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DALLO STATO DI DIRITTO ALL'INVOLUZIONE DELL'IMPERO

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A cura di Davide
Il 11 Agosto 2006
51 Views

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DI GIULIETTO CHIESA
Le Monde Diplomatique

Qualche tempo fa sui media europei approdò con un certo clamore il politologo americano Robert Kagan, con la tesi – che suscitò stupore e perfino disappunto nei circoli europei filo-americani – dei “due occidenti”. Ignorando gli amici e i “troppo amici” europei, Kagan ci diceva, con il tono senza appello dei neo-con statunitensi, che noi europei eravamo fuori della storia, ancorati come siamo ai vecchi valori “liberali” dello stato di diritto.
Parlava da “rivoluzionario” – come rivoluzionari sono e si considerano gli uomini del “Progetto per il Nuovo Secolo Americano” – ai rappresentanti di quella che Donald Rumsfeld definì sprezzantemente la “vecchia Europa”. Rivoluzionari sono, per definizione, coloro che sostituiscono con la forza ad un sistema di regole – quello che vogliono combattere – un nuovo sistema di regole. Nel caso specifico il nuovo sistema di regole è quello imperiale. Cioè quello dell’unica superpotenza rimasta sul pianeta, che non accetta più lacci e lacciuoli che la vincolino a regole comunemente accettate, ma che è determinata a stabilire un nuovo sistema di regole sostanzialmente emananti da un unico centro di potere.

E’ questo il vero cambio di marcia realizzato dal gruppo di uomini, capitanati da Dick Cheney, che, insieme a George Bush, hanno preso il potere negli Stati Uniti nell’anno di grazia 2000, uno prima del fatale 2001, primo del nuovo secolo, contenitore dell’11 settembre. Un gruppo che non ha alcuna intenzione di abbandonare il campo conquistato.

Ecco, è questa data quella che segna lo spartiacque generale tra il prima e il dopo la rivoluzione. Chi vada a Washington – come è capitato a chi scrive, in qualità di membro della speciale Commissione d’Indagine del Parlamento Europeo sul “presunto utilizzo di paesi europei da parte della Cia per il trasporto e la detenzione illegale di persone” (1) – si sente ripetere in ogni colloquio che la causa inesorabile dei cambiamenti da introdurre nelle regole mondiali è appunto l’11 settembre. Icasticamente, nelle parole di Dan Fried (2), gli Stati Uniti “sono di fronte a una minaccia inedita”, e tutti devono prendere atto che “il sistema legale vigente è incompatibile con la battaglia inedita che questa guerra comporta”. Con vari e diversi accenti lo stesso tema è emerso nei colloqui che la delegazione europea ha avuto con i senatori Richard Durbin, democratico dell’Illinois e Arlen Specter, repubblicano della Pennsylvania, e con il deputato democratico della Florida, Robert Wexler.

Le priorità dell’opinione pubblica europea – ci fu ripetuto – non corrispondono ai temi principali del dibattito pubblico americano. C’è uno strato “sottilissimo” – aveva precisato Wexler – che la pensa come voi europei, cioè che anche un presunto terrorista ha il diritto di essere giudicato regolarmente, di avere la tutela di un avvocato. Ma per la maggioranza dei cittadini americani la priorità è la sicurezza.

In Europa è cosa scontata definire la tortura come illegale e ingiustificabile, oltre che inutile ai fini dell’accertamento dei fatti. Ma il discorso pubblico americano, anche sui mass media più qualificati, ha mostrato in questi anni smagliature assai gravi proprio in tema di tortura, con autori di rilievo che hanno stabilito distinzioni, a tratti mostruose, implicanti la possibilità della tortura in “determinate circostanze”. Del resto accompagnate da dichiarazioni di membri del governo (Rumsfeld e Cheney) e funzionari di vari livelli dell’Amministrazione, che sostengono l’inapplicabilità delle norme di difesa dei diritti umani, nei casi di sospetti terroristi, con l’introduzione di nuove categorie giuridiche come quella di “nemici combattenti”, nei confronti dei quali nessun riguardo è dovuto, nemmeno quelli garantiti dalle convenzioni internazionali. John Billinger, consigliere legale di Condoleeza Rice, ha definito lex specialis la Convenzione di Ginevra sul prigionieri di guerra: una “anomalia”, cioè non più applicabile dopo l’11 settembre.

E il già citato Robert Wexler ha respinto, con qualche insofferenza, l’obiezione secondo cui le extraordinary renditions potrebbero essere considerate come atti di terrorismo di stato. “Anche se facciamo cose illegali, se facciamo del male – e so che talvolta si tratta di cose terribili – noi non possiamo essere messi sullo stesso piano dei terroristi”, ha detto.

Insomma Abu Ghraib, la tortura, le extraordinary renditions le violazioni dei diritti umani, sono incidenti di percorso, effetti collaterali secondari, comunque non perseguibili, perchè chi è impegnato nella lotta al terrorismo internazionale deve avere diritto a una zona d’azione operativa sottratta alle normative dell’era che ha preceduto l’11 settembre. Siamo ormai molto oltre la linea che mantiene gli Stati Uniti al di fuori del Tribunale Penale Internazionale.

E tutto questo, noi europei, sembriamo scoprirlo adesso, mentre era già palesemente visibile nelle settimane che seguirono, appunto, l’11 settembre. Quando, ad esempio, il presidente Bush istituì per decreto i tribunali militari speciali, il 13 novembre 2001. Tribunali che, secondo il giudizio di un autorevole giurista italiano, Antonio Cassese, “hanno riportato indietro di 50 anni la società americana” (3) verso la barbarie giudiziaria. “Malamente assistito da un ministro della Giustizia in pieno panico, il presidente ha assunto poteri dittatoriali” (4), scrisse uno dei giornalisti repubblicani più intransigenti e conservatori. Oggi noi parliamo con qualche angoscia di carceri segrete, e di renditions in Europa e altrove, senza sapere (nessuno dei media principali, statunitensi ed europei ne ha più parlato) che quel decreto è tuttora in vigore, mentre dei suoi effetti nulla sappiamo. Tribunali militari speciali – sarà bene ricordare – che (sulla base di informazioni in possesso del presidente degli Stati Uniti) possono giudicare: a) cittadini stranieri che hanno preso parte, o vi hanno cooperato, a operazioni contro gli Stati Uniti o che abbiano seriamente nuociuto agl’interessi politici ed economici degli Stati Uniti; b) non saranno tenuti a provare la colpa dell’arrestato; c) possono fare a meno dell’habeas corpus; d) possono evitare di formulare capi d’accusa e di renderli noti all’accusato; e) possono privare il prigioniero dell’assistenza di un legale; f) possono celebrare i processi segretamente; g) possono usare prove e confessioni (si sott’intende con l’uso della tortura) non riconosciute valide nei normali processi penali; h) possono condannare a morte anche se i giudici militari non sono “convinti al di là di ogni ragionevole dubbio”; i) possono pronunciare sentenze definitive, senza diritto di appello; l) possono condannare a morte con una maggioranza dei due terzi (due giudici militari su tre).

Sappiamo che una Commissione Militare di questo tipo è in funzione a Guantanamo Bay, non sappiamo se altre ve ne siano e dove, poichè, per l’appunto, tutta questa procedura è rigorosamente segreta. Ci fu, allora, una serie di proteste contro il decreto, e ci furono vaghe ritirate verbali concernenti alcuni dei punti sopra indicati. Ma il decreto non risulta essere stato mai ritirato (5) e cosa sia avvenuto in questi anni non si può che immaginarlo, in attesa di leggere, tra qualche tempo, i documenti desecretati degli archivi.

Sappiamo che, oltre alle carceri segrete fuori dall’Europa (in Afghanistan, in Siria, in Marocco, in Egitto, etc) ve ne sono altre, in località sconosciute, dove sono tenuti in prigionia, dal 2003, ad esempio Khaled Sheikh Mohammed e Ramzi Binalshibh, due dei presunti (e rei confessi, stando alle indiscrezioni fatte filtrare dalla CIA) organizzatori dell’11 settembre. Mai processati alla luce del sole, mai più riapparsi, sempre che siano ancora vivi.

Tutto questo avrebbe dovuto essere noto anche quando, il 4 ottobre 2001, l’allora segretario generale della Nato, Lord Robertson, rese pubblica la richiesta del rappresentante statunitense a Bruxelles (6) di applicare l’articolo 5 del trattato dell’Alleanza Atlantica. Quel trattato appena rinnovato in occasione delle celebrazioni, a Washington, del cinquantesimo anniversario – nel 1999, in piena guerra contro la Jugoslavia – che trasformava la Nato da alleanza difensiva in alleanza “preventiva”, e che allargava la sua zona d’azione dai confini dei paesi membri a tutto il pianeta.

A quanto risulta (7), di quella discussione – sempre che ve ne sia stata una – resta soltanto un verbale, e la dichiarazione di Lord Robertson ne costituiscono una “sintesi fedele”. Nei suoi otto punti è visibile l’ampiezza degli obblighi assunti dai membri della Nato nell’assistenza agli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo internazionale. Tra essi figura l’impegno a “rafforzare, sia sul piano bilaterale, sia nell’ambito delle competenti istanze della Nato, la condivisione dei dati d’informazione”; il “rimpiazzo di determinati mezzi alleati che siano necessari per sostenere direttamente operazioni contro il terrorismo”; “l’autorizzazione generale ai sorvoli di apparecchi degli Stati Uniti e di altri alleati, conformemente agli accordi richiesti in materia di traffico aereo e alle procedure nazionali, per voli militari legati a operazioni contro il terrorismo”; “assicurare agli Stati Uniti e ad altri alleati l’accesso a porti e aeroporti dei paesi della Nato per operazioni di lotta contro il terrorismo, specificamente per il rifornimento di carburante, conformemente alle procedure nazionali”. (8)

Dunque da questo documento emerge che i paesi dell’Unione Europea, membri della Nato, tutti a loro volta membri del Consiglio d’Europa, avevano già dato l’autorizzazione preventiva a quasi tutto ciò che è emerso nelle indagini successive alle rivelazioni sulle carceri segrete e sui voli illegali della Cia in Europa e altrove.

Certo gl’impegni Nato qui richiamati non autorizzavano le violazioni dei diritti umani e della legislazione internazionale da parte degli Stati Uniti e dei loro servizi segreti, ma quanto è finora emerso sia dalla relazione di Dick Marty, per conto del Consiglio d’Europa, sia dalla già richiamata Commissione d’indagine del Parlamento Europeo, numerosi paesi europei non sono stati vittime delle macchinazioni americane, ma ne sono stati partecipi in vario grado. Ecco perchè, fino a questo momento, i governi europei e le autorità europee ascoltate e consultate dalla Commissione hanno o rifiutato di collaborare alle indagini, con vari pretesti, oppure hanno opposto dinieghi e smentite assai poco credibili. Come è il caso, particolarmente, dei governi polacco e rumeno.

Siamo di fronte, con ogni evidenza al dato di fatto che i valori – a parole condivisi, esaltati e pronti all’esportazione, anche con la forza – sono stati violati da una parte (gli Stati Uniti) , sul territorio dell’altra parte (paesi europei), con la connivenza, la collusione e/o la partecipazione diretta dell’altra parte (paesi europei). Gli avversari dell’inchiesta, chiaramente osteggiata dai settori di destra del Parlamento Europeo, di nuovo con particolare veemenza da deputati polacchi, baltici, britannici, tedeschi, affermano che le due commissioni europee (del Consiglio d’Europa e del Parlamento Europeo) non hanno saputo produrre, fino a questo momento, prove inoppugnabili del coinvolgimento dei governi (o di altri livelli delle amministrazioni) nelle renditions . Qualcuno si è spinto, ripetutamente addirittura a ringraziare il Governo americano per aver dato, con le modalità del rapimento, del trasporto fuorilegge degli arrestati illegalmente in paesi in cui notoriamente la tortura veniva applicata, un grande contributo alla sicurezza collettiva europea.

Ma queste tesi, in parte perfino aberranti, a riprova che in Europa vi sono deputati più “americani” degli americani, sono state respinte nettamente dalla Commissione parlamentare europea, che ha votato (con una maggioranza di 25 voti, socialisti, liberaldemocratici, verdi, 14 contrari, 7 astensioni) la decisione di proseguire l’indagine per altri sei mesi, fino al termine del mandato (9). A luglio deciderà l’Assemblea al completo e la conferma della decisione della Commissione appare scontata. Anche perchè il lavoro d’indagine è già andato assai oltre alle supposizioni e agl’indizi.

C’è la documentazione precisa di 1080 voli CIA in aeroporti europei tra l’11 settembre 2001 e la fine del 2005. Per certo 14 paesi hanno ospitato di passaggio renditions illegali. Tra questi la Germania, la Svezia, l’Italia, il Belgio, la Spagna (tutti membri dell’Unione Europea). Due paesi (Polonia e Romania) hanno ospitato, per periodi di tempo ancora da determinare, veri e propri luoghi di detenzione temporanea e illegale di presunti terroristi. Tutti atti in violazione dell’articolo 6 del Trattato dell’Unione così come della Convenzione Europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Si hanno riscontri precisi di circa 30-50 sequestri di persona e di successive renditions . Solo in un caso la magistratura (italiana) ha svolto un’indagine completa, individuando e spiccando mandati di cattura contro 22 agenti della CIA che operarono a Milano per prelevare l’imam Abu Omar. Ma anche in questo caso resta da accertare a quale livello si è spinta la complicità del governo di Roma.

In ogni caso le testimonianze dei rapiti e torturati, e dei loro avvocati, e di numerosi rappresentanti di organizzazioni non governative, come pure di alti funzionari (americani ed europei) che hanno deciso di rompere il muro del silenzio non sono supposizioni. Vale questo per le deportazioni di due cittadini egiziani, Mohammed Al Zary e Ahmed Giza, dalla Svezia all’Egitto; vale per Abu Omar; per Maher Arar, cittadino canadese arrestato a New York e inviato ad Amman, via Roma Ciampino, per essere poi torturato per oltre 10 mesi in un carcere siriano; vale per il cittadino tedesco di origine libanese, Khaled el Masri, catturato in Macedonia e trasferito in Afghanistan per essere torturato.

Si potrebbe continuare e si continuerà a cercare. Ma una cosa l’abbiamo già scoperta: che molti governi europei si sono comportati, all’insaputa dei loro elettori, come delle colonie americane, ovvero dei satelliti di Washington. Siamo ormai tornati nell’era della “sovranità limitata” di Leonid Brezhnev.

Giulietto Chiesa
Fonte: http://www.monde-diplomatique.it/
Link: http://www.giuliettochiesa.it/modules.php?name=News&file=article&sid=215#_ftnref9
11.08.2006

Note:

1. Commission Temporaire etc. istituita con il voto dell’assemblea il 15 dicembre 2005

2. Assistant Secretary of State, Bureau of European and Eurasian Affairs, incontrato al Dipartimento di Stato l’11 maggio 2006.

3. La Repubblica, 21 novembre 2001

4. Illiam Safine, The new York Times, November 16, 2001

5. Dichiarazione di Barbara Olshansky, direttrice del Guantanamo Global Justice Initiative, Deputy Legal Director of the Center for Consitutional Rights, nel corso dell’udienza concessa alla delegazione dei parlamentari europei a Washington, il 9 maggio 2006.

6. M.Frank Taylor, ambasciatore straordinario degli Stati Uniti e coordinatore per il contro-terrorismo, espose le tesi americane di fronte al Consiglio e i risultati dell’inchiesta relativa agli attentati dell’11 settembre. Il Consiglio convenne che, poichè gli attacchi risultavano essere stati diretti dall’esterno degli Stati Uniti, poteva essere applicato l’art. 5 del Trattato di Washington.

7. Da fonte autorevole Nato, che ha chiesto di restare anonima.

8. www.nato.int/docu/speech/2001/s011004b.htm

9. Il 15 giugno 2006

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