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La Redazione

 

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DARFUR, SUDAN, AFRICA, ATLANTIDE

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A cura di Davide
Il 3 Novembre 2004
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DI GIULIETTO CHIESA

Darfur, Sudan, Africa. Leggo le cifre su internet, perché sui nostri giornali e media non è facile trovarle in tanta distrazione quotidiana, tra un Grande Fratello, che arriva perfino sul telefonino, e un’Isola dei Famosi, che è una specie di latrina pubblica dove si vede tutto.
Leggo di una transumanza immensa che ci è contemporanea e che noi non vediamo e non capiamo. Non noi, io te, lettore o lettrice, che compriamo i giornali e un pò, almeno un po’, sappiamo. Parlo dei milioni che non sanno nulla, perché appunto non vedono e non leggono niente, oltre ai Grandi Fratelli e ai Domenica In e Buona Domenica, agli Stranamore di ognuno di questi anni ciechi e imbecilli nei quali sono stati invitati a nuotare nel brago.
Come si può pretendere da loro umanità, solidarietà, sentimenti qualunque? Non sanno, semplicemente non sanno. E quindi non possono nemmeno difendersi dalla propria ignoranza, che non possono misurare.
Laggiù, da qualche parte, in luoghi che somigliano stranamente ai dépliants delle agenzie turistiche, per qualche ragione inspiegabile, un milione di persone è in fuga. Solo nel Darfur. Scappano perché non hanno niente da mangiare, non hanno acqua da bere. Scappano dalla morte portandosi dietro la morte. 158.000 sono già fuggiti oltre il confine, nel Chad che è non meno affamato del Darfur. Ma perché scappano non lo sappiamo. Quelli che non scappano sono già morti. Almeno settantamila persone, dicono le agenzie dell’Onu, perennemente alla ricerca di soldi. Questuanti mondiali che stendono la loro mano ricca verso altri ricchi che la ritraggono infastiditi.

La gran parte dei morti – indovina? – sono bambini, e donne e vecchi. Sono i più deboli, quelli che non possono difendersi. Non è una novità, è la regola di una società che eregge altari alla concorrenza e che s’inchina soltanto di fronte a coloro che possono vincere. E vincono i forti, non i deboli. L’Africa intera, salvo quelle isole che si sono integrate nel mercato mondiale, non ha diritto di cittadinanza, non ha niente da vendere, e quindi non ha niente da comprare.

Sappiamo, confusamente, che tre eserciti si stanno combattendo per la conquista del paese. Milizie i cui nomi riecheggiano antichi diritti europei: Movimento/Esercito di Liberazione del Sudan (SLM/A) , oppure Movimento per la Giustizia e l’eguaglianza (JEM), ai quali il governo ufficiale contrappone il proprio esercito e le milizie Janjaweed, che trasformano la mattanza in pulizia etnica. Sentiamo dire che una guerra civile endemica dura da vent’anni. Avranno forse, anche loro i loro Garibaldi, ma non ci sono poeti a cantarli Una guerra tra le tante di cui non sapevamo nulla mentre scorrevano gli anni della nostra vita normale. Qualcuno scrolla le spalle: primitivi, selvaggi. I migliori pensano che forse sono molto simili a quello che noi eravamo appena un secolo scorso, quando i nostri bisnonni erano costretti a massacrarsi tra i campi e le colline d’Europa.

Ma non è tanto l’entità del massacro, è la nostra distrazione a stupire. Stasera c’è la partita, ed è questo che vedremo. Insieme alla pubblicità dei nostri consumi compulsivi. Loro si uccidono, noi compriamo. In campo ci saranno anche tanti giocatori di pelle nera. Spesso sono i migliori, come i tantissimi, sempre di più, che si sono portati via quasi metà delle medaglie alle olimpiadi di Atene, quasi tutte quelle dell’atletica.

Sono bravi e anche belli, li abbiamo amalgamati, assorbiti. Anche quelli, magrissimi, che vincono le corse lunghe e vengono da paesi anch’essi africani, dall’Etiopia, dal Marocco , dai deserti e dalla polvere.
E quelli laggiù? Quelli dei dépliants, con le loro donne colorate, i bambini con il pancione gonfio, in mezzo a tanta polvere e alla terra che noi non vediamo quasi più perché l’abbiamo coperta con il cemento, appunto perché non faccia polvere?

Folklore lontano. Che si avvicina. Perché quella guerra fatta di sonori colpi di fucile e di sordi colpi di machete non tarderà ad avvicinarsi alle nostre coste. Andranno in cerca dell’acqua che non c’è più, per loro, e del cibo, che non potranno comprare. E già sanno che l’una e l’altro noi le abbiamo. Dove pensiamo che vadano? Verranno a prenderseli. E verranno a milioni, con una legge del contrappasso dantesca che è tutta racchiusa nel dato demografico che facciamo fatica a capire: muoiono molto di più di noi, muoiono trent’anni prima di noi, ma crescono dieci volte più di noi.

Noi, un tantino impauriti, gli abbiamo promesso lo 0,7% del nostro prodotto interno lordo. Pensare: ogni cento euro prodotti e consumati gli dovremmo dare 70 centesimi, meno di un biglietto dell’autobus. Glielo abbiamo promesso solennemente, tutti insieme, noi paesi dell’Ocse, nell’anno del millennio. Abbiamo prodotto i nostri buoni propositi all’inizio del millennio. Ma non stiamo mantenendo la parola. L’obolo tarda a venire. Non siamo nemmeno saliti sopra i 30 centesimi, e invece di aumentare tendiamo a scendere. I più ricchi di tutti, gli Stati Uniti, non arrivano nemmeno a un centesimo. I nostri leader, quando s’incontrano dietro quesi tavoli a ferro di cavallo, o rotondi, con al centro grandi mazzi di fiori freschi, si dicono tra loro le verità dei più forti, le uniche che sono disposti a riconoscere.

Non possiamo abituarli male. Finiremmo per favorire i corrotti. Come regalare denaro, il nostro denaro, a un governo come quello sudanese, che spara sui propri cittadini?
Meglio esportare la nostra democrazia, così i soldi li faranno da soli e impareranno a distribuirseli con la stessa giustizia con cui ce li distribuiamo noi, dalle nostre parti. E, nel caso la nostra democrazia non piaccia loro, dovremo imporgliela, in nome dell’ordine supremo, che è il nostro. In Irak abbiamo fatto esattamente così, perché, ritenendoci molto moderni, seguiamo ancora, inflessibili, l’indicazione di fine XIX secolo del filosofo tedesco Julius Schvarcz: “La missione della razza bianca è portare il dominio della Civiltà sull’intera superficie del pianeta”.

Giulietto Chiesa
Fonte:www.giuliettochiesa.it
in uscita sul numero di dicembre di Photo
3.11.04

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