DI FULVIO GRIMALDI
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Signori, se volete ammazzare il presidente, eccolo qua: uccidetemi se ne avete il coraggio, anzichè stare lì vigliaccamente nascosti nell’ombra.
(Rafael Correa quando, volendo dialogare con i poliziotti, si vede bersagliato dai gas e picchiato)
Volete occupare le caserme, volete abbattere i cittadini indifesi, volete tradire la vostra missione di poliziotti, il vostro giuramento, ma questo presidente e questo governo continueranno a fare quello che ritengono di fare.
(Correa ai suoi carcerieri mentre era sequestrato nell’ospedale della polizia)
Se intendete distruggere la patria, distruggetela, però questo presidente non farà un passo indietro. Viva la patria.
(Correa ai suoi carcerieri)
Il presidente sta governando la nazione da questo ospedale, da sequestrato. Da qui io esco o come presidente, o come cadavere, ma non mi farete perdere la mia dignità.
(Correa a un’emittente presente al sequestro)
Il coraggio di Correa, la mobilitazione di popolo e la fedeltà dei militari sventano l’ennesimo golpe della Cia in Latinoamerica. (Tra parentesi, uno sghignazzo su Belpietro)
Gli è andata male stavolta. Avessero fatto in Honduras come le masse ecuadoriane, anzichè affidarsi a sindacalisti concertativi, forse a Tegucigalpa ci sarebbe ancora Mel Zelaya. Dunque, come tutti apprendiamo con grande sollievo e commozione, la gente di Quito e militari che si sentono esercito del popolo, memori di decenni di regimi rapinatori, vendipatria, oligarchici e filoimperialisti conclusisi con l’arrivo, nel 2007, di una presidente democratico, progressista e difensore della sovranità nazionale, hanno liquidato golpe e golpisti. Per ora. Gli Usa e i loro fantocci ladroni interni non demorderanno. Siamo al terzo colpo di Stato in otto anni allestito da Washington nel suo tentativo di tornare a sottomettere e depredare l’America Latina sfuggita al suo controllo: aprile 2002, golpe durato 48 ore contro Chavez, sconfitto dalle masse e dai militari fedeli; giugno 2009, colpo di Stato di militari, Cia, Chiesa e oligarchi in Honduras, deposto e cacciato il presidente Manuel Zelaya, golpe poi legittimato da illegittime elezioni; 30 settembre 2010, tentativo di golpe in Ecuador.
Il golpista honduregno Micheletti, un soggettone. I poliziotti golpisti, lavoratori defraudati.
La solita canea venduta e, a sinistra, velinara (leggi l’indecente cronaca “equidistante” e con fatti falsi dettati dalla disinformazione, sul “manifesto”) ha voluto far passare il tentativo di eliminare il presidente Rafael Correa come una specie di modesta jacquerie di pochi poliziotti scontenti della sacrosanta abolizione (dopo un aumento del 100% dei salari) di privilegi e decorazioni riservati alle sole forze dell’ordine. I tg addirittura s’inventavano, per dar credibilità alla misera motivazione dei “premi di produzione e delle medaglie perduti”, che Correa aveva ridotto i salari delle forze dell’ordine.Tutti i dati pervenuti in gran flusso dall’Ecuador ci parlano, invece, di un’operazione analoga a quelle contro Chavez o Zelaya, di cui i principali operativi erano i mille poliziotti della Caserma del I Battaglione a Quito, ma che ha avuto un altamente coordinato sviluppo in tutto il paese con occupazione del parlamento, delle principali testate televisive e di stampa non legati all’opposizione di destra, degli aeroporti di Quito e Guayaquil, di una vera rivolta di settori di destra a Guayaquil, seconda città del paese e feudo di una destra fascistoide, che hanno seminato saccheggi e panico in combutta con i media che ne avrebbero fatto l’incipit di una guerra civile. Anche rispetto alla presa di posizione anti-golpe di tutti i governi latinoamericani, compresi quelli di destra, convenuti in fretta per un vertice a Buenos Aires per condannare il colpo di Stato e pretendere l’immediato ritorno di Correa alle sue funzioni, le minimizzazioni della grande stampa di regime costituiscono un non sequitur da far impallidire le farneticazioni di Berlusconi rispetto alla spazzatura di Napoli. Come in altri paesi dell’America Latina, il lavoro costante degli Usa attraverso Cia e organismi affiliati è l’infiltrazione tra agli alti quadri della polizia e delle forze armate. A Israele, invece, sono affidate “intelligence” e “sicurezza”. Non per nulla nella capitale della destra oligarchica e narcotrafficante, Guayaquil, la sicurezza era affidata al solito ex-ufficiale del Mossad. Come in Honduras. Già nel 2008, il governo dell’Ecuador aveva mostrato documenti che provavano il costante lavoro di corruzione finanziaria di ufficiali, allo scopo di garantirsene l’obbedienza e la collaborazione per la nuova strategia di destabilizzazione Usa, emula della nixoniana “Operazione Condor” degli anni ’60 e ’70. E fu la Cia a collaborare in quella provocazione all’Ecuador che consistette nell’assalto combinato Usa-Colombia contro un accampamento di alcuni dirgenti delle FARC. Informazioni relative a questo attacco dall’aria e da terra, che risultò nella morte del capo guerrigliero Raul Reyes, furono occultate dal comandante fellone dell’Intelligence militare, Mario Pazmino, successivamente destituito.
Come prima, più di prima
Ero a Caracas durante la serrata padronale che avrebbe dovuto, dopo il fallimento del colpo di Stato contro Chavez, paralizzare il paese, provocare rivolte di masse esasperate e farla finita con la via bolivariana al socialismo e all’antimperialismo. Anche allora dalle nostre parti, spapagallando appresso alla CNN (che ci ha messo 24 ore prima di riferire a denti stretti di un “golpe”), si parlava di “scioperi”, come si trattasse delle iniziative della FIOM contro gli ukase del neopadrone delle ferriere, e di catastrofe della politica economica del “caudillo” Chavez. Invece, foraggiata da milioni della Cia e delle varie ONG Usa e occidentali, tutta la produzione e distribuzione, ancora in mano alla élite spodestata dalla rivoluzione bolivariana, erano state bloccate e la popolazione ridotta alla mancanza di cibo, combustibile e farmaci. Ma questa gente non mollò. Ero con Chavez, a San Carlos, nel centro agricolo del paese, mentre, in risposta al sabotaggio, iniziava a distribuire ai contadini milioni di ettari sottratti ai terratenientes improduttivi e redditieri. Poi entrò nella modestissima casa di una campesina e la scoperse senza mobili. La poveretta, costretta dal blocco economico, si era dovuta ridurre a bruciare il suo arredamento per cucinare e scaldare la famiglia. Ma, irriducibile, ribadì al presidente la sua identità di chiavista. Oggi, sette anni e mezzo dopo, pur in mezzo alle mene di USAID, Cia, Dea, Ned, al terrorismo dei compari di Posada Carriles e ai milioni di dollari rifilati da Washington all’opposizione clericofascista, ringalluzitasi all’ombra della crisi, Chavez vince la sua quindicesima elezione.
Mi è anche capitato di trovarmi in Ecuador (vedi il documentario “L’asse del bene”), poco dopo che l’insurrezione di massa dei famosi forajitos (“Fuori tutti!”), analoga a quelle che in America Latina hanno travolto i vecchi proconsoli coloniali di USA e UE, aveva cacciato il quarto presidente cialtrone di seguito, Lucio Guiterrez. C’era l’interregno del pallido Palacio e, poi, nel 2007, la vittoria trionfale di Correa. Dimessosi da ministro dell’economia, in contrasto con un presidente devoto all’iperliberismo e alle multinazionali del petrolio che stavano devastando e depredando l’Ecuador amazzonico, Correa mi anticipò quello che sarebbe diventato il suo rivoluzionario programma di governo: riforma agraria, unghie tagliate alle multinazionali, petrolio da farsi pagare per lasciarlo in seno alla pachamama, in mano pubblica tutti i servizi e le produzioni strategiche, diritti delle popolazioni native, chiusura della base yankee di Manta, la più grande della regione, redistribuzione della ricchezza a vantaggio dei ceti da sempre esclusi, integrazione latinoamericano nel segno dell’ALBA, fronte dei paesi progressisti. Tutto da quasi 4 anni avviato alla realizzazione. Un’azione politica, economica, sociale, che a Correa assicura in questo momento circa il 70% dei consensi, ma che non poteva non provocare orticarie purulente in un establishment obamiano votato alla riconquista di quel cortile di casa che i due Bush avevano in grande misura perso, costi quello che costi, anche con un ritorno ai fasti cileni e argentini celebrati da Kissinger su un tappeto rosso liquido: sangue latinoamericano.
Con due colpi di Stato fascisti meticolosamente preparati alla luce della lunga tradizione imperialista, da Mossadeq ad Allende e a Zelaya, ma sventati in poche ore da masse venezuelane ed ecuadoriane rese coscienti dal loro nuovo destino di soggetti della politica e della storia, e con un solo golpe riuscito in Honduras, grazie al controllo delle masse incazzate da parte di dirigenti “non violenti” votati al negoziato con il boia, è ovvio che i revanscisti Usa non hanno messo tutte le loro uova nel paniere di militari e poliziotti addestrati al golpismo e al killeraggio dalla Scuole delle Americhe. Obama, che si è trovato in mano le patate bollenti di due guerre, Iraq e Afghanistan-Pakistan, irresolvibili e sempre più laceranti sul piano dell’immagine e dei costi economici, pur senza rinunciare allo strumento forza, anzi estendendolo in forma di terrorismo militare ad altri scacchieri come Yemen e Somalia, per l’America latina ha ritirato dalla naftalina vecchie forme britanniche di demolizione di popoli e nazioni. Dividere, frantumare quando non si può annichilire. E con il debito Usa a livelli himalaiani, il costo dello spostamento di ricchezza a Wall Street e al Pentagono pagato da milioni di disoccupati, senzacasa e senzasalute, quattro quinti del mondo inferociti contro il moloch USraeliano, meglio fondare la controffensiva imperialista anche sull’altra gamba, quella della destabilizzazione e lacerazione della coesione sociale, facendo leva su infiltrati, manipolatori, burattini e anche su identità e bisogni, veri o indotti, insoddisfatti. Vedi il Tibet e il Myanmar dei monaci, l’Iran dell'”onda verde” e di Neda Soltan (logorata, quella, da verità emerse, si sono inventati Sakineh che con l’amante ha ammazzato il marito e che mai è stata condannata alla lapidazione, pratica scomparsa dai tempi dello Shah!).
In Bolivia, dopo la vittoria di Evo Morales, poi consolidata alla grande dalle politiche sociali, dalla riduzione a termini accettabili delle multinazionali e dalla cacciata dalla DEA, custode del business Usa della droga (grazie anche a noti emissari nostrani come Arlacchi e Costa, distratti, a dire poco, gestori Onu di quella strategia), ho ascoltato i Bossi e Calderoli di Santa Cruz e degli Stati che facevano la ricchezza e il dominio dell’oligarchia, illustrarmi i loro piani secessionisti, istruiti dalla Cia e da neofascisti italiani e facenti leva anche su comunità indigene arretrate e intossicate da menzogne e promesse. Altre realtà indigene, nel nord stavolta, contrastavano il governo in nome di un’autonomia indigena, pur sotto Morales in corso d’opera, ma che da quelle parti si prefigurava come sopraffazione della questione di classe con motivazioni etniche, in vista dichiarata di una rottura degli stati-nazione esistenti e di una ricomposizione dell’unità indigena addirittura di dimensioni inca. Fenomeni analoghi si verificavano curiosamente in altri paesi dell’ALBA con forti presenze indigene, Venezela, Nicaragua, Honduras e, appunto Ecuador (mentre di tutt’altro segno è la rivolta degli indigeni contro il regime semidittatoriale e filo-Usa del Perù, o delle grandi organizzazioni honduregne raccolte nell’organizzazione dei Lenca, Copinh, in lotta contro golpisti, loro successori e imperialismo yankee).
Questi indigeni
Quando lo intervistai, l’allora presidente della CONAIE, federazione delle comunità indigene, Luis Macas, non fece affatto velo alle sue intenzioni di unificare i popoli ex-inca di Bolivia, Ecuador, Perù e Colombia, come precedenza assoluta rispetto ad altre questioni, di rilievo sociale o geopolitico. E di nuovo oggi, il partito ecuadoriano dei nativi in parlamento, Pachakutik, ha sostenuto i poliziotti golpisti, mentre la CONAIE si è spaccata, con per fortuna una maggioranza accorsa con altre moltitudini a manifestare contro il golpe e ad assediare caserma di polizia e parlamento. In tal modo a preparare il terreno delle forze speciali che, a colpi di mitraglia (tre morti, 70 feriti), hanno strappato Correa alle grinfie dei golpisti. L’immane folla che ha poi salutato il presidente riapparso sul balcone del parlamento annoverava una forte componente indigena. Esemplare dell’attrito tra Correa e parte degli indigeni, la loro rivendicazione di affidare l’acqua padanamente alle rispettive comunità, nel momento in cui il governo aveva pubblicizzato le acque del paese inserendole in un unico ente pubblico, in grado di sopperire a zone carenti di risorse idriche con il contributo di quelle ricche.
L’ambiguità delle organizzazioni delle comunità native si era affacciata una prima volta nel sostegno all”indio” Lucio Guiterrez, che poi aveva venduto il paese agli Usa con tutti gli indigeni dentro, e nella successiva imbarazzata loro assenza dal moto di popolo che aveva cacciato questo guitto di stampo berlusconiano. Racconto questo anche in risposta a certi “indigenisti” nostrani che, magari dimenticando orrori storici come quelli, sì subiti dai conquistatori, ma anche inflitti dagli imperi che ne furono cancellati, praticano la filosofia del “buon selvaggio”, appena corretta dalla giusta considerazione per il suo protagonismo ecologico. Un paternalismo riveduto all’insegna dei valori indigeni assoluti, presentati come preminenti su multinazionalità e unità di classe. Per fortuna questi innamoramenti, acritici come lo è sempre quella psicopatologia (ricordiamoci l’infatuazione per Marcos, poi scomparso dalla scena), sono ampiamente sovrastati da una davvero impressionante rinascita indigena che corre per tutto il continente, dai Mapuche cileno-argentini ai Lenca del Honduras, ai Triqui del Messico e che lavora in unità e sintonia con tutte le realtà antimperialiste, rivoluzionarie, progressiste, qualunque sia la forza impiegata. Con il valore aggiunto di una coscienza umana e biologica, forse ignota ai lontani antenati, ma maturata in cinque secoli di stragi, emarginazione, autodifesa, salvaguardia ecologica, conoscenza del nemico.
Ci vogliono due mani per elencare gli incidenti, solo negli ultimi cinque anni, di velivoli delle compagnie legate alla Cia precipitati nei paesi centroamericani o nei Caraibi e scoperti zeppi di cocaina. Basta il fiuto del bassotto Nando per scoprire che la mattanza di migranti ai due lati delle frontiere con Guatemala e Usa non impedisce per niente il transito del prodotto droga e del suo corredo di capitali (si ragiona su un trilione all’anno) e neanche il confortevole usbergo dei grandi boss nei Cinquestelle di El Paso, o la libera vendita di armi da guerra e corredo da sicario negli spacci di quella città dal lato buono della frontiera. Basta un passaggio per i tribunali di Dallas per capire quanto volentieri i boss catturati in Messico amino farsi estradare negli Usa: pluriassassini, sadici stupratori, trafficanti di donne, torturatori acclarati, spacciatori di tonnellate di morte ai giovani statunitensi, che passano dai vent’anni comminati da qualche residuale giudice onesto in Messico, ai due anni, o giù di lì, grazie al “Sogno americano”.
Ecuador, Perù, Colombia, Centroamerica e Caraibi, Messico: e per queste terre che deve correrere il narcodotto – parallelo a oleo-e gasdotti e agli armidotti – che alimenta il consumo della maggiore piazza del mondo, gli Usa, i relativi profitti destinati alle banche e ai ceti, più o meno criminali, sostenitori della cupola economico-militare, con in sovrappiù il pretesto della “Guerra al Narcotraffico” funzionale, come le parallele “guerre al terrorismo”, all’espansione imperialista e alla decimazione di classe interna. Un percorso che, nell’altro emisfero, va dall’Afghanistan-Pakistan all’Iraq e al centro asiatico, ai Balcani (il Kosovo l’hanno inventato apposta), all’Europa. Munifici condotti che, in sincronismo con armi, petrolio, agrobusiness, puntellano la bancarotta finanziaria Usa e depredano il mondo lungo le linee di controllo Usa-Ue.
Con i golpisti in Honduras e Calderon in Messico, si è saldata la rotta degli stupefacenti, si è consolidata e rafforzata la presenza militare Usa in funzione “antidroga”, si è riusciti a criminalizzare e quindi a rendere ricattabili o obbedienti le classi dirigenti. Il golpe in Ecuador doveva creare il terminale sud del percorso, ai piedi di un Perù che sta minacciando il primato colombiano della produzione, e in vista della perfettamente riuscita costituzione del terminale nord messicano. Insegnando a Calderon il “Metodo elettorale Bush-Karzai-Maliki”, i maestri gringos erano riusciti a spostare un milione di voti e la vittoria dal “sinistro” Lopez Obrador al destrissimo capo del PAN (Partido Accion Nacional) Felipe Calderon, oggi conclamato padrino del più grosso cartello di narcotrafficanti del paese, Sinaloa. Quattro anni di Calderon, dopo i sei solo di poco meno catastrofici e delinquenziali di Vicente Fox, hanno significato il crollo nella miseria di oltre metà dei messicani, il dilagare dei cartelli e delle bande di sicari, la corruzione universale, la repressione delle lotte sociali, il 47% di disoccupati, 7 milioni di giovani senza istruzione e senza lavoro, ambiti dal narcotraffico, 30mila morti dal giorno dell’insediamento dicembre 2006, 600 donne ammazzate solo a Ciudad Juarez. Ma di questo vi parlerò prossimamente nel dettaglio. Ebbene, a Correa e al popolo dell’Ecuador è riuscito di evitare lo stesso destino. Teniamo alta la guardia: i gringos ci riproveranno.
La becera arte della provocazione
Per chiudere non si dovrebbe tralasciare di ricordare – e lo farò, con altri, all’infinito – cosa si trova nel nido dell’imperialismo, da quale uovo è sgusciato l’avvoltoio. Per fare all’America Latina e, prima, all’Iraq, all’Afghanistan, e via via a tutto il mondo, quello che gli Usa e i loro famigli europei hanno fatto e vanno facendo, occorreva solo una grande, una formidabile idea. Quasi quasi pari all’invenzione di dio. Un’idea trasudante tanto sangue e tanta morte da far ammutolire, paralizzare, robotizzarsi, l’intera società umana (ma ci sono solo riusciti con noi, i cittadini della “Comunità internazionale”, il 7% dell’umanità, quella con le tv): gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono, Osama Bin Laden, gli islamici tutti terroristi, Londra, Madrid, Casablanca, Amman, Bali, fino ai farlocchi sugli aerei cui avevano riempito le scarpe o le mutande di polvere da mortaretti. E fino, giù giù, a Maurizio Belpietro, salvato da un’eroica scorta dal tentato assassinio di uno proveniente dalle file -scommettiamo? – degli islamici, o degli anarcoinsurrezionalisti dai legami con la Fiom.
Quando le patacche sono vernacolari
Già, Belpietro, sorridente e soddisfatto nella bambagia di un coro universale (attenzione: unanimità vuol dire “destra”) di inorridita e indignata solidarietà. Belpietro tranquillo e sereno in casa sua, a meditare per la prossima edizione di “Libero” sulle palle di veleno da sparare nei coglioni al primo antiberlusconiano tra i piedi. E fuori, nella tromba delle scale, la mortale minaccia che incombe sull’ignara preda: il giornalista onesto, trasparente e libero, impegnato a battere (è il termine) il marciapiedi delle virtù civili e professionali. Ma la scorta, oh quanto opportuna!, veglia sulla vittima predestinata. Impedisce il sacrilegio e il sacrificio. Uno di loro, tutto solo sulle scale, “sente un clic e spara a”…boh. Spara tre volte, ma da iperaddestrato cecchino delle forze speciali, manca tre volte il bersaglio. Che svanisce nella notte. Forse ancora stupefatto che uno sconosciuto gli abbia sparato sulle scale, mentre andava a trovare un amico. Sempre che questo spettro abbia corpo. Il caposcorta lo ha visto solo lui, gli è bastato un “clic” per sparare addosso a una persona che da esperto tiratore non ha beccato, che gli è sfuggita sotto al naso, che non ha potuto uscire dal portone perchè vigilato, che avrebbe dovuto saltare dal 4° piano e poi superare un alto muro fiancheggiato da una siepe che risulta…neanche sfiorata. Miracoli di un gorilla venuto alla notorietà per un presunto attentato al giudice D’Ambrosio, mai esistito e, quindi, promosso e investito della protezione del combattente per la libertà Belpietro. Un film che avrebbe fatto sganasciare dalle risate il tristissimo Buster Keaton. Ma l’arte della provocazione pataccara funzona. Non tanto per il pataccaro, quanto per l’imperturbabile dabbenaggine di chi gli crede, o comunque gli va appresso.
Insomma, nel tripudio dei solidaristi, non riesce a farsi largo neanche il più misurato dei dubbi. Proprio come quando occludono lo sguardo se si tratta di sprofondarlo nelle voragini della storiella dell’11/9 e seguenti. Oppure su una storiaccina che fa acqua da tutte le parti, compresa la logica del cui prodest, da non trascurare dove i cattivi e i carnefici hanno imparato a farsi passare per buoni e per vittime, specialmente quando hanno commesso qualche nefandezza, o si trovano in penuria di consenso. Il capostipite moderno è Israele. Ma anche Berlusconi, con quella statuetta del duomo, da buon apprendista stregone, ha imparato. E anche Maurizio Belpietro. Tramutato da pitbull, addestrato a terminare nemici, in pecorella sacrificale. I creduloni – e gli opportunisti – lastricano la strada alle puttanate. Sodomizzati e contenti.
Tranquilli. Aspettiamoci di peggio. I minchioni dell’anti-complottismo gli lastricano la strada. Troveranno una cacca del topo di casa Belpietro a casa vostra, o a casa mia.
Fulvio Grimaldi
Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.com
Link: http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2010/10/dallecuador-per-colombia-honduras-e.html
2.10,.2010