occupandosi solamente del credito e del finanziamento, la classe capitalistica americana e i suoi membri sono diventato multisettoriali e diversificati. Hanno così moltiplicato i profitti e accelerato l’accumulazione di capitale.
I lavoratori sono dal canto loro stati sottoposti a numerose forme di sfruttamento: stagnazione dei salari, stretta creditizia, passaggio da lavori specializzati con alti salari a lavori meno pagati con conseguente riduzione dello standard di vita.
Le cause di base del collasso erano chiaramente visibili: la crescita dinamica del capitalismo occidentale era in buona parte basata sulla rapina brutale dell’URSS e dell’America latina, con una marcata contrazione del livello di vita su tutto l’arco degli anno ’90. Lo sfruttamento selvaggio e intensificato di centinaia di milioni di malpagati lavoratori cinesi, messicani, indonesiani e indocinesi, così come l’esodo forzato di ex agricoltori riciclati come lavoratori migranti nei centri di produzione,aveva permesso alti livelli di accumulazione, rafforzati anche dalla relativa contrazione dei salari negli USA e in Europa occidentale. La priorità data da Germania, Cina, America latina, ed Europa orientale alla crescita basata sulle esportazioni aveva aggravato il sempre maggiore “squilibrio” (o contraddizione) tra ricchezza capitalistica concentrata e la crescente massa di lavoratori sottopagati. A livello mondiale le iniquità erano cresciute in progressione geometrica, e il processo dinamico di accumulazione aveva superato la capacità del sistema capitalistico, estremamente polarizzato, di assorbire capitale nelle attività produttive garantendo gli elevati tassi di profitto registrati. Si era così arrivati ad una crescita generalizzata e multiforme di capitale speculativo che aveva gonfiato i prezzi e investito in beni immobiliari, materie prime, hedge fund, titoli, finanziamento mediante la cessione di crediti, fusioni e acquisizioni: tutte attività senza alcun collegamento con le attività reali che producono valore. Il boom industriale e le pressioni esercitate sui salari dei lavoratori avevano però minato la domanda interna e intensificato la concorrenza sui mercati mondiali. L’attività speculativo-finanziaria, con le sue massicce liquidità, aveva permesso una “soluzione nel breve termine”: i profitti basati sul finanziamento mediante la cessione di crediti. La concorrenza tra finanziatori aveva dato impulso alla disponibilità di credito a basso prezzo, e la speculazione immobiliare era diventata possibile anche per la classe lavoratrice, permettendo a salariati e operai che non disponevano di risparmi o beni personali di ottenere facilmente mutui e partecipare alla frenesia alimentata dagli speculatori e fondata sull’idea di una crescita irreversibile del valore degl’immobili. L’inevitabile collasso si è propagato in tutto il sistema, partendo dalla base della catena speculativa: dagli ultimi arrivati detentori di ipoteche immobiliari subprime, la crisi è salita fino a colpire le più grandi banche e società che si erano lanciate nelle acquisizioni e nelle operazioni di leveraged buyout. Sono stati colpiti tutti i “settori” che avevano “diversificato” passando dalla produzione alle finanze, al commercio e alle materie prime. L’intera classe dei capitalisti si è trovata di fronte al fallimento. Gli esportatori industriali tedeschi, giapponesi e cinesi, che avevano sfruttato i lavoratori hanno dovuto affrontare il collasso dei loro mercati di esportazione.
L’esplosione della bolla finanziaria è stata la conseguenza della “sovraccumulazione” del capitale industriale e della rapina della ricchezza a scala mondiale. La sovraccumulazione radica nel più importante caratteristica del capitalismo: la contraddizione tra proprietà privata e produzione sociale, la contemporanea concentrazione del capitale, il rapido declino degli standard di vita.
Obama e la crisi del capitalismo: analisi di classe
Gl’indicatori dell’aggravarsi della depressione nel 2009 sono visibili ovunque:
– i fallimenti sono aumentati del 14% nel 2008 e dovrebbero aumentare di un altro 20% nel 2009 (Financial Times, 25 febbraio 2009, p. 27)
La svalutazione delle grandi banche occidentali ha raggiunto il trilione di dollari, e continua ad aumentare (secondo l’Institute for International Financing, the banking groups Washington lobby). (Financial Times, 10 marzo 2009, p.9).
E secondo il Financial Times le perdite dovute all’obbligo delle banche di ricalcolare i propri investimenti sulla base dei prezzi di mercato si avvicina ai 3 trilioni di dollari, pari a un anno di produzione economica britannica. Nello stesso rapporto, si afferma che secondo l’Asian Development Bank i beni patrimoniali si sarebbero ridotti di oltre 50 trilioni a livello mondiale, una cifra dello stesso ordine di grandezza della produzione mondiale annua. Nel 2009 gli USA avranno un deficit di bilancio pari al 12,3% del PIL e un deficit fiscale enorme che finiranno per distruggere le finanze pubbliche.
I mercati mondiali sono crollati:
– il TOPIX è sceso da 1800 (metà 2007) a 700 (inizi 2009);
– Standard and Poor da 1380 (inizi 2008) a meno di 700 (2009);
– FTSE100 da 6600 a 3600 (inizi 2009);
– Hang Seng da 32.000 (inizi 2008) a 13,000 (inizi 2009) (Financial Times, 25 febbraio 2009, p.27);
– nel quarto trimestre 2008, il PIL si è contratto a un tasso annuo del 20,8% nella Corea del sud, del 12,7% in Giappone, dell’8,2% in Germania, del 2,9% nel Regno Unito, del 3,8% negli USA (Financial Times, 25 febbraio 2009, p.9);
– l’indice Dow Jones Industrial Average è crollato da 14.164 (ottobre 2007) a 6.500 (marzo 2009);
– il declino annuo della produzione industriale è stato del 21% in Giappone, del 19% nella Corea del sud, del 12% in Germania, del 10% negli USA, del 9% nel Regno Unito (Financial Times, 25 febbraio 2009, p.9);
– si prevede che i flussi netti di capitale privato dai paesi dominati verso i paesi capitalistici meno sviluppati si ridurranno dell’82% e i flussi creditizi di 30 miliardi di dollari (Financial Times, 25 febbraio 2009, p.9);
– l’economia statunitense è scesa del 6,2% negli ultimi tre mesi del 2008, e ancora di più nel primo trimestre del 2009 a causa del netto declino delle esportazioni (23,6%) e delle spese al consumo (4,3%) nell’ultimo trimestre del 2008 (British Broadcasting Corporation, 27 febbraio 2009).
Con oltre 600.000 nuovi disoccupati al mese negli ultimi tre mesi del 2009, e molti di più messi a tempo parziale o prossimi al licenziamento nel 2009, la disoccupazione reale e mascherata potrebbe raggiungere a fine anno il 25%. Tutti i sintomi fanno pensare a una depressione profonda e prolungata:
– le vendite di General Motors, Chrysler e Ford sono scese di oltre il 50% sull’arco di un anno (2007-2008). Il primo trimestre del 2009 ha visto un ulteriore declino del 50%;
– i mercati esteri si stanno prosciugando man mano che la depressione di diffonde;
– nel mercato interno americano le vendite di beni durevoli sono scese del 22% (BBC, 27 febbraio 2009);
– gl’investimenti residenziali sono crollati del 23,6% e gl’investimenti d’affari del 19,1%, con una caduta del 27,8% delle apparecchiature e software.
L’onda crescente della depressione è guidata dal disinvestimento degl’investimenti privati. Crescenti giacenze, ridotti investimenti, fallimenti, uscita dai mercati, insolvenze bancarie, massicce perdite di accumulazione, restrizioni nell’accesso al credito, crollo del valore dei beni patrimoniali, e riduzione di oltre il 20% dei valori immobiliari (oltre 3 trilioni di dollari) sono al tempo stesso causa e conseguenza della depressione. Come conseguenza del collasso dei settori industriale, minerario, immobiliare e commerciale, ci sono in tutto il mondo almeno 2,2 trilioni di dollari di debiti bancari “tossici” (inesigibili), ben più dei fondi di soccorso messi a disposizione dalla Casa Bianca tra ottobre 2008 e marzo 2009.
La depressione sta riducendo il peso economico a livello globale dei paesi imperialisti e sta minando le strategie di esportazione finanziate dal capitale straniero in America latina, Europa orientale, Asia e Africa.
Tra gli economisti tradizionali, i consiglieri finanziari, esperti e specialisti in storia dell’economia, è diffusa la convinzione che “a lungo termine” il mercato azionario recupererà, la recessione terminerà e il governo si ritirerà dal settore economico. Questi analisti guardano all’esperienza dei precedenti cicli, i “cicli storici”, e non percepiscono la realtà attuale, che non ha precedenti: la natura globale della depressione economica, la velocità del crollo mai prima conosciuta, il livello del debito che i governi devono sopportare per sostenere le banche e le industrie insolventi, i deficit pubblici senza precedenti che prosciugheranno le risorse per molte generazioni a venire.
I profeti ufficiali dello “sviluppo a lungo termine” selezionano arbitrariamente alcuni indicatori del passato, stabiliti sulla base di un contesto politico-economico completamente diverso da quello attuale. L’ozioso parlare degli economisti “post-crisi” ignora i sempre diversi parametri variabili, mancando così i veri “indicatori di mercato” dell’attuale depressione. Come ha sottolineato un analista, “ogni punto di partenza che scegliamo tra i dati storici non può replicare le condizioni di partenza di un diverso momento, perché gli eventi che lo precedono nei due casi non possono essere identici” (Financial Times, 26 febbraio 2009, p.24). L’attuale depressione statunitense si è sviluppata nel contesto di una economia deindustrializzata, un sistema finanziario insolvente, un deficit fiscale eccezionale, un deficit commerciale enorme, un debito pubblico senza precedenti, un debito estero di vari trilioni di dollari, e una spesa militare per le varie guerre e invasioni in corso ben al di sopra degli 800 miliardi di dollari. Ognuna di queste variabili contraddice il contesto in cui si sono sviluppate le precedenti depressioni. Non c’è niente nelle precedenti crisi del capitalismo che rassomigli alla situazione attuale. L’odierna configurazione delle strutture economica, politica e sociale del capitalismo include livelli astronomici di rapina delle risorse del tesoro pubblico, usate per sostenere le banche e le industrie insolventi, con trasferimenti senza precedenti di entrate dei salari e dei contribuenti verso “profittatori” non produttivi e capitalisti industriali falliti, beneficiari di dividendi e creditori. I tassi e livelli di appropriazione e di riduzione dei risparmi, delle pensioni e dei programmi sociali, sempre senza contropartita, hanno condotto alla più rapida e generalizzata riduzione degli standard di vita e impoverimento delle masse mai registrato nella recente storia americana. .
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Mai, nella storia del capitalismo, si è avuta una profonda crisi economica senza un movimento sociale alternativo, e la presenza dei partiti o dello stato per proporre soluzioni. Mai gli stati e i regimi sono stati così strettamente controllati dalla classe capitalistica, soprattutto per quanto riguarda l’assegnazione delle risorse pubbliche. Mai, nel corso di una depressione economica, una parte così importante delle spese pubbliche è stata selettivamente destinata a compensare una classe capitalistica fallita, lasciando così poco ai salari e ai lavoratori dipendenti. .
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Le scelte e politiche economiche del regime di Obama riflettono in modo evidente il controllo totale della classe capitalista sulle spese pubbliche e sulla pianificazione economica… (CONTINUA)
James Petras
Fonte: www.globalresearch.ca
Link: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=12955
30.03.2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CARLO PAPPALARDO