DI EUGENIO ORSO
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Se m’incaricassero di trovare un epitaffio per l’artista David Robert Jones, in arte Bowie, sceglierei i versi disperati (e oggi dimenticati) del Cesare Pavese di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Una morte che ci accompagna, in quest’epoca di grandi trasformazioni, dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo.
Sembrerà strano, ma l’eclettico trasformista Bowie, capace di interpretare le infinite sfumature della sua personalità, rifletteva negl’occhi (e nel canto) la disperazione nichilista che attraversa l’occidente, l’abbandono a un vento di morte e di sgomento sotto la patina rutilante del nuovo.
Come cantava il giovane londinese agli inizi degli anni settanta, evocando quella parte di sé che chiamò poeticamente Lady Stardust, <<Il ragazzo con i blue jeans fiammanti/ Saltò sul palco/ E la signora polvere di stelle cantò le sue canzoni/ D’oscurità e disgrazia>> Non una joie de vivre libera dalle catene del presente e dai fantasmi del passato, la sua, ma una profonda tristezza esistenziale, prigioniera del dualismo uomo-donna, di una strana consapevolezza d’alienità, delle profonde contraddizioni di chi s’illude di vivere se stesso senza limiti, e deve affrontare alla resa dei conti solitudine e morte.
Tutto lo sconcerto dell’individuo abbandonato a se stesso, abbarbicato esclusivamente alla propria creatività e ai propri sogni, la sua impotenza e la tristezza esistenziale, traspaiono dai seguenti versi di Bowie: <<Il tempo prende una sigaretta, la mette nella tua bocca/ Il vicino di casa sta chiamando, esita, poi ti dimentichi/ Oh, sei un suicida del Rock’n’Roll>>.
L’uomo che cadde sulla terra, Ziggy Stardust e la signora polvere di stelle in un unico essere, il suicida del rock’n’roll che ha vissuto fin troppo a lungo erano, nella realtà, immagini sublimi, da un punto di vista artistico, dell’iperindividualismo contemporaneo e della scomparsa progressiva di tutti i solidi riferimenti del passato. Non già crude descrizioni del degrado della società contemporanea, ma la sublimazione attraverso il canto, la musica, la recita sul palco e i travestimenti, dello smarrimento dell’individuo, spinto a vivere se stesso oltre ogni limite, e ogni ragionevole dubbio.
Sbaglieremmo, se pensassimo a colui che tramonta, in Also sprach Zarathustra di Nietzsche, per far da ponte all’oltre uomo, preparando il suo avvento futuro, e sicuramente David Bowie non incarnò l’immagine disprezzata dell’ultimo uomo nicciano, vile e opportunista. Neppure serve scomodare l’individuo assoluto di Julius Evola, nel percorso che porta alla piena determinazione dell’io, perché Bowie fu semplicemente la manifestazione alta, sul versante artistico, dell’abbandono a sé dell’individuo contemporaneo, ben oltre i fenomeni d’idiotizzazione massiva, socialmente organizzata, che oggi imperversano trasformando le società umane.
Il cambiamento (in peggio) della condizione umana, percepito da un Bowie che cercava disperatamente di vivere se stesso, è evidente nei versi di Changes: << Ancora non so cosa stavo aspettando/ E il mio tempo correva selvaggio/ … Ch-ch-Changes/ Devo soltanto essere un uomo diverso/ Il tempo forse mi cambierà/ Ma io non posso tracciare il tempo>>.
Evidente la consapevolezza della trasformazione dell’uomo in altro da se, che il giovane cantante viveva sulla propria pelle come una promessa o una minaccia. Quella stessa trasformazione culturale e antropologica che l’affermazione del neocapitalismo avrebbe accelerato, nei decenni successivi, generando addirittura “un’altra specie” destinata a sostituire l’uomo del passato. Il long playing Changes è uscito nel 1971, mentre dell’anno successivo è l’interessante LP Transformer di Lou Reed, cantante newyorkese che ha avuto legami con Bowie, un cantore del degrado urbano, della droga e delle vite perdute nella grande metropoli americana, molto più esplicito e “rozzo” del raffinato artista londinese.
La carriera artistica di Bowie è popolata da miti, da eroi e infine da veri e propri incubi, come testimonia il trentatré giri Cani di diamante (Diamond dogs) del 1974, in bilico fra i mostri cinematografici di Tod Browning e il grande fratello di Orwell, per sprofondare, infine, nell’universo strano, dai contorni un po’ mistici, di Black star, che è l’ultima sua incisione in studio.
Questioni sociali, politiche e religiose, sempre più drammatiche ai giorni nostri, essenziali per comprendere il mondo e comprenderci, non hanno sfiorato questo cantore dell’iperindividualismo contemporaneo che, a detta di molti, ha cercato di fare della sua vita un’opera d’arte, ripiegato in una dimensione squisitamente privata, nella prospettiva di una piena ma impossibile autorealizzazione.
Egli fu un alieno venuto dalla terra e non dall’altrove, il marziano appartenente a una specie umana sempre più allo sbando, priva di riferimenti identitari. A David Bowie, dopo la sua morte, i fans vorrebbero addirittura dedicare il pianeta Marte, cambiandone il nome, o almeno delle banconote con la sua effige. Io mi limito a dedicargli questa modesta e incompleta analisi, nella consapevolezza che ha incarnato meglio di ogni altro lo sgomento e l’abbandono dell’individuo senza appigli, apparentemente libero di essere ciò che vuole, ma incapace di vedere oltre un’angusta dimensione personale, nonostante le grandi passioni e i grandi sogni, che sempre più spesso si trasformano in incubi.
Eugenio Orso
Fonte: http://pauperclass.myblog.it
16.01.2016