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DI EDUARDO ZARELLI
Arianna editrice

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Mahabharata, Anushasana Parva, 116,21

Crediamo che la disgregazione ideale e ideologica, congiunta al degrado pubblico raggiunto nel nostro Paese, non consenta più alcuna indulgenza e coinvolgimento intellettuale. La corruzione indotta nell’esercizio del potere politico, intersecato agli equilibri oligarchici economici e finanziari, decreta un definitivo divorzio tra l’onestà della riflessione e il meretricio della rappresentanza politica e degli interessi organizzati. Viviamo in una “società dello spettacolo”, che non risparmia nemmeno un “colore” del caleidoscopio politico – dall’estrema destra all’estrema sinistra – ed è estenuata da un protagonismo egocentrico, in cui tutti si sentono al centro dell’attenzione, quando in realtà recitano un ruolo di piccole comparse di un cabaret farsesco. (1)

Una gerontocrazia clientelare si perpetua in ogni dove, con una decadenza di costumi legata a una predisposizione nostrana al compromesso, che ha nella commedia dell’arte l’abitudine compiaciuta tanto al servilismo quanto al sopruso impunito e al suo esercizio rancoroso. Ci si consenta una metafora sociale mutuata dalla patologia psicofisica, forse abusata, ma non meno pregnante: il tumore. Il cancro è una malattia causata da una proliferazione incontrollata di cellule: queste, non riconoscendosi più – per motivi molteplici, ma essenzialmente di inquinamento ambientale – nella coerenza generale dell’organismo, perdono la capacità di interpretare le indicazioni del codice genetico che le guida, non riescono a limitarsi nella compiutezza funzionale e si riproducono patologicamente. L’oncogenesi è quindi dovuta alla clonazione (moltiplicazione da una unica cellula), all’anomia (crescita indipendente dai fattori organici fisiologici), all’anaplasia (mancata differenziazione cellulare coordinata), alla metastasi (riproduzione a distanza e in zone anche diverse da quella d’origine). In altri termini, il cancro è una manifestazione della fase preterminale di varie disarmonie e squilibri, che determina o accelera la morte dell’organismo: una entropia del significato esistenziale del vivente.

Questo degrado ha un tono storico epocale, si veicola con il processo di civilizzazione occidentale, ma nel nostro Paese – provincia opaca della globalizzazione – assume un’evidenza specifica, esemplare, per cui l’unico contributo – allo stato dell’arte – che ci sembra coerente riferire, attiene a una riflessione più ampia, non solo in senso sociale e simbolico, ma anche temporale. È tale, il logoramento del presente, che probabilmente solo energie e profili biografici diversi da quelli attuali potrebbero rendersi protagonisti di un mutamento di prospettiva. Occorrerebbe uno “stato nascente” di passioni e di adeguatezza alle circostanze, che oggi non si intravede nelle avvisaglie dei fermenti esistenziali, ancor prima che culturali e sociali.

Alain de Benoist, sulla scia della riflessione antiutilitaristica che caratterizza l’ultima proficua fase del suo percorso intellettuale, costata come la vera gerarchia simbolica delle idee sia costituita prima dal sociale, seguito poi dalla cultura, dalla politica e infine dall’economia. Nell’ambito della critica alla società mercificata, informata da un modo di produrre finalizzato al valore di scambio, il contrasto reale non si pone in merito al valore d’uso – redistributivo, ma anch’esso economicisticamente riduzionistico – ma al valore di relazione. Lo scambio è parte sostanziale della vita stessa, ma sul piano della reciprocità il dono scinde la razionalità di scopo, imponendo l’interazione virtuosa del ricevere e del restituire: la gratuità. Qui si coglie il livello più profondo del conflitto tra le visioni del mondo, che plasmano mentalità e comportamenti sociali. Se la prospettiva è quella di mutare il paradigma dominante, ecologicamente suicida (perché espressione del divorzio tra uomo e natura), culturalmente sterile (perché alimentato dal disincanto nichilistico), economicamente utopistico (perché fondato sull’irrealistica crescita illimitata) e socialmente anomico (perché animato da un individualismo opportunistico, che corrode moralmente il contesto sociale su cui dovrebbe poggiarsi), è conseguente la contrapposizione frontale con le attuali élites tecnocratiche, economiche, politiche e culturali della cosiddetta Nuova Classe. (2)

Ci riferiamo in merito alla tipologia del “ceto emergente”, che scaturisce dalla riflessione della sociologa statunitense – di origine olandese – Saskia Sassen, nota per le sue analisi su globalizzazione e processi transnazionali. Interpretando il teatro dell’azione dei nuovi soggetti sociali che emergono nella rete globale dei flussi economici e della loro istituzionalizzazione – megalopoli, corporation, grandi istituzioni sopranazionali – fattori quali la finanziarizzazione e la smaterializzazione economica si coniugano con il regime internazionale dei diritti umani. Queste e altre dinamiche globalizzanti hanno contribuito a indebolire l’autorità oggettiva della sovranità pubblica sugli individui, il loro immaginario e il loro senso di appartenenza. Processi economici, politici e civili – una volta in gran parte riservati alla sfera di appartenenza locale – sono diventati mondiali e la globalizzazione, anche quando risulti essere più una frustrazione provinciale che una realtà quotidiana – vedi le varie “caste” cui si riduce la meschina classe dirigente nostrana – ha caratteristiche identificabili e, purtroppo, egemoni. La cosiddetta Nuova Classe è vessillifera di un sistema tecno-scientifico-economico mondializzato i cui cardini persuasivi sono il consumismo e l’acquisizione di una conoscenza pratica (know how), adatta a svolgere un ruolo dominante e contemporaneamente funzionale alla globalizzazione. I “privilegiati” sono “senza luogo”, apolidi per definizione, proclamano l’eguaglianza di principio tra gli esseri umani, ma nei fatti, non provando alcun senso di appartenenza e di responsabilità, cercano la più opportunistica affermazione personale, attraverso un agire utilitaristico, esente da ogni dovere e obbligo empatico, di prossimità, poiché viaggiano, parlano un’impoverente basic english – un inglese illetterato e tecnico – e si relazionano solo con loro pari in ambienti artefatti sparsi per il mondo, uniformati in un indistinto “non luogo” (aeroporti, alberghi, sale congressi, aule parlamentari o accademiche, redazioni giornalistiche, studi professionali, sale riunioni, circoli prestigiosi ecc.), con uno stile di vita individualistico e cosmopolita. (3)

Questi indistinti portatori dell’efficienza tecnocratica sono naturaliter indifferenti a una interpretazione ideale del loro ruolo sociale, si sottraggono per funzione, ancor prima che per insensibilità, alla circolarità del dare-ricevere-rendere, proprio della reciprocità comunitaria, concentrandosi su ciò che li avvantaggia nell’acquisizione e nella fruizione. Eventuali snobistiche argomentazioni critiche, emergenti in tale contesto, sono funzionali al paradigma dominante, non tanto per indotto riformismo strutturale, quanto per funzionale logica sistemica. Ovviamente, la Nuova Classe, portatrice di una ideologia dominante, crea un fenomeno di emulazione per mimesi psicologica e imitazione comportamentale (permissivismo consumista) nel generale e indistinto ceto medio proletarizzato che è la conseguenza strutturale dell’impoverimento sociale, culturale ed economico indotto dal liberismo planetario.

Deresponsabilizzazione, narcisismo, opportunismo, cinismo, meschinità diventano così l’atmosfera avvelenata della quotidianità, coinvolgendo anche chi, socialmente subalterno, non trae alcun giovamento da questo modus operandi e inquinando nel profondo l’immaginario stesso della cultura popolare, incapace di promuovere modelli di sobrietà e lealtà – che pur gli appartenevano – realmente critici dello stile di vita edonistico.

È qui che si gioca la credibilità ultima di chi prova ancora l’urgenza di porre in discussione l’esistente. Non vi sono più margini all’infingimento speculativo dell’intellettuale e al presunto “realismo” della politica. Segnato il campo di una modernità tumorale, solo chi si sottrae alla civilizzazione eterodiretta e si pone nella declinazione dell’appropriatezza del rapporto tra cultura e relazione sociale può ridare un segno di civiltà, di governo degli istinti, di messa in forma all’essere al nostro vivere comune e alla dignità stessa dell’essere umano, che è libero solo quando ha in sé i principi del proprio agire. Questo è possibile solo rimettendo profondamente in discussione il proprio stile di vita, perché unicamente di fronte alla propria nuda coscienza si può ritrovare il coraggio di non fingere e di agire coerentemente, per mettere in scacco la logica del calcolo strumentale, che si ammanta di democrazia, per negarla nella sua sostanza partecipativa. È questo il teatro sostanziale del rapporto amico/nemico dell’aggregazione politica, dove ultime e sempiterne risorse a disposizione del conflitto sono la logica del dispendio e lo spirito del dono, della generosità di sé: «Sacrificarsi. Dare. Dare, senza attendersi nulla in cambio. Donare, non per dovere, ma spinti dalla convinzione che colui che dà è sempre più ricco di colui che riceve – e che ha l’onere di donare a sua volta. È questo, in fondo, l’unico grande principio etico. Tutto il resto deriva da qui». (4)

Questo è il clevage esistenziale pre-politico, la faglia di rottura e discrimine con i coriferi farseschi dell’attualità. Solo un sentimento tragico può cogliere la crisi profonda del nostro vivere associato, solo tale consapevolezza può realmente mettere in discussione la funzionalità del meccanismo nichilistico, che ha sottratto ogni fine, nell’accumulo antropico dei mezzi. Quanto più radicale è la crisi dei fondamenti dell’Occidente, tanto più si apre la possibilità per un nuovo inizio, che attinga a forme primigenie e sempre presenti di socialità, che vedano l’affermazione del carattere sul calcolo, dell’identità sulla spersonalizzazione seriale. Contro le oligarchie del presente, chi è in grado di offrire e di offrirsi propizi originali gruppi di riferimento al di fuori della stringente logica dell’utile. Oltre l’autorità di un potere formale e contrattualistico c’è l’autorevolezza della fiducia personale realizzata nella leale e trasparente relazione diretta. C’è una contraddizione di fondo tra la democrazia, il cui principio è l’uguaglianza politica dei cittadini, e il liberalismo, che privilegia la libertà individuale e tende a porre la sfera privata al di sopra dello spazio pubblico. La democrazia non è solo un proceduralismo politico in cui la legittimità si basa sulla sovranità del popolo, è anche il regime che in maniera presuntiva dovrebbe mettere il “popolo al potere”, legittimando la comunità. (5)

Si ricostruisca dal basso, quindi, fuori dalle istituzioni del potere e del sapere, dato il disagio profondo di un vivere mercificato, la prossimità comunitaria che restituisca al vivere una dimensione relazionale di reciprocità e di sussidiarietà. L’omeostasi del bene comune è il fine politico dell’etica e si pratica con la giustizia distributiva e commutativa, prevenendo naturalmente – olisticamente – la metastasi dell’egoismo individualistico, ponendo la libertà sul piano politico della partecipazione e del sentimento comune.
Uscire dal determinismo della modernità significa ritrovare la misura, la sacralità dell’esistente, lo stupore incantato di fronte al vivente, la proporzione del locale relazionato all’universale e, quindi, accettare la sfida del principio della “decrescita”, fondato sulla consapevolezza che non si può avere uno sviluppo materiale infinito in un mondo finito. La hybris del tragico immunizza dall’ottimismo illuministico, oggi fallimentare nell’illusione di poter risolvere tecnicamente i problemi causati dalla tecnica, invece di trovare una appropriatezza antropologica all’essere umano nella “dimora” ontologica della natura. (6)

Su questo si distingue, in ultimo, chi si manifesta entro o fuori dal paradigma dominante, ivi comprese le radicalità ideologiche “anticapitalistiche” – ancora legate, per identità residuale e subalterna, alla “volontà di potenza” della modernità, patriottarda o classista che sia – che titanicamente criticano l’esistente, alimentandolo quando – di fronte al prometeismo tecno-scientifico – l’obiettivo non è quello di ottenere risultati migliori per ridistribuirli alle “moltitudini” globali, né quello di identificarsi con gli apparenti concorrenti “geopolitici” di turno. Così si resta nello stesso sistema, nel suo immaginario, non si formulano legittime ipotesi per smobilitare questo meccanismo nichilistico, questo modo di produrre e di disporre dissipativamente della natura, che distrugge la diversità, nega l’autodeterminazione dei popoli e l’universale pluralità delle culture.

La potenza si fa atto nella compiutezza dell’essere (enteléchia), non primeggiando nella competizione degli istinti predatori.
L’occidentalizzazione potrà essere sconfitta solo da chi sarà in grado di opporle un altro modello di civiltà, sul piano etico prima che nei “rapporti di forza” e sul piano degli “interessi organizzati”. C’è ancora qualcuno disinteressato, disposto a mettersi in gioco? Esiste ancora la possibilità di un destino comune, o vi sono solo spazi minimalistici di testimonianza personale?

Bisogna essere liberi interiormente per volerlo diventare, poiché la libertà consapevole dell’esistenza, è la volontà – sentita come destino – di realizzarla. Il resto è accidente, caducità.

Eduardo Zarelli
Fonte:/www.ariannaeditrice.it
Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=18354
10.04.08

Note

1) Sulla riduzione della società a uno “spettacolo virtuale”, vedi l’ancora lucidissimo Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi, 2008
2) Saskia Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, 2008
3) Sul disorientamento spaziale e identitario della modernità, v. Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Eleuthera, 1996
4) Alain De Benoist, Ultimo anno. Diario di fine secolo, Settecolori, 2006; pag. 164. Sul concetto di dispendio v. anche G. Bataille, La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, 2003 e C. Champetier, Homo consumans, Arianna editrice, 1999.
5) Vedi C. Preve, Il popolo al potere. Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici, Arianna editrice, 2006
6) Vedi M. Heidegger, La questione della tecnica in Saggi e discorsi, Mursia 1976

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