DECRESCITA E WELFARE STATE

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DI MAURIZIO PALLANTE

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Risposta alle osservazioni critiche formulate da Marino Badiale e Massimo Bontempelli nel saggio Due vie per la decrescita

Marino Badiale mi ha inviato qualche mese fa un saggio intitolato Due vie per la decrescita, che ha scritto
insieme a Massimo Bontempelli. In questo saggio sono state raccolte alcune riflessioni critiche sul mio
testo Decrescita e Welfare State, per cui mi ha chiesto di fargli avere il mio parere. Ho letto quanto hanno
scritto con attenzione ma solo ora, approfittando della diminuzione di impegni nel mese di agosto, ho
messo in ordine le riflessioni che hanno suscitato in me le loro. Le righe in corsivo riportano passaggi
del loro testo nella successione in cui appaiono.


Le tesi fondamentali di Pallante nello scritto citato ci sembrano essere le seguenti: poiché “il welfare state e i servizi sociali
sono legati con un nesso inscindibile alla crescita del prodotto interno lordo”, mentre la proposta teorica e politica della
decrescita è appunto la proposta della decrescita del prodotto interno lordo, Welfare State e decrescita sono incompatibili, e
chi sostiene la decrescita deve criticare il Welfare State e chiedere la riduzione dei servizi sociali pubblici tipici delle
politiche “socialdemocratiche” che hanno segnato la storia dei paesi occidentali nel secondo dopoguerra.

Se, per fare un’analogia, questa interpretazione di ciò che ho scritto venisse applicata al mal di testa,
potrebbe essere tradotta così: poiché il mal di testa e la testa sono legati con un nesso inscindibile, chi
vuol guarire dal mal di testa deve farsela tagliare. Basterebbe questa osservazione per stroncare le mie
riflessioni e rendere inutile ogni ulteriore sforzo di approfondimento. In realtà la mia tesi non è quella
che con una superficialità sorprendente mi viene attribuita, per cui mi sento in dovere di riformularla
per punti rammaricandomi di non essere stato sufficientemente chiaro prima.

La tesi è:

1. Il pil misura il valore monetario delle merci comprate e vendute nel corso di un anno, pertanto la
crescita ha bisogno di estendere progressivamente la mercificazione a settori sempre più ampi della vita
individuale e sociale, anche quando ciò comporti un aumento dell’inquinamento ambientale, uno spreco
di risorse e di energia, un peggioramento della qualità della vita. Riprendendo l’ormai abusato esempio
del confronto tra lo yogurt autoprodotto, che non fa crescere il pil perché non viene scambiato con
denaro, e lo yogurt comprato, che fa crescere il pil, lo yogurt che si compra viene trasportato da lunghe
distanze, per cui comporta un consumo di fonti fossili e un aumento delle emissioni di CO2, produce
tre tipi di rifiuti, viene prodotto non si sa quanto tempo prima di quando verrà consumato e deve essere
aiutato in qualche modo a rimanere fresco più a lungo di quanto non avverrebbe naturalmente, costa
quattro volte di più di quello autoprodotto, che non deve essere trasportato, non produce rifiuti ed è
freschissimo.

2. Per estendere la mercificazione occorre aumentare il numero dei produttori e consumatori di merci
(che sono due aspetti della stessa persona perché solo chi produce merci riceve in cambio il denaro con
cui può comprare merci) e il numero delle ore al giorno e dei giorni all’anno in cui i produttori/consumatori di merci lavorano per produrle.

3. Per aumentare il numero dei produttori / consumatori di merci occorre fare una guerra sistematica a
chi non lo è, ovvero a chi soddisfa una parte rilevante dei suoi bisogni vitali autoproducendo beni e
utilizzando forme di scambio non mediate dal denaro, basate sul dono e la reciprocità. Questa guerra,
come tutte le guerre, comincia con la propaganda e le false comunicazioni finalizzate a demonizzare il
nemico e ad esaltare la propria bontà che risulta soprattutto dall’impegno profuso nel distruggere il
nemico in quanto personificazione del male. Questo lavoro di propaganda ha la funzione di preparare e
giustificare l’uso della violenza e la guerra guerreggiata nei suoi confronti. Nel caso specifico della
guerra all’economia pre-industriale, nel corso del Novecento e con una progressiva intensificazione a
partire dal secondo dopoguerra è stata instillata nella popolazione italiana l’idea dell’arretratezza della
vita in campagna fino al punto di indurre nei contadini una profonda vergogna per il loro stato sociale,
a convincere le ragazze che fosse una follia sposarli, a considerare un segno di povertà la capacità di
autoprodurre qualcosa (le donne pugliesi nascondevano di saper fare le orecchiette e ostentavano come
un segno di benessere l’acquisto di pasta prodotta industrialmente nei giorni di festa), a drammatizzare
le limitazioni alla libertà individuale imposte dal controllo sociale esercitato nelle famiglie patriarcali e
dalla cura dei vecchi (che in realtà continuavano a dare un contributo insostituibile nella gestione della
famiglia), mentre venivano esaltati la modernità e la superiorità della vita nelle città, il lavoro salariato
perché mette in condizione di acquistare ciò che serve per vivere, l’anonimato e l’isolamento della vita
nelle aree urbane come garanti dell’autonomia e della privacy. Contestualmente a livello scientifico il
concetto di lavoro veniva appiattito sul concetto di occupazione (per gli istituti di statistica chi lavora
per produrre beni anziché merci e pertanto non riceve un salario in cambio dell’attività svolta anche se
è utile o addirittura indispensabile, viene catalogato nella categoria delle «non forze di lavoro»). Mentre
la pubblicità, esaltando il consumo come segno della realizzazione umana, e la scuola, finalizzando
l’istruzione alla formazione del lavoratore e non del cittadino, facevano la loro parte nel formare questa
mentalità, la legislazione, utilizzando soprattutto in modo strumentale norme igieniche o misure fiscali,
poneva una serie successiva di impedimenti alle attività agricole svolte per autoconsumo e vendita delle
eccedenze, per impedire che strati rilevanti della popolazione potessero continuare a vivere al di fuori
della mercificazione totale e costringere i contadini a trasformarsi in produttori agricoli, o in lavoratori
salariati.

4. Se per far crescere il pil deve crescere il numero dei produttori/consumatori di merci, si riduce il
numero delle persone che lavorano per autoprodurre beni. Se per far crescere il pil si devono dedicare
tutte le energie e la maggior parte del tempo a produrre merci per avere il denaro necessario a comprare
merci, non resta più tempo per autoprodurre beni e per gli scambi basati sul dono e la reciprocità. Se
per far crescere il pil si devono dedicare tutte le energie e la maggior parte del tempo a produrre merci,
non bisogna essere distratti da altri tipi di occupazioni, che so: la contemplazione, la creatività, l’amore;
né da altri tipi di preoccupazioni, che so: la cura dei bambini, dei malati, degli anziani. Ma se si dedicano
tutte le energie a produrre merci si ottiene un reddito monetario sufficiente a comprare delle distrazioni
e a pagare persone che si occupino della cura alle persone per mestiere. Se per far crescere il pil si devono
mercificare tutti gli aspetti della vita, anche le relazioni più intime basate sull’amore, la collaborazione
reciproca, la solidarietà, l’affetto, devono essere sostituite dall’acquisto di servizi sociali che goffamente
li imitano. Se il pil viene considerato l’indicatore del benessere, anziché di un tanto avere che causa malessere
come in effetti è, la sua crescita consente di investire una percentuale crescente di reddito monetario per
acquistare quei servizi sociali che vengono definiti in inglese welfare state, ovvero stato del benessere, mentre
sono una necessità indotta dalla finalizzazione della propria vita alla ricerca di quel tanto avere che genera
malessere. Invece, secondo la propaganda del regime fondato sulla crescita del pil, lo sviluppo dei servizi
sociali contribuisce a rendere più libere le persone sollevandole da incombenze fastidiose come donarsi
del tempo per amore o solidarietà, e migliora la loro vita. Proprio come sostengono i miei due critici
affascinati dalla modernità (di cui peraltro riconoscono la connotazione di promessa non mantenuta)
svolgendo senza rendersene conto il ruolo di cavalli di Troia di un’ideologia che nella loro fantasia
pretendono di combattere.
Se si crede invece che questo meccanismo di mercificazione estesa ai rapporti umani sia una barbarie, si
ha il dovere civile di denunciarlo e di auspicare che un rigurgito di resipiscenza induca le persone che la
vivono con disagio esistenziale e sofferenza crescente a ridurre il tempo che dedicano alla produzione
di merci e aumentare il tempo che dedicano alle relazioni umane. Chi fa questa scelta, l’unica in grado di
dare alla vita quel senso che non può dare per definizione l’accumulo di denaro per comprare cose da
buttare sempre più in fretta in modo da poterne produrre e comprare altre, darà oggettivamente un
contributo alla riduzione del pil, avrà un reddito monetario minore ma non ne subirà limitazioni perché
gli resterà il tempo di scambiare per amore i servizi alla persona e avrà bisogno di comprarne di meno
dai servizi sociali. Non chiederà di ridurre i servizi sociali per far diminuire il pil – non si farà tagliare la
testa per farsi passare il mal di testa – ma sceglierà di dedicare più tempo alle persone e meno alle cose
per essere più felice e far felici le persone a cui vuol bene. Di conseguenza farà diminuire la domanda di
servizi forniti dallo stato del benessere e la crescita del pil. Si curerà per eliminare le cause che gli
provocano il mal di testa.

Da queste prime osservazioni alle critiche che mi sono state rivolte inizio a dedurre che la lettura del
mio testo fatta da Badiale e Bontempelli sia stata effettuata col paraocchi dell’ideologia della crescita. E
che in conseguenza di ciò essi abbiano sviluppato le loro argomentazioni non su ciò che ho scritto ma
su ciò che credono che io abbia scritto. Il proseguimento della lettura del loro testo mi ribadisce questa
convinzione. Ecco la seconda argomentazione: Come si risponderà allora ai bisogni che attualmente vengono
soddisfatti dai servizi sociali (o da quel che ne resta)? Secondo l’articolo citato, la risposta del movimento della decrescita
dovrebbe essere quella del ritorno il più esteso possibile all’autoproduzione, per quanto riguarda la domanda di beni
materiali, e alla famiglia allargata, per quanto riguarda la domanda di servizi alle persone (cura dei bambini e degli
anziani, per esempio).

Una precisazione iniziale: il soggetto a cui fanno riferimento i miei due critici non è il movimento per la
decrescita, che è composto di varie correnti di pensiero, dove le diversità e le sfumature costituiscono in
ambito culturale il segno di una ricchezza analoga a quella della biodiversità, ma al movimento della
decrescita felice, che di queste correnti è quella in cui io mi riconosco. Ciò precisato, il movimento della
decrescita felice non ha mai sostenuto «il ritorno il più esteso possibile all’autoproduzione», bensì la
riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni (ad esempio gli sprechi energetici
di un edificio mal costruito, oppure il cibo che si butta) e l’aumento della produzione e dell’uso di beni
che non sono merci quando sia più utile e conveniente dell’acquisto di merci equivalenti (l’esempio
dello yogurt e la collocazione dell’autoproduzione nel cerchio più interno di tre cerchi concentrici di cui
la prima corona circolare è costituita dagli scambi basati sul dono e la reciprocità e la seconda dagli
scambi mercantili).
Aver interpretato una distinzione di carattere qualitativo (la differenza logica tra il
concetto di bene e il concetto di merce) in termini quantitativi (il più esteso possibile) è un secondo indizio di
una impostazione culturale tutta interna all’ideologia della crescita. La terza argomentazione si legge
subito dopo, quando a partire dalla conclusione del mio testo, i miei due critici si domandano: Per capire
quali siano le conseguenze di queste tesi, partiamo dalla fine, cioè dallo slogan “meno Stato e meno Mercato”
. La
domanda ovvia che si deve fare, di fronte ad un simile slogan, è “cosa vuol dire?”. Che cosa vuol dire,
nell’orizzonte
della modernità, criticare contemporaneamente lo Stato e il Mercato? Stato e Mercato sono le due forme di regolazione
della società che si sono date storicamente nella modernità. Pensare ad una ritirata simultanea di Stato e Mercato, nella
modernità, significa pensare in sostanza ad una società che si autoregola in maniera spontanea. Ma questo non è
nient’altro che l’utopia anarchica o comunista, una utopia che è priva di ogni aggancio con la realtà attuale.

Come si possa fantasiosamente dedurre che una riduzione dell’incidenza dello Stato e del Mercato nella
vita individuale e sociale si identifichi con l’utopia anarchica e comunista non riesco nemmeno a
immaginarlo. Forse nella logica dei due critici, che mi sfugge, la riduzione si identifica con l’abolizione,
meno significa niente. Niente Stato e niente Mercato non è nemmeno l’anarchia, è il paradiso terrestre
dove tutti si amano e si donano reciprocamente tutto, i serpenti con le colombe, i lupi con gli agnelli, i
leoni con le gazzelle. Confesso che questa visione non l’ho mai avuta. Mi sono limitato a pensare che
sarebbe bello, ed è possibile, non dipendere al cento per cento dal mercato per la soddisfazione delle
esigenze materiali e non dipendere al cento per cento dallo Stato per la soddisfazione delle esigenze
relazionali. Perché il saper fare rende più autonomi e liberi. Perché il saper fare guidato dalla capacità
progettuale consente di realizzare appieno la natura umana. Perché donarsi reciprocamente tempo e
attenzione rende felici. È l’unica cosa che rende felici. Autoprodursi qualcosa, nella misura che si riesce,
ogni volta che ciò comporti un miglioramento qualitativo della propria vita e del mondo. Donarsi del
tempo reciprocamente, nella misura che si riesce, ogni volta che ciò comporti un miglioramento della
propria vita e della vita delle persone a cui si vuol bene. Una misura che ognuno deve valutare in
relazione alla sua vita, al suo lavoro, alla sua età, alla composizione della famiglia, a tutte le variabili che
non sono misurabili allo stesso modo per tutti e una volta per tutte nella vita di ciascuno.

La critica che mi viene rivolta, secondo i suoi autori naturalmente presuppone che lo slogan “meno Stato e meno
Mercato” abbia in mente un tipo di organizzazione sociale che rimanga nell’orizzonte della modernità. È chiaro che, nelle
società premoderne, si sono date forme di regolazione sociale diverse sia dallo Stato sia dal mercato. E in effetti Pallante
sembra pensare a queste forme, quando fa riferimento alla famiglia allargata come sostituto dei servizi sociali del Welfare
State. Ma per proporre seriamente il ritorno alle forme di regolazione sociale tipiche del premoderno (la famiglia allargata,
la comunità e le tradizioni locali) occorre cancellare la complessa dialettica della Modernità. La Modernità, come è stato messo in luce da due secoli di pensiero, è una promessa di emancipazione che reca in sé il suo limite dialettico e quindi non viene realizzata se non in parte. La Modernità è il luogo della libera individualità autodeterminantesi secondo coscienza e ragione, e il suo svincolarsi dai limiti delle forme sociali premoderne, sopra indicate, è condizione necessaria al pieno sviluppo dell’individuo. La famiglia allargata premoderna, luogo di produzione e consumo, presenta certo aspetti positivi di protezione del singolo, ma contemporaneamente soffoca il libero sviluppo soggettivo per ottenere individui che accettino di entrare nei ruoli già preformati dalle tradizioni. La Modernità, che libera gli individui dal vincolo delle tradizioni accettate come dati naturali, rappresenta il tentativo di una società dove il legame sociale sia fondato sulla scelta razionale e responsabile di ciascuno. Certo, questo ideale non è mai stato realizzato, ma i progressi nella sua direzione sono stati progressi reali. La proposta del ritorno a forme sociali premoderne (proposta che, ricordiamolo, è l’unico modo di dare un contenuto concreto allo slogan “meno Stato e meno Mercato”) cancella questa complessa dialettica, e si configura quindi come puramente reazionaria.

Da queste considerazioni si evincono elementi decisivi per capire il contesto culturale in cui si formano
le critiche che mi vengono mosse: la concezione della storia come progresso, di cui la modernità è la
fase provvisoriamente più avanzata perché l’ultima in ordine di tempo (se la storia è progresso, cioè
avanzamento verso il meglio, tutto ciò che viene dopo è un miglioramento rispetto a ciò che viene
prima); la modernità costituisce pertanto un progresso reale rispetto a prima (la premodernità); i limiti
della modernità consistono nelle sue promesse non realizzate ma il progresso della storia consentirà di
superarli; tutto ciò che precede la modernità è più arretrato e chi ritiene che nella premodernità ci fosse
qualcosa di migliore è un reazionario in quanto non crede nella storia come progresso; la modernità ha
liberato gli individui dal vincolo delle tradizioni ed è il tentativo di una società dove il legame sociale sia
fondato sulla scelta razionale e responsabile di ciascuno. Un peana che raramente mi era capitato di
ascoltare.

Tuttavia, secondo i miei due critici occorre ammettere che la dialettica interna alla società liberale e
borghese ha portato poi, per vie che sarebbe troppo lungo anche solo accennare qui, all’attuale società di “capitalismo
assoluto”, nella quale individui, società e natura sono asserviti ad un meccanismo economico distruttivo.
La modernità libera dunque gli individui dai vincoli della famiglia allargata premoderna, che li limitavano in maniera
insopportabile ma garantivano anche aspetti positivi di protezione del singolo per asservirli a un meccanismo
economico autodistruttivo degli individui, della società e della natura. Un meccanismo che in nome della dedizione
assoluta alla crescita della produzione di merci non solo li ha privati degli aspetti positivi di protezione
del singolo insiti nella famiglia allargata, ma li sta autodistruggendo come specie. Come progresso, come
avanzamento verso il meglio non c’è male. Chi si permette di proporre meno Stato e meno Mercato,
secondo i miei due critici si propone l’abolizione totale di Stato e Mercato, le due forme di regolazione
sociale della modernità, esce dall’orizzonte della modernità e quindi è reazionario (anatema, anatema)
perché si permette di considerare che nella premodernità (quello che è avvenuto prima) ci fossero
elementi migliori che nella modernità (quello che è avvenuto dopo).

A parte il fatto che mi preoccuperei molto di più se qualcuno intravedesse in ciò che scrivo elementi di
una cultura progressista e, tutto sommato, mi disturba molto meno essere considerato un reazionario,
nella venerazione della modernità da cui derivano le critiche che mi vengono mosse sono insiti almeno
due pregiudizi: il primo è che dalla modernità si può uscire soltanto tornando indietro, il secondo è che
tutto ciò che precede la modernità è negativo, o comunque inferiore, più limitante, più vincolante, più
arretrato. Invece dai limiti della modernità si può uscire superandoli in una prospettiva proiettata verso
il futuro che alcuni hanno chiamato post-modernità (una definizione che non mi piace, perché non mette
in evidenza delle caratteristiche autonome, ma solo le differenze con un’epoca storica assunta a pietra di
paragone, come se fosse l’unica definibile di per sé mentre ciò che è stato prima e ciò che sarà dopo
non possa essere definito se non in relazione ad essa: pre- o post-), mentre nella pre-modernità ci sono
potenzialità inespresse e conoscenze abbandonate per il solo fatto di essere state elaborate in epoche
storiche precedenti, che invece possono aiutare a superare i limiti della modernità e l’asservimento degli
esseri umani al meccanismo economico autodistruttivo che la caratterizza. Un modo post-moderno di
liberarsi dai vincoli che costringono a comprare servizi sociali a individui isolati e plasmati mentalmente
per dedicare il meglio delle proprie energie alla produzione e al consumo di merci, è la ricostruzione di
forme di solidarietà comunitaria per libera scelta tra persone con sensibilità comune (banche del tempo,
gruppi d’acquisto solidale, co-housing, eco villaggi). Un altro modo post-moderno di liberarsi dai vincoli
mentali che inducono a considerare la modernità il punto più avanzato della storia e la pre-modernità
 una fase arretrata dove non si può trovare niente di buono è riscoprire quegli elementi pre-moderni,
rimossi e ridicolizzati dalla modernità, che conservano potenzialità in grado di fornire indicazioni
indispensabili per superare i limiti della modernità, in particolare le potenzialità autodistruttive insite nel
meccanismo economico della crescita, e andare avanti nella storia. Perché chi non è prigioniero nella
gabbia mentale dell’ideologia progressista sa che l’apertura di una nuova fase storica più avanzata è una
Delle possibilità insite nel futuro e sa che una delle condizioni necessarie per aprirla è una concezione del
progresso come conservazione del patrimonio di conoscenze e di cultura elaborato dalle generazioni
passate e l’aggiunta ad esso delle conoscenze e della cultura che le generazioni presenti sono in grado di
elaborare a partire dalla conservazione di quel patrimonio.

Nell’orizzonte mentale dei miei due critici la modernità (con tutte le sue promesse non mantenute) ha
costituito un salto così prodigioso nel cammino del progresso e rappresenta un bene così prezioso, una
conquista così decisiva che una volta raggiunta non può più essere sottratta agli esseri umani se non con
l’inganno della religione e con la violenza.
La reazione, che vede nella Modernità un unico errore, si coniuga bene con ideologie di tipo religioso, perché,
quando si negano gli aspetti progressivi e liberatori della Modernità, il ricorso al Maligno è la migliore spiegazione
possibile del suo successo. Se la famiglia premoderna era il luogo idillico che descrive Pallante, in cui tutti scambiano amore
con tutti perché mai abbandonarla, se non per ispirazione diabolica? L’ovvia risposta è che la famiglia premoderna era
insieme luogo di protezione e luogo di repressione, e che la famiglia moderna ha avuto successo perché le persone l’hanno
scelta, e l’hanno scelta per sfuggire alle costrizioni della famiglia premoderna.
Dove abbiano letto nei miei scritti che la famiglia premoderna era il luogo idillico […] in cui tutti scambiano
amore con tutti
, non lo so. Ho solo detto che le relazioni umane basate sull’amore e la solidarietà sono le
uniche in grado di dare senso alla vita e che la loro sostituzione con servizi sociali acquistati rappresenta
un grave peggioramento qualitativo. Con tutti i suoi limiti, la famiglia tradizionale aveva la potenzialità
di realizzare relazioni umane basate sulla solidarietà reciproca, mentre questa possibilità non è data alla
famiglia mononucleare chiusa in una gabbietta condominiale con genitori totalmente assorbiti nel ruolo
di produttori / consumatori di merci. Ed è la quarta volta che i miei due critici forzano il significato di
ciò che scrivo polemizzando con ciò che scrivono loro dopo aver interpretato indebitamente ciò che
scrivo. Non capiscono o non vogliono capire? Ma questo è poco importante. Più importante e grave è
che interpretino come libere scelte delle scelte condizionate da una propaganda martellante di cui non si
rendono conto probabilmente soltanto i telespettatori di Maria De Filippi. Il sistema dei valori di una
società fondata sulla crescita della produzione e del consumo di merci ha fatto una vera e propria guerra
contro la famiglia premoderna, descrivendola come un carcere a vita, e ha modellato nell’immaginario
collettivo come fattore di progresso, modernità, liberazione, emancipazione, l’aberrazione della famiglia
mononucleare incapace di fare qualsiasi cosa e quindi dipendente al cento per cento dall’acquisto di
tutto ciò che serve per vivere, con i suoi componenti sempre di corsa nel tourbillon lavora-consuma-crepa,
eterodiretta in tutti gli aspetti della vita dalla pubblicità. Luogo di frustrazioni e sofferenze represse che
di tanto in tanto esplodono in gesti che vengono catalogati nella follia ma sono le conseguenze insite in
quel modo di vivere. La famiglia mononucleare moderna e cittadina è indispensabile alla crescita del pil:
non sa fare niente e deve comprare tutto ciò che serve per vivere e in misura sempre maggiore ciò che
non serve, per comprare tutto ciò che serve e non serve entrambi i coniugi devono essere produttori /
consumatori di merci (il contributo alla crescita del pil è doppio), non ha tempo per costruire relazioni
umane positive sia al proprio interno, sia con altre famiglie mononucleari, e deve comprare tutti i servizi
alla persona (altro contributo alla crescita del pil). E queste sarebbero libere scelte, fatte per sfuggire alle
costrizioni della famiglia premoderna e conquistare una vita più libera, priva di costrizioni! Ma mi faccia
il piacere, avrebbe detto Totò. Mentre la famiglia premoderna è la sentina di tutti i mali perché non dà
lo stesso contributo alla crescita del pil: non deve comprare tutto ciò che serve per vivere, si permette di
autoprodurre molti beni, fa a meno di molti servizi alla persona, fa durare gli oggetti, produce pochi
rifiuti, è più autonoma dal mercato.

Ma il punto forte delle argomentazioni dei miei due critici deve ancora venire. È introdotto ancora una
volta da una lettura inventata di ciò che non ho mai scritto: La decrescita che rifiuta sia lo Stato sia il Mercato

 
[non riesce proprio a entrare nella loro testa che si propone soltanto di ridurre l’invadenza totalizzante
dello Stato e del Mercato ogni volta che ciò comporti un miglioramento della qualità della vita e degli
ambienti] è dunque una ideologia reazionaria. Certo, il movimento della decrescita [felice, ndr.] non vuole, giustamente, essere classificato come reazionario [in realtà, non vuole, giustamente, essere classificato come progressista] e rifiuta la contrapposizione progresso/reazione. Questo, finalmente, è ciò che pensiamo, ma non so se per le stesse ragioni che pensano i miei due critici e allora meglio spiegarlo. Il movimento della decrescita felice ritiene che le valutazioni delle scelte individuali, sociali, politiche, economiche, tecniche debbano
essere effettuate in base alla loro capacità di futuro. Ci sono modi premoderni di stare al mondo, di
rapportarsi con se stessi, con gli altri, col lavoro, con la scienza, con la tecnologia, con gli altri viventi,
che hanno più capacità di futuro dei modi moderni che li hanno sostituiti perché in base al sistema dei
valori della modernità – innovazione, progresso, crescita sviluppo, cambiamento – sono stati considerati
arretrati, sorpassati, non scientifici. Per esempio i modi di costruzione tradizionali, elaborati quando
l’energia era poca e costava tanto, erano finalizzati a fare in modo che la struttura degli edifici fosse in
grado di costituire un riparo dagli effetti indesiderati del clima, il freddo d’inverno e il caldo d’estate,
mentre le tecnologie edili che li hanno sostituiti in nome della modernità e del progresso li hanno resi
dipendenti da protesi energetiche per svolgere le stesse funzioni, col risultato che oggi gli edifici dei
paesi moderni assorbono circa la metà di tutti i consumi energetici, costituendo la principale fonte di
emissione di CO2 e del potenziale autodistruttivo insito nel modo di produzione industriale. Ma ci sono
anche alcune tecnologie edili moderne con più capacità di futuro delle tecnologie tradizionali che hanno
sostituito. I doppi vetri basso emissivi, contenenti l’argon o il kripton nell’intercapedine, riducono le
dispersioni di calore e, quindi, le emissioni di CO2, in misura molto maggiore dei vetri semplici o dei
doppi vetri. Nel sistema di riferimento culturale definito dalla valutazione della capacità di futuro, la
contrapposizione tra reazione e progresso è assolutamente insignificante, anche se tra le due l’opzione
più gravida di pericoli è quella progressista perché sono le scelte fatte in nome della modernità, del
progresso, del cambiamento, dell’innovazione cambiamento, della crescita e dello sviluppo che stanno
portando l’umanità verso l’autodistruzione. Nel loro complesso non hanno capacità di futuro, mentre
ne ha molta di più il sistema dei valori e dei modelli di comportamento della premodernità. Se dico
questa banalità confermata dai più autorevoli studi scientifici rischio di essere considerato dai miei due
critici un reazionario? Non so quale preoccupazione me ne possa derivare, anche perché un altro è il
colpo più grosso che stanno per assestarmi: E aggiungiamo infine che, come scriveva Hegel, una volta instaurata
la Modernità, la reazione ha sempre una componente violenta (che, s’intende, può concretizzarsi oppure no a seconda delle
situazioni): nel momento in cui la libera individualità ha cominciato a dispiegarsi, (sia pure nelle forme contraddittorie e
incompiute tipiche della Modernità) non è infatti più possibile ricostringerla entro gli schemi delle società tradizionali, se
non attraverso la violenza.

Insomma ero nazista e non lo sapevo. Nazista potenziale, ma inconsapevole. Chissà se è un’attenuante.
Ma questi due sanno di cosa parlano? Ma dove vivono? Negli ultimi quattro anni ho fatto quasi mille
incontri in tutta Italia con gruppi di persone che subiscono con un disagio esistenziale e una sofferenza
crescenti le imposizioni e le costrizioni della modernità, che mi dicono di aver trovato nei miei libri in
forma più organica e sistematica quello che pensavano in forma più confusa, che stanno praticando stili
di vita alternativi in cui l’autoproduzione e il tempo dedicato alle relazioni umane hanno un ruolo
centrale e terapeutico; come movimento per la decrescita felice facciamo i corsi dell’università del saper
fare e abbiamo sempre richieste superiori alle nostre disponibilità; la fascia d’età più rappresentata nei
nostri circoli è quella dei ventenni; sono in relazione con noi gruppi di industriali e di professionisti che
progettano, producono e installano tecnologie finalizzate alla riduzione dei consumi di materie prime,
della produzione di rifiuti, dell’inquinamento ambientale (tutti processi da cui deriva una riduzione della
produzione e del consumo di merci che non sono beni, nella nostra ottica di decrescita); si è avviato un
ancora limitato contro-esodo dalle città alle campagne. Di fronte a questa perdita crescente di credibilità
della modernità, di fronte al dilagare della sofferenza che genera e se non trova via d’uscita si scarica nel
consumo crescente di psicofarmaci, in un numero crescente di suicidi, nella diffusione del consumo di
droga e altri tentativi velleitari di fuga dalla realtà, i miei due critici hanno l’impudenza di scrivere che nel
momento in cui la libera individualità ha cominciato a dispiegarsi, (sia pure nelle forme contraddittorie e incompiute
tipiche della Modernità non è infatti più possibile ricostringerla entro gli schemi delle società tradizionali, se non attraverso la violenza.
C’è veramente da restare basiti. La violenza, anche fisica, è stata ed è tuttora esercitata per sottomettere gli esseri umani ai modelli di comportamento e agli stili di vita liberatori della modernità. Si
pensi alle odierne deportazioni di massa dei contadini cinesi nelle città. O alla legislazione inglese del
settecento che ha reso impossibile ai contadini / artigiani tessili di continuare a ricavare un reddito
sufficiente a vivere dai modi di lavoro tradizionali costringendoli a emigrare nelle città e diventare
operai, cioè produttori / consumatori di merci. O alla martellante campagna sull’inferiorità dei
contadini rispetto ai cittadini che ha indotto milioni di italiani nel dopoguerra a trasferirsi nelle città,
dove vivevano peggio e in ambienti malsani, ma diventando produttori / consumatori di merci
pensavano di riscattarsi dalla vergogna con cui erano stati indotti a considerare la loro precedente
condizione lavorativa. La violenza fisica non è neanche necessaria per sottomettere gli esseri umani ai
comportamenti obbligati necessari a far crescere la produzione e il consumo di merci, perché le
tecnologie della comunicazione della modernità sono in grado di convincere a fare come libere scelte le
scelte obbligate che impongono. A uniformare i comportamenti degli esseri umani senza bisogno di
ricorrere alla repressione. George Orwell in 1984 ha immaginato una situazione più arretrata e meno
convincente di quella descritta da Aldous Huxley in Il mondo nuovo (nuovo, e quindi migliore nella
concezione progressista della storia).
E con quali toni di arroganza e saccenza, che ricordano gli anatemi della III Internazionale, formulano
le loro accuse i miei due critici: Il ragionamento di Pallante contiene due errori, di diverso peso… questa conclusione sarebbe valida se il ragionamento di Pallante fosse corretto… gli errori in cui è incorso Pallante ci sembra si colleghino ad elementi di ingenuità politica e teorica… Questo per quanto riguarda il primo errore. Veniamo adesso al secondo errore logico nel ragionamento di Pallante. Troppo divertente. Involontariamente comico.

Il resto delle argomentazioni è finalizzato a dimostrare che:

– matematicamente è possibile coniugare decrescita del pil e welfare state;

– la decrescita ha bisogno di Marx sostanzialmente per le ragioni indicate nel punto successivo;

– la decrescita non può essere un processo felice, o sereno, perché non si limita a modificare in meglio
gli stili di vita individuali, ma ha una portata rivoluzionaria che intacca i fondamenti stessi del sistema
capitalistico per cui non può non suscitare le reazioni degli interessi minacciati e, quindi, non può non
scatenare conflitti a cui i decrescisti devono essere preparati.

Diamo per scontato che un modello istituzionale e organizzativo in grado di conciliare decrescita e
welfare state sia possibile. Il problema è di capire se c’interessa. Se cioè, appurato che la decrescita sia un
obbiettivo desiderabile, sia anche desiderabile continuare ad affidare a servizi sociali la gestione di
relazioni umane così significative come la cura delle persone a cui si vuol bene nelle fasi della vita in cui
sono più fragili e hanno più bisogno dell’affetto delle persone a cui vogliono bene, in cui hanno fiducia,
con cui hanno in comune l’atto d’amore da cui nasce la vita. Ebbene, se lo sviluppo del welfare state è
una necessità a cui non può rinunciare chi s’incatena a dedicare il meglio delle sue energie alla crescita
del pil, qualora non si dedichi più il meglio delle proprie energie alla produzione e al consumo di merci
per quale ragione si dovrebbe ritenere liberatorio non dedicarlo alle persone a cui si vuol bene? Perché,
se ci si può liberare da una triste necessità si dovrebbe proseguire in una inutile sofferenza? L’esempio
della cura dei bambini effettuata gratuitamente a turno da un gruppo di genitori che dedicano un po’
meno del loro tempo alla produzione e al consumo di merci è veramente un top irraggiungibile di
assurdità. A parte il fatto che il paragone è fatto con un asilo privato a pagamento, come se l’asilo
pubblico non fosse a pagamento, per una quota da parte di chi ne usufruisce e per una quota da parte di
tutti i contribuenti attraverso la fiscalità, se alcuni genitori decidessero di dedicare meno tempo alla
produzione e al consumo di merci potrebbero dedicare più tempo direttamente ai loro figli, senza che
tutti debbano dedicarne una parte a tutti i bambini del gruppo di famiglie al solo scopo di mantenere un
welfare, anche se non più state, ma basato sul dono reciproco del tempo. Il problema non è aumentare i
beni al posto delle merci, ma ridurre il consumo di merci che si possono ottenere più vantaggiosamente
sotto forma di beni. Mi rendo conto che sarebbe meno moderno e, pertanto, reazionario, ma più
semplice da realizzare e più soddisfacente per tutti.

Quanto a Marx, può darsi che chi si rifà a Marx abbia bisogno della decrescita, ma ciò esula dai nostri
interessi. Posso garantire che il filone della decrescita a cui faccio riferimento, la decrescita felice, non
ha avuto bisogno di Marx per elaborare le sue idee, anche se non si possono negare analogie tra la sua
distinzione tra valori d’uso e valori di scambio e la nostra distinzione tra beni e merci, né tra ciò che lui
chiamava il feticismo delle merci e noi chiamiamo consumismo. Probabilmente in altri elementi della
sua teoria potremmo trovare elementi fecondi. Non sono in grado di affrontare il tema per mancanza di
conoscenza. Posso dire soltanto che tutte le correnti politiche che si sono più o meno ispirate alle sue
teorie non hanno mai messo in discussione la crescita, ma si sono limitate a prefiggersi di distribuire in
modi più equi il reddito monetario che la misura. Tutte le sfumature della sinistra e del pensiero che si è
richiamato e si richiama al socialismo, a eccezione di pochi socialisti utopisti, sono stati, insieme e in
opposizione a tutte le correnti che si sono richiamate e si richiamano al pensiero liberal-liberista, le due
varianti in cui si è incarnata l’ideologia della crescita. Il pensiero della decrescita è la fase iniziale di un
paradigma culturale diverso da entrambe, non perché sia equidistante tra loro, ma perché si muove in
uno spazio delimitato da altre coordinate. Nel nostro contesto culturale, ancora tutto da approfondire e
articolare col contributo di una quantità infinitamente superiore d’intelligenze e competenze rispetto al
modestissimo apporto che noi siamo stati in grado di dare, l’aggettivo felice non indica lo stato d’animo
di chi pratica la decrescita nella sua vita, né la connotazione di una società fondata sulla decrescita, né
del processo che porterebbe alla sua realizzazione, ma solo la conseguenza oggettiva dei miglioramenti che
sarebbero apportati alla qualità ambientale e alla qualità della vita, individuale e sociale, da una riduzione
della produzione e del consumo di merci che non sono beni e da un aumento della produzione e
dell’uso di beni che non sono merci quando ciò sia conveniente e utile. Questo ho cercato di spiegarlo
nei miei libri. Può darsi che io non sia stato chiaro. Può darsi che non siano stati letti, o che siano stati
interpretati con gli occhiali di un’altra impostazione culturale.

Maurizio Pallante
5.08.2010

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