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La Redazione

 

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Dal teorema Calogero al ''delitto di difesa''

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A cura di Truman
Il 11 Novembre 2004
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Gran parte delle detenzioni di cui si è occupata Amnesty International [nel 1981] riguardano cittadini sospettati dei reati di associazione sovversiva (art. 270) e di partecipazione a banda armata (art. 306). Amnesty International si è occupata della vaghezza e debolezza delle prove impugnate per giustificare tali prolungate detenzioni. In molti casi le imputazioni originarie sono state lasciate cadere e immediatamente sostituite con nuove accuse. Questo ha permesso all’autorità giudiziaria di prolungare la carcerazione preventiva di molte persone, pur rimanendo nei limiti della legge.La nostra attenzione si è concentrata sulla prolungata detenzione senza processo, durante la fase istruttoria, delle persone arrestate a partire dal 7 aprile 1979, collegate al movimento politico conosciuto come Autonomia Operaia Organizzata. Alcuni degli imputati del 7 Aprile erano accusati di aver partecipato al sequestro e all’omicidio dell’ex-Presidente del Consiglio Aldo Moro, ma l’imputazione è caduta nel dicembre 1980. Comunque, agli imputati vengono contestati i reati di associazione sovversiva e di organizzazione e partecipazione a banda armata. Alcuni di loro devono difendersi da un terzo capo d’accusa, “insurrezione armata contro i poteri dello Stato” (art. 284), reato punibile con l’ergastolo. Il ricorso a tale imputazione non registra precedenti. (Amnesty International Report 1981, pp.304-305, traduzione nostra)

Amnesty International ha espresso preoccupazione per l’indebito ritardo nel rinvio a giudizio degli imputati del 7 Aprile. A fine 1982, alcuni imputati hanno scontato dai 36 ai 44 mesi di carcerazione preventiva in attesa del processo.
La maggior parte degli imputati sono accademici, giornalisti e insegnanti presuntamente collegati al movimento chiamato Autonomia Operaia. Il più noto è Antonio Negri, docente di scienze politiche all’Università di Padova e alla Sorbona di Parigi. Gli arresti ebbero luogo in seguito al sequestro e all’omicidio (tra marzo e maggio del 1978) dell’ex-Primo Ministro Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse. Quasi tutti gli arrestati d’aprile e nella successiva retata del 21 dicembre 1979 avevano fatto parte, qualche anno prima, di un’organizzazione chiamata Potere Operaio. Si trattava di un gruppo di sinistra, attivo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, che incitava la classe operaia a rivoltarsi contro lo stato e il sistema capitalistico. Non era un’organizzazione illegale né clandestina. A fine 1982, tra Roma e Padova, gli imputati del 7 Aprile sono 140. Tra i capi d’accusa, vi sono “associazione sovversiva” e “organizzazione di o partecipazione a banda armata”. Alcuni imputati sono anche imputati di “insurrezione contro i poteri dello Stato”, e rischiano una condanna all’ergastolo se sentenziati colpevoli. Amnesty International ha esaminato diversi di questi casi individuali. (Amnesty International Report 1983, pp.262-263, trad. nos.)

In una rassegna delle proprie preoccupazioni riguardo alla situazione italiana, pubblicata nell’aprile 1983, Amnesty International ha criticato le disposizioni giudiziarie sulla durata della carcerazione preventiva. In procedimenti che in caso di condanna prevedono pene detentive di 20 anni, la detenzione degli imputati può durare fino a 10 anni e 8 mesi prima che si arrivi alla sentenza.
Amnesty International è sempre più allarmata dal fatto che detenzioni già lunghe siano state estese con la modifica dei capi d’imputazione, o con l’aggiunta di nuove accuse da parte di giudici di altre città, mentre i procedimenti giudiziari erano ancora in corso.
Il 21 giugno 1983 il dott. Pietro Calogero, Sostituto Procuratore a Padova, ha spiccato nuovi mandati di cattura per svariati imputati del processo 7 Aprile in corso a Roma… in relazione al possesso di armi nel periodo 1971-79 (art.21 della legge n.110 del 18/4/1995). Un articolo pubblicato nell’agosto 1983 sul bollettino di Amnesty International diceva: “A questo stadio del processo, l’aggiunta di una nuova accusa – apparentemente non supportata da nuove prove a carico di imputati già sotto processo con imputazioni relative a una banda armata – permetterà un’ulteriore estensione della carcerazione preventiva, aggiungendovi fino a quattro anni per questa distinta imputazione. Alcune delle armi in oggetto sono già state oggetto di un altro processo contro alcuni degli imputati, nel luglio 1980”. (Amnesty International Report 1984, pp. 291-292, trad. nos.)

Nel giugno 1984, di fronte alla Prima Corte d’Assise di Roma, si è finalmente concluso dopo due anni il processo noto come 7 Aprile. Molti degli imputati erano in carcere fin dal 1979. Amnesty International si è occupata di questo caso sia per la lunghezza della carcerazione preventiva sia per le procedure adottate in istruttoria e in dibattimento.
Cinquantacinque imputati sono stati condannati, complessivamente, a quasi 500 anni di prigione. Quasi tutti sono stati riconosciuti colpevoli di banda armata e associazione sovversiva. A fine 1984 la motivazione della sentenza e delle condanne non è ancora stata resa pubblica, né si è fissata alcuna data per il processo d’appello. Dopo che diversi tribunali hanno preso decisioni contrastanti, tutti gli imputati del 7 Aprile, sulle cui vicende aveva aperto un’inchiesta Amnesty International, sono stati rilasciati grazie alla nuova legge sulla carcerazione preventiva… (Amnesty International Report 1985, pp.273-274, trad. nos.)

La motivazione della sentenza del processo 7 Aprile (troncone romano)… è stata resa pubblica a maggio [del 1985]. Amnesty International era preoccupata del fatto che i principali imputati avessero subito cinque anni di carcere preventivo, e che la legislazione speciale fosse stata applicata retroattivamente per allungare i termini della detenzione. C’è stato anche un ritardo di 15 mesi, senza alcuna giustificazione procedurale, tra il rinvio a giudizio e la prima udienza. Amnesty International aveva anche espresso preoccupazione per il fatto che non fosse possibile sentire in aula Carlo Fioroni, la principale fonte di informazioni contro gli imputati: Fioroni aveva lasciato il paese prima di essere chiamato a deporre. Ciononostante la sua testimonianza, resa in segreto durante l’istruttoria, è stata ammessa agli atti.
Il 3 dicembre 1984 – dopo diversi rinvii e dopo un cambiamento di Presidente e giuria su richiesta della pubblica accusa – sono iniziate le udienze del troncone padovano, proseguite per tutto il 1985. Tra i 143 imputati nel processo padovano ve ne sono 6 dei cui casi si è occupata Amnesty International. Quattro di essi avevano lasciato il paese dopo essere stati prosciolti dal giudice istruttore, ma sono stati ri-inclusi tra gli imputati dopo che l’accusa è ricorsa in appello con successo contro tale decisione. L’accusa è ricorsa in appello, sempre con risultato positivo, anche contro il proscioglimento… dei professori Luciano Ferrari Bravo ed Emilio Vesce, che al processo romano erano stati condannati per formazione di banda armata. Erano imputati anche nel processo padovano perché i magistrati di Padova li avevano inquisiti separatamente per possesso d’armi. Per quel che riguarda il processo padovano, i motivi di preoccupazione di Amnesty International sono simili a quelli per il processo romano, soprattutto la lunghezza eccessiva della carcerazione preventiva, e l’impossibilità per la corte di esaminare Carlo Fioroni. (Amnesty International Report 1986, p.290, trad. nos.)

In agosto [1986] Amnesty International ha pubblicato un rapporto dal titolo “Processo 7 Aprile – Italia: L’interesse di Amnesty International a che venga fatto un processo equo in tempi ragionevoli”. Si tratta di un riassunto dei principali sviluppi nel processo a 71 presunti membri dei gruppi della sinistra rivoluzionaria Potere Operaio e Autonomia Operaia. I primi arresti sono avvenuti nell’aprile 1979 e le udienze si sono concluse a Roma nel 1984. La conclusione del rapporto è che le autorità italiane hanno violato tutti gli accordi europei e internazionali sui processi equi in tempi ragionevoli. [Amnesty International] ha espresso quattro critiche principali su come si sono svolti i procedimenti. Tre di queste osservazioni riguardano la durata della carcerazione preventiva degli imputati, 12 dei quali hanno trascorso cinque anni in prigione in attesa di giudizio. Le leggi speciali sull’ordine pubblico sono entrate in vigore dopo gli arresti, ma sono state applicate retroattivamente per prolungare la già eccessiva durata della carcerazione preventiva. In secondo luogo, si sono aggirati i limiti legali della detenzione, emettendo nuovi mandati di cattura poco prima della decorrenza dei termini, affinché gli imputati potessero essere tenuti in prigione se lo voleva il tribunale. Ancora, secondo Amnesty International le autorità non hanno osservato le norme prescritte dal Tribunale Europeo dei Diritti Umani in relazione all’articolo 53 della Convenzione Europea, che proclama il diritto a un processo equo o al rilascio. L’articolo prescrive “particolare diligenza da parte dell’accusa” nei casi in cui gli imputati siano detenuti. Nel processo 7 Aprile c’è stato un ritardo di oltre 15 mesi, durante il quale non vi è stata rilevante attività giudiziaria. Per tutto questo tempo i principali imputati sono rimasti in prigione.
Nel 1987 sono proseguiti i processi politici, alcuni dei quali in corso da molti anni. In marzo osservatori di Amnesty International hanno assistito al processo d’appello del caso 7 Aprile, svoltosi a Roma. Il processo si è concluso a giugno con l’assoluzione di molti degli imputati di spicco. Il tribunale ha esaminato Carlo Fioroni, un testimone-chiave che aveva evitato l’esame in aula nel processo di primo grado. Sessantotto imputati erano stati condannati a un totale di oltre 500 anni di prigione per appartenenza ad associazioni sovversive e bande armate direttamente o indirettamente responsabili di omicidii, sequestri, rapine e attentati incendiari. Erano stati accusati in relazione alle attività di un insieme di gruppi di sinistra chiamato Autonomia Operaia. Dodici degli accusati avevano trascorso più di cinque anni in carcere prima della sentenza di primo grado. Amnesty International aveva espresso preoccupazione per la lunghezza delle procedure e aveva ritenuto che il processo di primo grado fosse in violazione di norme europee e internazionali, perché gli imputati non avevano subito un processo equo in tempi ragionevoli.
Tutti gli imputati accusati di insurrezione armata al primo processo sono stati assolti dall’imputazione in appello, per il fatto che non c’è stata alcuna insurrezione. Molti degli imputati principali sono stati assolti per insufficienza di prove dall’imputazione di aver formato o partecipato a una banda armata, e altri sono stati assolti da reati di violenza. (Amnesty International Report 1988, pp.206-207, trad. nos.)

Ci è sembrato efficace e interessante rivedere il caso 7 Aprile con gli occhi di un’organizzazione umanitaria certo non sospettabile di estremismo o filo-lottarmatismo.
Quella contro Toni Negri et alii è la più impressionante montatura mediatico-giudiziaria dell’Italia repubblicana. Stavolta il collage d’inchieste è talmente intricato e delirante che per descriverlo occorrerebbe non un capitolo, ma un libro intero. Riassumeremo la vicenda nel modo più sintetico possibile, limitandoci ai filoni principali, rinunciando a malincuore a seguire tutto il proliferare di “reati connessi”, collegamenti e insinuazioni.
7/4/1979. Stampa e tv danno notizia della maxi-retata che da poche ore ha portato in galera il presunto vertice delle Brigate Rosse. Gli arresti, avvenuti su tutto il territorio nazionale, sono stati ordinati dal sostituto procuratore di Padova Pietro Calogero.
Quasi tutti gli accusati sono intellettuali: docenti universitari, scrittori, giornalisti e leaders dei diversi movimenti post-’68. Tra i più noti vi sono: Antonio “Toni” Negri, docente di Dottrina dello Stato all’università di Padova, indicato come capo e ispiratore di tutta la galassia sovversiva italiana; Nanni Balestrini (latitante), poeta e scrittore, già nel Gruppo 63 e poi autore del romanzo-culto Vogliamo tutto; Franco Piperno (latitante), docente di fisica all’università di Cosenza; Oreste Scalzone, insieme a Piperno leader storico del ’68 romano; Luciano Ferrari Bravo, Guido Bianchini, Sandro Serafini e Alisa del Re, tutti assistenti di Negri all’università di Padova; Giuseppe “Pino” Nicotri, giornalista del “Mattino” di Padova, di “Repubblica” e de “L’Espresso” (in passato si è occupato della controinformazione su Piazza Fontana, e le sue scoperte sugli spostamenti di Franco Freda sono state preziose per le indagini di Calogero); Emilio Vesce, redattore delle riviste “Rosso” e “CONTROinformazione”, già coinvolto nell’inchiesta del ’75 (cfr. cap.5). L’elenco prosegue con diversi militanti dell’Autonomia Operaia ed ex-membri del gruppo Potere Operaio, scioltosi nel 1973. A ben vedere, la passata militanza (a diversi livelli di responsabilità) in Pot.Op. è uno dei pochi comuni denominatori degli imputati. Il mandato di cattura li imputa di avere in concorso fra loro e con altre persone […], organizzato e diretto un’associazione denominata Brigate Rosse, costituita in banda armata con organizzazione paramilitare e dotazione di armi, munizioni ed esplosivi, al fine di promuovere l’insurrezione armata contro i poteri dello stato e di mutare violentemente la costituzione e la forma del governo sia mediante la propaganda di azioni armate contro le persone e le cose, sia mediante la predisposizione e la messa in opera di rapimenti e sequestri di persona, omicidi e ferimenti, incendi e danneggiamenti, di attentati contro istituzioni pubbliche e private […] [di aver diretto un’associazione sovversiva] denominata Potere Operaio e altre analoghe associazioni variamente denominate ma collegate fra loro e riferibili tutte alla cosiddetta Autonomia Operaia Organizzata, dirette a sovvertire violentemente gli ordinamenti costituiti dello stato sia mediante la propaganda e l’incitamento alla pratica della cosiddetta illegalità di massa e di varie forme di violenza e lotta armata (espropri e perquisizioni proletarie; incendi e danneggiamenti di beni pubblici e privati; rapimenti e sequestri di persona; pestaggi e ferimenti; attentati a carceri, caserme, sedi di partiti e di associazioni) sia mediante l’addestramento all’uso delle armi, munizioni, esplosivi e ordigni incendiari sia infine mediante ricorso ad atti di illegalità, di violenza e di attacco armato contro taluni degli obiettivi precisati.

Secondo gli inquirenti, Potere Operaio non si sarebbe sciolto nel 1973; piuttosto, sarebbe divenuto un’organizzazione clandestina, una vera e propria “cupola” della sovversione. Inoltre, malgrado l’evidenza di insanabili contrasti teorici e politici, Autonomia Operaia e Brigate Rosse sono ritenute la stessa cosa, o meglio: la “illegalità di massa” propugnata dalla prima non sarebbe che il mare magnum in cui sguazza l’avanguardia clandestina rappresentata dalle seconde.
Per alcuni degli arrestati vale solo la seconda parte del mandato, cioè l’accusa di associazione sovversiva. Al contrario, su Negri e alcuni altri sta per rovesciarsi una valanga di fantasiosi mandati di cattura per gli episodi più diversi.
Il giorno dopo gli arresti, il magistrato romano Achille Gallucci spicca un mandato contro Negri, con l’accusa di aver organizzato il sequestro di Moro e la strage della sua scorta in via Fani. Un reato da ergastolo. Non solo: Negri, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, viene accusato del reato di cui all’art.284 c.p., cioè di “aver promosso una insurrezione armata contro i poteri dello stato e commesso fatti diretti a suscitare la guerra civile nel territorio dello stato”. Logica vorrebbe che suoi coimputati fossero i componenti del “nucleo storico” delle Br (Curcio, Franceschini, Ognibene etc.), già in carcere da anni. E invece no:
Negri viene inquisito da solo.
Il sostituto procuratore generale Claudio Vitalone – futuro senatore Dc – già se ne esce con un’excusatio non petita:

Non abbiamo fatto un polverone. Questa operazione, concertata da varie procure, è basata su prove e non su semplici indizi, né tanto meno su scritti o saggi ideologici. Non abbiamo alcuna intenzione di criminalizzare il dissenso: a tutti gli arrestati vengono addebitati fatti delittuosi specifici (cit. in: Ivan Palermo, op. cit., p.23).

Tra il 10 e il 12 aprile Calogero interroga personalmente gli arrestati, ai quali però non contesta in modo chiaro e preciso nessun fatto specifico, né rende noti gli elementi di prova esistenti contro di loro. Come nei processi dell’Inquisizione, si limita a rinfacciare a Negri e agli altri le opinioni espresse nei loro scritti, oltre ad alcune conoscenze personali.
Al termine degli interrogatori, la difesa si rende conto che le prove non ci sono, e con un’istanza formale chiede di procedere con rito direttissimo; in subordine, chiede che l’istruttoria venga formalizzata, con trasmissione degli atti al giudice istruttore. Il 16 aprile, la procura formalizza l’inchiesta solo per il secondo blocco di imputati, quelli che devono rispondere semplicemente della loro appartenenza a Pot. Op. Per gli altri, accusati anche di banda armata, è ormai competente la procura di Roma, in quanto i reati contestati da Gallucci assorbirebbero quelli contestati da Calogero. Secondo la difesa, si tratta di un escamotage per evitare l’Ufficio Istruzione di Padova, diretto dal giudice Giovanni Palombarini, noto garantista, il quale nutre molti dubbi sul Teorema Calogero e d’ora in poi si troverà spesso in contrasto col Pm. Quest’ultimo lo criticherà aspramente a mezzo stampa, alludendo a una sua presunta simpatia per gli autonomi. Soprattutto “l’Unità” farà di Palombarini un bersaglio dei suoi strali imbevuti di curaro forcaiolo.
Negli stessi giorni i giornali sparano i nomi di Negri e Nicotri come “telefonisti” delle Br nei giorni del sequestro Moro. A notare la somiglianza tra la voce di Negri e quella del brigatista che il 30/4/1978 ha telefonato alla moglie di Moro, sarebbe stato il magistrato milanese Emilio Alessandrini, ucciso da un commando di Prima Linea. Negri, che ha cenato con Alessandrini qualche mese prima del suo omicidio, verrà pure accusato di esserne il mandante. Nicotri verrà prosciolto e scarcerato il 7 luglio, mentre per Negri – che pure ha un alibi – inizia la tragicomica, umiliante disavventura delle “perizie foniche”, alcune delle quali affidate a “esperti” di dubbia fama che ne trarranno stiracchiate conclusioni contrarie a ogni evidenza, fino a parlare – vilipendendo la lingua di Dante – di una “probabilità di certezza”! Come avverrà tre anni più tardi per le perizie balistiche sul delitto Dalla Chiesa, il fatto che le perizie vengano eseguite all’estero (Michigan) basterà a conferire loro un soffuso alone di attendibilità.
Con la scarcerazione di Nicotri, e nonostante l’appoggio entusiastico della stampa di regime, il Teorema Calogero potrebbe mostrare i primi segni di cedimento, così Gallucci emette un nuovo mandato di cattura che “sostituisce” il precedente: al posto delle Brigate Rosse compaiono (corsivo nostro) “più bande armate variamente denominate, destinate a fungere da avanguardia militante per centralizzare e promuovere il movimento verso sbocchi insurrezionali”! Commento di Giuseppe Leuzzi Siniscalchi, difensore di Negri:

Per rendersi conto dell’enormità e della illegittimità di una imputazione così formulata basta sostituire al terrorista un delinquente comune e limitarsi a dire che un ladro è accusato di aver compiuto molti furti (senza però dire che cosa ha rubato), in molte città d’Italia (senza mai indicare dove), in molte occasioni (senza mai specificare quando sono avvenuti). È la stessa cosa che avviene per Negri e gli altri che sono accusati di aver organizzato non si sa quante bande armate né quali siano, né si sa dove e quando abbiano operato. Una vera mostruosità, che di fatto mette l’imputato nella impossibilità di difendersi. (Ibidem, p.39)

È l’inizio di una pratica giudiziaria alquanto eterodossa, la “sostituzione” dei mandati di cattura.

Scriverà Luigi Ferrajoli:

…gli inquirenti hanno fatto largo uso, in questa emissione a getto continuo di nuovi mandati di cattura, dell’istituto – fino ad oggi inedito e comunque sconosciuto al nostro codice – della “sostituzione” dei mandati di cattura. Procedura vorrebbe che allorché vengono mutuate le accuse, per le vecchie imputazioni si avesse una contestuale sentenza istruttoria di proscioglimento. Invece gli inquirenti hanno inventato una nuova formula di definizione delle accuse: “il presente mandato sostituisce i precedenti”. Sicché oggi ci troviamo di fronte a un quadro accusatorio che non ha niente a che vedere con quello originario, senza che, per esempio sulle accuse interamente franate di Calogero, si sia avuta alcuna pronuncia giurisdizionale. (Luigi Ferrajoli, Il Teorema Calogero: frane e puntelli…, in “Critica del Diritto” n.23-24, cit., p.52)

Il nuovo mandato estende ad altri imputati l’accusa di “insurrezione armata”. Ma quando si sarebbe svolta o dovuta svolgere quest’insurrezione? E già che ci siamo, se non è chiedere troppo, quali sono le prove raccolte dai magistrati? Il 5 luglio Calogero rilascia una lunga intervista al “Corriere della sera”, intervista che diverrà celebre in quanto indicativa della pochezza sostanziale e metodologica dell’inchiesta 7 Aprile:

D: Quali prove concrete ha raccolto contro i cosiddetti capi dell’organizzazione? Fatti specifici?
R: Pretendere questo mi sembra ingenuo e sbagliato. L’accusa non ritiene di avere individuato i manovali del terrorismo, ma i loro dirigenti e mandanti. Un dirigente, per la natura stessa del ruolo e del tipo di organizzazione, certamente non va a fare attentati. Sarebbe una rinuncia alla sua funzione, che è quella di dirigere e non di eseguire. […] Perciò non si possono attendere, in questo caso, prove di fatti terroristici specifici. Noi abbiamo cercato, e crediamo di avere scoperto, le prove che accusano i dirigenti del partito armato.

La prova c’è… perché non c’è. E l’insurrezione armata? Un anno dopo (30/7/1980), in un’intervista a “l’Europeo”, Calogero affermerà:

Sarà bene precisare che questo reato è di pericolo o a consumazione anticipata. Sarebbe contrario alla sua natura ancorarne l’applicazione all’ultimo atto nel quale culmina il processo insurrezionale; al contrario, la sua applicazione è legittima e doverosa in presenza di tutti gli atti, anche quelli lontani dall'”ora X”, che siano caratterizzati da una oggettiva rilevanza e idoneità a realizzare l’evento insurrezionale.

L’insurrezione c’è stata… perché non c’è stata.
Di fatto, sono gli scritti di Negri gli unici “indizi” (Calogero: “Il testimone principale contro Negri è Negri stesso”). Tutto questo sfogliare pagine alla ricerca di prese di posizione incriminanti produce la “lievitazione” dei capi d’accusa, oltre a gaffes e mostruosità a getto continuo. Ferrari Bravo è tra gli accusati solo perché ha scritto su “Rosso”, e perché ha lasciato su un quaderno appunti “compromettenti” (titoli di ipotetici articoli per la rivista). Giovanni Tranchida solo perché è direttore responsabile dello stesso giornale, che non potrebbe uscire senza la firma di un giornalista professionista. Quando i giudici romani interrogano Emilio Vesce, gli leggono passi di un documento che proverebbe il suo ruolo di capo terrorista; Vesce ne ascolta la lettura poi spiega: “Si tratta di un articolo del professor Sabino Acquaviva, che doveva essere pubblicato sul “Corriere della sera”. Ignoro se il testo sia stato pubblicato o meno e ripreso nel libro dell’Acquaviva Guerra e guerriglia rivoluzionaria, che io ho recensito.” “La Repubblica” e “l’Unità” dedicano un articolo all’interrogatorio di Vesce, senza nemmeno accennare alla magra figura degli inquirenti.
Negli stessi giorni il processo si estende ai redattori della rivista romana “Metropoli”, su cui scrivevano anche Scalzone e Piperno. I nuovi inquisiti sono Libero Maesano, Lucio Castellano e Paolo Virno. Anche loro apparterrebbero in blocco all’organizzazione eversiva “costituita in più bande armate variamente denominate”, per il semplice motivo di… aver scritto su “Metropoli”. Pleonasmi a non finire. Davvero curiosa questa “guerra civile” combattuta a colpi di saggi, editoriali, recensioni… e anche fumetti: su “Metropoli” è comparsa una drammatizzazione a fumetti del caso Moro. Secondo gli inquirenti, alcune vignette contengono l’esatta riproduzione della “prigione del popolo” in cui era rinchiuso Moro. Poi si verrà a sapere che l’autore si è ispirato a un fotoromanzo di “Grand Hotel”.

Nel frattempo Piperno è ancora uccel di bosco. La sua situazione è sempre più delicata: si scopre che nei giorni del sequestro Moro, assieme a Lanfranco Pace (anch’egli imputato nel 7 Aprile) aveva contattato il Psi offrendosi per un tentativo di mediazione tra governo e Br. Aspirante mediatore = dirigente delle Br, altro ragionamento che se non fa una piega è solo perché a stirarlo è la stampa velinara.
Proprio Piperno è protagonista involontario di una delle panzane più incredibili pubblicate dai giornali: è il 18 agosto, e i giornali titolano: “Sparatoria e fuga. La Ps: ‘era Piperno'” (“l’Unità”); “Franco Piperno sfugge sparando alla cattura?” (“La Repubblica”). Piperno sarebbe stato riconosciuto dalla polizia mentre scendeva da un treno alla stazione di Viareggio; avrebbe quindi ingaggiato una sparatoria, e si sarebbe dileguato pistola in pugno nelle campagne del lucchese. La polizia di Viareggio lo ha identificato “al novanta per cento” (!). Commenta il giornale di Scalfari:

Di Piperno, fino a questo momento, si conosceva solo il ruolo di ideologo delle teorie praticate da molti esponenti del partito armato; non certo la sua stessa militanza tra le truppe dei “soldati”. Il fatto che abbia deciso di mettere mano alla pistola, sia pure in una situazione disperata come quella di ieri, segna probabilmente una svolta irreparabile nella sua carriera politica.

Peccato che il giorno dopo Piperno venga arrestato a Parigi, dove si trova da diverse settimane. “La Repubblica” titola: “Franco Piperno arrestato a Parigi”. Sulla sparatoria di Viareggio, nemmeno una parola. “l’Unità” invece non demorde, e scrive che Piperno potrebbe essere arrivato a Parigi nelle ore successive allo scontro a fuoco, “aprendosi un pertugio tra le maglie della rete che si è tentato di cucirgli addosso”. Incommentabile. A Piperno l’episodio di Viareggio non verrà mai contestato. Ai primi di settembre si costituisce Pace, pure lui riparatosi in Francia.
Quella dell’estradizione di Piperno e Pace è l’ennesima, intricatissima, irriassumibile farsa. Ci limitiamo a trarne il succo: poiché la Francia non concede l’estradizione per reati di natura politica ( “associazione sovversiva” et similia), la procura di Roma prepara e presenta nuovi mandati di cattura, infilandoci dentro di tutto: la strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Moro, possesso di armi da guerra, assalto alla sede della Dc romana, assassinio di due agenti di polizia, furto di automobili etc. Tutto questo senza che ci sia stata alcuna svolta nelle indagini, e senza l’acquisizione di nuove prove (ma già, non si sono mai acquisite nemmeno quelle vecchie). Come scriverà il magistrato Vincenzo Accattatis:

i “fatti” contestati ai leaders di Autonomia praticamente sono rimasti sempre gli stessi, mentre le imputazioni hanno subito un crescendo vorticoso, come se “gli stessi” fatti potessero essere letti in un modo o in un altro secondo gli “umori” degli inquirenti, oppure al fine di ottenere alcuni pratici risultati (ad esempio, l’estradizione di Piperno dalla Francia (Vincenzo Accattatis, Processo 7 Aprile: un processo politico, in: “Critica del Diritto” n.23-24, cit., p.28).

Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, Piperno e Pace vengono estradati in Italia.
All’inizio di dicembre la svolta c’è davvero: arriva il milanese Carlo Fioroni, apripista per la discesa libera dei “pentiti”. Le prestazioni del prototipo “Tony lo slavo” vengono migliorate dalle super-pile dell’approvanda legge Cossiga.
Il nome di Fioroni compariva già in alcune inchieste-pilota di metà anni Settanta, non in veste di “pentito” ma certo con un ruolo ambiguo e sfumato. Oreste Strano ipotizza che tutti i collages giudiziari sperimentati dai giudici torinesi nel 1975-78 siano serviti unicamente a rompere legami di solidarietà tra i compagni, provocare, esasperare per scoprire l’elemento debole, il candidato ideale al ruolo di “pentito”, da istruire con metodo in attesa di una più grande operazione giudiziaria. Se così fosse, ai dottori Caselli e Violante (ma anche al generale Dalla Chiesa) andrebbero riconosciute una lungimiranza e una scientificità da far rabbrividire.
Fioroni è passato attraverso i Gap di Feltrinelli e Pot.Op., ma tutti i suoi ex-compagni lo hanno ripudiato perché “ambiguo”, “pericoloso”, “un pirla” che ha fatto “cazzate madornali”. È in carcere dal 1975, condannato per il sequestro e l’omicidio dell’ing. Carlo Saronio. Nei primi giorni di dicembre chiede di essere ascoltato dai giudici del 7 Aprile, e racconta una storia di Pot.Op. e della lotta armata tanto fantasiosa quanto perfettamente concordante col Teorema Calogero. Non solo: collega i nomi di Negri e altri 149 “terroristi” a un’infinità di delitti (compreso il sequestro Saronio) e sordidi avvenimenti, su molti dei quali non può saper niente perché avvenuti quand’era già in gattabuia. Le sue “confessioni” sono piene di inverosimiglianze e passaggi illogici, vaghi, indistinti. Scrive Pasquino Crupi:

Vogliamo, a questo punto arrivati, inserire un’annotazione. Tutto il memoriale di Fioroni è cosparso e, nei punti delicati, sorretto (diciamo demolito) da sospensioni di memorie, incisi dubitativi, impressioni, opinioni, deduzioni, sensazioni, locuzioni cautelative, allargamenti, estensioni e generalizzazioni.

Li trascriviamo, mettendo in parentesi le frequenze d’onda.

Non so (6); Non ricordo se (12); se ben ricordo (2); non mi sovviene il nome (1); non ricordo il nome (7); se non ricordo male (1); Non ricordo (3); ho il vago ricordo (1); a quanto ricordo (1); di cui non so il nome (1); mi pare (16); mi sembra (8); avevo l’impressione (1); non sono sicuro (1); non sono sicurissimo (1); sono quasi sicuro (1); ritenni (1); ritengo (6); sono intimamente convinto (1); mi convinsi (1); ho sempre ritenuto (1); non escludo (3); se non erro (6); se non m’inganno (1); se non vado errato (7); se non sbaglio (1); mi posso sbagliare (2); mi riferì (7); mi fu riferito (2); che io sappia (1); a quanto seppi (1); a quel che seppi (2); per quanto io ne sappia (1); come seppi (3); da quanto appresi (1); a quanto appresi (2); come m’informò (1); come mi raccontò (1); mi risulta (4); non sono in grado (4); mi domando ancora (1); nessun dubbio (1); non ebbi dubbi (1); mi fece intendere (1); io intesi (1); solo in via d’ipotesi posso pensare (1); mi fece pensare (1); attribuii successivamente nella mia mente (1); trassi il sospetto (1); non posso precisare (1); si può affermare (1); poco prima o poco dopo (1); dopo un giorno o due (1); a mio avviso (1); forse (7); probabilmente (3); quasi sicuramente (1); quasi certamente (2).
Con un minore numero di coriandoli, ogni anno, si celebra a Rio de Janeiro un gran bel carnevale. Con questi coriandoli dentro i verbali del pentito professore Fioroni decine e decine sono state le persone arrestate nel mentre “Repubblica” e “l’Unità” trasformavano la cattiva memoria di Fioroni nella incrollabile memoria di un elefante.
(Crupi, op.cit., p.120)

Il 21 dicembre c’è un nuovo tsunami di arresti contro l’Autonomia. Finiscono in carcere decine e decine di persone, quasi tutte indicate da Fioroni, molte delle quali non fanno più politica da tempo. Tra questi, due veterani dell’inchiesta su “CONTROinformazione”: Franco Tommei e il solito Oreste Strano. Nel frattempo, gli arrestati del 7 Aprile vengono raggiunti da nuovi mandati di cattura e comunicazioni giudiziarie. Il più colpito è di nuovo Toni Negri, che si vede accusare del sequestro Saronio, dell’incendio della Face Standard (in combutta con Tommei, Strano e altri), del sequestro del sindacalista Cisnal Antonio Labate, di quello dell’ing. Minguzzi della Sit Siemens di Milano (in combutta con Tommei, Strano e altri), dell’assassinio del militante di Lotta Continua Alceste Campanile (in combutta con Tommei, Strano e altri), di quello del brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini, del tentato omicidio del carabiniere Gennaro Sciarretta, e poi tentate rapine, detenzione di armi ed esplosivi, attentati incendiari, falsificazione di patenti e carte d’identità, addirittura il furto di un quadro del Trecento e di una preziosa collezione di francobolli!
Col tempo Negri verrà scagionato da quasi tutte le accuse, ma intanto “l’Unità” suona le campane a festa: il 22 dicembre, il fondo del direttore Alfredo Reichlin ha come titolo: “Dunque non erano invenzioni”. Come al solito, l’organo ufficiale del Pci scambia per prove quelle che sono solo nuove accuse, a loro volta da provare.
Ironia della sorte: nell’aprile 1980 tocca a un altro famoso “pentito”, anzi al più famoso di tutti, far andare in pezzi il Teorema Calogero. L’intervento di Patrizio Peci nel caso 7 Aprile produce effetti molto diversi da quelli prodotti nel processo a Giuliano Naria. Fin dai primissimi interrogatori, l’ex-brigatista esclude che Negri abbia mai avuto legami operativi con le Br. Interrogato dal dott. Gallucci, Peci afferma con sicurezza che fu Mario Moretti a telefonare alla moglie di Moro. Un durissimo colpo alla “probabilità di certezza” delle perizie foniche. Interrogato da Calogero, Peci conferma quanto già deposto, nonostante le minacce del Pm:

L’Ufficio fa presente al Peci che se nel corso di questa o altre istruttorie risultassero provati contatti ulteriori di Negri con le Br fino a epoca attuale, sarebbe legittimo porre in dubbio l’attendibilità di una parte rilevante delle dichiarazioni già da lui rese, poiché non sarebbe verosimile che egli, per il ruolo rivestito nell’organizzazione, non ne fosse venuto a conoscenza; e potrebbero risultare altresì pregiudicati i vantaggi che dalle confessioni rese egli può attendersi (Ivan Palermo, op. cit., p.131)

Sarebbe a dire che le dichiarazioni di un “pentito” vanno accettate senza verifica solo se confermano le tesi dell’accusa, mentre le si prende con le pinze se scagionano l’inquisito. Ad ogni modo, il 24 aprile Gallucci revoca il mandato di cattura a Negri per il delitto Moro. È l’inizio della lunga agonia del Teorema Calogero, che però prima di morire dovrà ricevere ancora molti colpi di grazia.
Poco tempo dopo, Negri – assieme a Pace e Piperno – viene prosciolto anche dall’accusa di banda armata, pur restando in carcere per quella di insurrezione. Tra un proscioglimento e l’altro, tra una requisitoria e l’altra, si arriva alla situazione descritta a grandissime linee nei rapporti di Amnesty International. Nel frattempo, Negri viene eletto deputato nelle liste del Partito Radicale, e fugge in Francia quando la Camera concede l’autorizzazione a procedere… ma questa è un’altra storia.
Tirando le somme, si può definire il 7 Aprile una vera e propria montatura? Usiamo le parole di Pasquino Crupi:

Come si fa… a tacere che di tutti i reati scaricati sulle spalle di Negri e degli altri neppure uno è venuto a conoscenza dei giudici inquirenti prima del 7 aprile del 1979? Che, perciò, prima li hanno arrestati e poi hanno trovato le “prove” sulla bocca di Fioroni […]? Che, ancora, per ben due anni gli imputati non avevano da che difendersi dato che le imputazioni erano astrattezze di fattispecie ricavate da questo e quell’art. del Codice penale? Che, infine, il rigonfiamento delle imputazioni – l’associazione sovversiva che diventa banda armata, la banda armata che diventa insurrezione armata – era un espediente per allungare i termini della carcerazione preventiva in attesa che uno straccio di prova venisse recuperato? (Crupi, p.129)

Ancora, si può definire il 7 Aprile un processo “a mezzo stampa”? Qualche passo indietro: a Roma, il 24 novembre 1978, si svolge una tavola rotonda sul tema: “Censura e diffamazione come strumenti di emarginazione del dissenso”, organizzata non da “fiancheggiatori” bensì dal rispettabilissimo Centro di Iniziativa Giuridica “Piero Calamandrei”. La giornalista milanese Camilla Cederna denuncia:

Ricordiamo i primi tempi del caso Moro… quelle notizie, importanti, vitali, essenziali, su questa storia di morte, notizie che in alto tutti sapevano, dal ministro degli interni alla maggioranza che sorregge il governo, a noi non ce l’hanno date. “La stampa si è comportata bene” ha detto in quel periodo qualcuno d’altolocato, senza accorgersi che con quella frase rivelava una verità delle più amare: la scomparsa della libertà di stampa. I giornali sembravano fatti di veline tutte uguali, di veline governative; sembrava che ci fosse una parola d’ordine in quei giorni: occultare la verità, difendere la dignità dello stato, dicendo NO alle trattative e facendo passare il prigioniero delle Br come un uomo incapace di intendere e volere, certamente anche drogato, un mentecatto che se torna guai! Quanti giornali possono dire di avere in quei giorni contribuito a tentare di ricostruire una tesi che fosse sganciata dalle decisioni prese dalla maggioranza governativa, a cercare una verità che non fosse quella, alle volte ingarbugliatissima, dettata dall’alto? […] Basta sfogliare i giornali di quel periodo e leggere i titoli: sembrano tutti scritti da una stessa mano […] nell’Italia di oggi, è ormai quasi interamente attuato, con compravendite, con compromessi politici, e – ripetiamolo – con lottizzazioni, quel piano di… omogeneizzazione che rende la stampa italiana sempre più conformista, sempre più ligia al potere […] un’Italia sempre più drogata dal compromesso di potere fra i partiti maggiori (Cederna, in: AA.VV., Tutela dell’onore e mezzi di comunicazione di massa, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 308-313).

La stessa cosa scriverà Giorgio Bocca:

C’è una rivelazione che il sequestro Moro ottiene in modo flagrante, la rivelazione del potere partitocratico, delle censure e dei conformismi partitocratici: giornali e mass-media si mettono disciplinatamente, servilmente agli ordini dei partiti di governo […] La bella facciata del giornalismo democratico, dei dibattiti sulla libertà di stampa cade in frantumi il 16 marzo del ’78: tutti possono vedere come funzionano i meccanismi della informazione: i partiti padroni decidono, i direttori obbediscono. Ipocrisie, menzogne, esagerazioni, invenzioni sino a pochi giorni prima considerate inaccettabili vengono stampate senza la minima protesta. I dissenzienti si defilano, gli opinionisti si autocensurano. (Giorgio Bocca,op. cit., p. 223).

L’atteggiamento dei media sull’inchiesta 7 Aprile – tanto più unanimemente colpevolista e mitomaniaco quanto meno convincente appare l’impianto dell’accusa – è la logica conclusione di quello tenuto durante i giorni della “fermezza”. Calogero annuncia di aver scoperto i mandanti non solo del sequestro Moro, ma di tutte le azioni armate e sovversive del decennio, quindi inizia un grande rito purificatorio: le iniquità dello “stato democratico”, la sua natura di classe, le sue politiche repressive e criminogene, tutto viene ri-legittimato e giustificato da questa scoperta, e riversato per transfert sulle teste dell’Autonomia Operaia; poi, per mano di una casta di giudici-sacerdoti, gli autonomi finiscono in galera o in esilio, e con loro viene nascosto o allontanato il male.
I media omologati sulla linea della “solidarietà nazionale” toccano il nadir della libertà di stampa, e proprio come nella magistratura i più accaniti inquisitori sono quei magistrati “di sinistra” che avevano indagato sulle “trame nere”, così nella stampa i giornalisti più forcaioli e plus royalistes que le roi sono quelli di testate come “l’Unità”, “La Repubblica” e “Paese sera”:

…il compromesso storico, – questo ipocrita termidoro, questo momentaneo trionfo di un giacobinismo di destra con le sue urgenze di salute pubblica e di politica di emergenza come unica base di legittimità, con la necessità di costruire capri espiatori e di produrre autoesaltazione statualistica e patriottarda – il compromesso storico determinò una situazione di tale unanimismo irrazionale che anche gente solitamente garbata e critica cadde nel trabocchetto. La ristrutturazione della stampa si impose, oltre che attraverso modificazioni di capitale e ristrutturazioni tecnologiche, soprattutto assorbendo e riplasmando, in funzione di potere, tecniche ed esperienze alternative: tutto fagocitando e a tutto togliendo l’anima. (Toni Negri, postilla a: Crupi, op. cit., p.164).

Agli inquirenti si presenta un teste che afferma di aver visto Toni Negri mentre il 16/3/1978 si allontava da via Fani (!). Tale inverosimile deposizione viene subito coperta da “l’Unità” che titola, senza spiegare su cosa sia basata tale lapidaria sentenza: “Non è un mitomane il teste che accusa Negri”.
Un cronista del Tg2 ricorda che Moro, nella sua prima lettera dalla “prigione del popolo”, scrisse di trovarsi “sotto un dominio pieno ed incontrollato”, e ipotizza che fosse un riferimento in codice al libro di Negri Il dominio e il sabotaggio.
Verità indiscutibili: Negri è ubiquo, è il capo dei capi, è in combutta con tutti. E mi e ti e Toni…
I media stimolano e amplificano la voglia di protagonismo dei magistrati: interviste a nastro continuo, fughe di notizie, annunci sensazionali di nuovi filoni d’indagine… La dittatura della praesumptio culpae diviene show da mattatori. Come scrive l’avv. Gaetano Insolera:

[Il] rapporto con l’opinione pubblica era delegato fino a poco tempo fa all’esecutivo e ai rappresentanti dell’esecutivo. La velina era della Questura. La conferenza stampa era svolta dai funzionari della polizia. Oggi, invece, è gestita in prima persona dal magistrato. In relazione al quale il processo viene reiteratamente, insistentemente personalizzato. Così i processi significativi […] vengono costruiti su una figura di protagonista, che è il magistrato, sia esso pubblico ministero o giudice istruttore; il quale tiene attraverso una serie di canali rapporti con la stampa e si fa veicolo – e sostanzialmente quindi anche il processo lo diviene – di precise motivazioni e finalità politiche, dentro il processo. E’ in tal modo che un’indagine giudiziaria può divenire in questo contesto spettacolare, una pedina nella lotta politica. (Gaetano Insolera, Il processo penale tra spettacolarizzazione e protagonismo politico del giudice, in “Critica del diritto” n.21-22, aprile-settembre 1981, p.31).

La comunicazione giudiziaria, che era nata come strumento di garanzia per l’imputato, perde tale caratteristica e diventa funzione dello spettacolo, così come il mandato di cattura, le perquisizioni etc. Lo spettacolo, che prima era tipico della fase del dibattimento, adesso comincia con l’istruttoria, anzi la precede e la condiziona. L’istruttoria diventa il fulcro dello spettacolo.

Scontate ma innegabili le similitudini col maccartismo; come scrive Andrea Barbato:

Alcuni caratteri del nascente maccartismo: affermare con sicurezza e autorità, nel momento giusto, davanti a una platea ben predisposta, qualcosa di falso travestito da documento inconfutabile… E se, oltre che falso, è ingiusto e accusatorio, può avere lo stesso peso e lo stesso effetto di una verità. Il messaggio è atteso, e perciò è letto come autentico e legittimo. E la sua precisione, pur tutta inventata e artificiale, ne è una specie di prova interna […] [McCarthy] lanciava accuse così gravi (giunse a dire che Truman era nelle mani dei sovietici) che ogni risposta sembrava pallida, imbarazzata, reticente. La verità suona sempre su un’ottava più bassa della falsità. Per chi entrava in questa spirale verbale, non c’era più scampo. Anche perché “you can’t unscramble eggs”, non si può tornare alle uova intere quando la frittata è fatta […]…la “menzogna multipla”. E cioè una serie di bugie legate fra loro fino a formare una catena di apparente coerenza, anche se appesa nel vuoto. Se parto dalla calunnia verso un funzionario definito traditore, i passaggi successivi sono facili e logici: l’ufficio di quel funzionario sarà infestato da agenti nemici, i documenti che ne escono sono antipatriottici, chi li fa uscire è una spia, chi non stana le spie è un agente nemico. (Andrea Barbato, Come si manipola l’informazione. Il maccartismo e il ruolo dei media, Editori Riuniti, Roma 1996, p.5 passim)

Tutto ciò suonerà incredibilmente familiare a chi abbia ancora nelle orecchie la propaganda su Mani Pulite e sulla “uscita da Tangentopoli”. Tra i due eventi c’è lo spartiacque del “nuovo” codice di procedura penale, ma l’acqua è la stessa, fetida e melmosa.

***

Dopo il primo verbale fu tutto un viavai di magistrati intorno a me, come in un formicaio: venivano da tutta Italia, con le loro cartellette e la loro aria seria e ansiosa per raccogliere informazioni utili a combattere il terrorismo nelle rispettive città. E spesso andavano via felici, perché raschia e raschia, fra le loro e le mie notizie, qualcosa veniva fuori per tutti.
Patrizio Peci, p.202

Oltre all’art.4 della legge Cossiga, arriva la “legge sui pentiti” (legge n.304 del 29/5/1982). E’ ufficializzata la pentitocrazia, ma già da due anni la storia delle lotte sociali post-Autunno Caldo viene riscritta da infami e delatori. Una storia sintomatica, da Demoni dostoevskiani, è quella di Marco Barbone, fondatore della sedicente Brigata XXVIII Marzo, assassino del giornalista Walter Tobagi. Viene arrestato a Milano nel settembre 1980; gli viene contestato solo un paio di rapine, ma decide di vuotare il sacco su tutto e su tutti, se necessario inventandosi il contenuto lì per lì.

Ricordiamo che Marco Barbone uscì dalla redazione di Rosso perché intenzionato a scegliere la clandestinità e a praticare la lotta armata a livelli sempre più alti. Una scelta non condivisa da Toni Negri e altri redattori. Ai giudici, invece, il “nostro” racconta che furono le letture, le indicazioni e i consigli di Negri e di altri cattivi maestri a mettergli le armi in mano. Una rimozione perfettamente in linea con la struttura mentale di un ragazzotto che decide, e, in quattro e quattr’otto, ammazza un giornalista solo perché questi parlava male della lotta armata e ne ferisce un altro alle gambe per la stessa ragione. Poi cambia registro, si arruola nell’esercito opposto, riscrive un po’ di anni di storia, snocciola nomi su nomi che solerti funzionari di partito in toga inseriscono negli spazi bianchi di mandati di cattura già pronti (F.C., Superprocesso spettacolo a Milano?, in “CONTROinformazione” n.21, Milano, dicembre 1981).

Le conseguenze dell’infamia dei vari Barbone sullo svolgimento dei processi e sulla vita nelle carceri sono devastanti. Chi non si “pente” non ha diritto alla difesa, anzi: se il suo avvocato non cerca di convincerlo diventa anch’egli un fiancheggiatore, per traslazione un terrorista tout court, e va in galera col suo assistito.
Le intimidazioni e gli attacchi agli avvocati difensori sono iniziati diversi anni prima, con le inchieste-pilota avviate dopo il ritrovamento del covo Br di Robbiano, nel 1975. Ma si trattava di episodi che riguardavano solo indirettamente la loro attività professionale. Al contrario, il “caso Senese” rivela nuovi tratti del progetto repressivo, e annuncia la fine dell’immunità del difensore.
L’avvocato Saverio Senese viene arrestato e incarcerato a Napoli il 2/5/1977, con l’accusa di partecipazione a banda armata. Senese è difensore di alcuni imputati di appartenenza ai Nuclei Armati Proletari. Non ha mai mostrato di condividere le posizioni politiche dei suoi assistiti, che infatti hanno espresso diffidenza nei suoi confronti e gli revocheranno il mandato prima del processo. Che basi ha l’accusa? In un covo dei Nap scoperto a Roma, gli inquirenti hanno trovato alcuni appunti sulla necessità di mantenere il collegamento tra i nappisti detenuti e quelli a piede libero. Secondo l’accusa, chi meglio di Senese potrebbe svolgere questo ruolo? Tale conclusione non è supportata da alcun indizio; anzi, un documento dei Nap esprime la più profonda sfiducia nei confronti di Senese. Ma è il precedente che il nuovo Sant’Uffizio aspettava da tempo: d’ora in avanti l’attività del difensore potrà essere interpretata come oggettiva complicità con gli imputati.
Nel maggio ’79 si svolge il processo di primo grado; Senese è ad un tempo imputato e difensore (dell’unica nappista che ha accettato la difesa). Lo stesso Pm ne chiede l’assoluzione per insufficienza di prove, ma la Corte d’Assise lo condanna a quattro anni di reclusione.
Il 12/5/1977 si muove la procura di Milano: vanno in galera Sergio Spazzali, uno degli avvocati già perseguiti nel ’75, e il suo collega Giovanni Cappelli. Giovanni Picariello, ex-assistito di Spazzali, sostiene d’essere stato da lui istigato a non rientrare in carcere dopo un permesso. Ovviamente non ci sono riscontri oggettivi, ma il punto è un altro: nel mandato di cattura c’è scritto che Spazzali fa parte del Soccorso Rosso Milanese, che opera (corsivo nostro:)

fornendo a pregiudicati ed evasi il pieno appoggio, attivandosi a fornir loro rifugio e assistenza, fornendo ad essi incondizionato e pubblico consenso e plauso ed assidua assistenza legale, al fine d’intralciare l’opera della giustizia e di difendere non già la loro innocenza, ma sostenere il loro operato.

In realtà Spazzali fa parte del Soccorso Rosso Militante di Franca Rame, organizzazione perfettamente lecita che cerca di tutelare il diritto di difesa e monitorare le condizioni di carcerazione dei compagni e non solo.
Anche Cappelli è tirato in ballo da Picariello: avrebbe passato informazioni riservate a un suo cliente, Giovanni Pancino, accusato di associazione sovversiva. Per la solita miracolosa traslazione, anche Cappelli viene accusato dello stesso reato, cioè di far parte di “un’organizzazione denominata Autonomia Operaia”. Tutto ciò è talmente inconsistente che i due avvocati vengono scarcerati entro l’agosto successivo, senza alcun rinvio a giudizio. Ma il rinvio c’è per Spazzali, ora accusato, con tipica “torsione” inquisitoria, di essere addirittura il fondatore del Soccorso Rosso Milanese.
Nell’aprile 1980 Spazzali viene di nuovo tirato in ballo da un ex-cliente, nientepopodimeno che Patrizio Peci: Peci avrebbe appreso da Riccardo Dura (nel frattempo ucciso in via Fracchia), il quale lo avrebbe a sua volta appreso da Lauro Azzolini, che una volta Spazzali avrebbe consegnato un suo messaggio dal carcere alle Br. Quale messaggio? “Cambiate le chiavi delle sedi perché ne è stata scoperta una”. Come se gente che sta in clandestinità da anni non ci arrivasse da sola! Oltre a essere una informazione di terza mano, è anche scarsamente verosimile. Azzolini si dichiara prigioniero politico, quindi non risponde agli interrogatori, nemmeno per smentire le chiamate di correo di Peci.
Il 19 aprile Spazzali torna in galera. Trascorre 14 mesi nelle carceri speciali, finché la Corte d’Assise di Torino non lo assolve per non aver commesso il fatto (17/6/1981). La procura chiede l’appello, e il 20/3/1982 Spazzali viene condannato a quattro anni.

Ma, questo prego di notarlo…, neppure la Corte di Assise d’Appello… ha potuto dire che Sergio fosse partecipe, un membro delle Brigate Rosse, anzi, ha detto espressamente: “Non abbiamo nessuna prova che Sergio Spazzali faccia parte dell’organizzazione Brigate Rosse”. Allora hanno inventato una formula assolutamente stravagante, insensata sul piano giuridico…, per cui la condanna è stata inflitta per “concorso in partecipazione” alle Brigate Rosse…, che vorrebbe dire che Sergio avrebbe aiutato qualcun altro a svolgere la sua attività di brigatista rosso. (Gilberto Vitale, in: Sergio Spazzali, Chi vivrà vedrà. Scritti 1975-1992, Calusca-City Lights, Milano 1996, p. 21)

Nel 1991, meglio tardi che mai, Azzolini rilascerà una dichiarazione scritta all’Avv. Gilberto Vitale, difensore di Spazzali, in cui scagiona quest’ultimo, ma la Corte d’Appello di Torino si rifiuterà di riaprire il processo.
Nel frattempo tutto s’ingarbuglia: il 2/5/1980 viene arrestato l’avv. Gabriele Fuga. Al solito, a coinvolgerlo è stato un suo ex-difeso, Enrico Paghera (ribattezzato “Pagherà” dal movimento milanese). Paghera accusa Fuga di far parte della banda armata Azione Rivoluzionaria. Sembra non contare il fatto che Paghera abbia già denunciato persone poi scagionate in toto: Fuga deve scontare 15 mesi di carcere preventivo prima che l’accusa crolli in dibattimento. Il 20 maggio tocca ad un altro “avvocato compagno”, Rocco Ventre. I lettori avranno già indovinato: è stato un suo ex difeso a fare il suo nome, tale Marino Pallotto. Ventre avrebbe passato a Pallotto informazioni riservate (un provvedimento d’intercettazione telefonica a suo carico), quindi viene imputato di favoreggiamento personale. Che senso ha accusare un difensore di aver favorito un suo difeso?
Nei mesi successivi continuano le intimidazioni: vengono perquisiti studi legali, partono nuove comunicazioni giudiziarie e un mandato di cattura contro il difensore di Fuga, l’avv. Luigi Zezza, accusato di “partecipazione a banda armata con funzioni organizzative” (16/1/1981).
Zezza è sospettato di svolgere un ruolo analogo a quello contestato a Senese quattro anni prima. Un altro mandato di cattura, e per lo stesso motivo, raggiunge Giovanni Cappelli. Il nome di entrambi è stato fatto da Marco Barbone. Il particolare divertente è che, da pochi mesi, Cappelli ha smesso di esercitare e si è unito agli Arancioni di Osho.
Il 27/5/1983 Sergio Spazzali viene condannato anche per la vicenda del Soccorso Rosso. La sentenza della III Corte d’Assise di Milano fa tesoro delle “preziose” acquisizioni giuridiche del 7 Aprile:

La prova non c’era, però la si è trovata lo stesso e con questo ragionamento: [Spazzali] non poteva non essere organizzatore del Soccorso Rosso Milanese illegale, data la sua preparazione teorica determinante, non poteva non avere “compiti di organizzazione”, perché questi “erano confacenti al suo livello ideologico culturale e all’intensità dell’impegno universalmente noto”. In altre parole, siccome era uno molto colto e molto impegnato, non si poteva pensare che fosse un semplice partecipante a questa associazione sovversiva: per forza doveva essere stato un organizzatore. E questo è bastato per far scattare l’altro comma dell’art.270, quello dell’organizzazione, e quindi per fargli infliggere tre anni e sei mesi di carcere. Io devo dire che questa sentenza…, anche se la pena non è delle più gravi, è, secondo me, uno dei documenti giudiziari più vergognosi che io conosca. (Ibidem, p. 23)

L’incriminazione e l’arresto degli avvocati non sono una reazione all’incrudelirsi della lotta armata, bensì l’ultimo stadio di una tendenza già implicita nel sistema inquisitorio e accentuatasi con le leggi speciali: la negazione del diritto di difesa (al solito, in spregio della Costituzione, che all’art.24, comma II, dice: “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”).

Un diverso uso dello strumento giudiziario praticato dalla difesa tramite i “compagni avvocati” produsse un sovvertimento rivoluzionario delle regole del gioco che fu rimediato man mano con l’emarginazione sostanziale e formale del gioco stesso. La forza della difesa non era mai stata il dibattimento, nel quale si discute delle prove che un altro giudice ha raccolto. La forma inquisitoria infatti anticipa all’istruttoria il rapporto accusa-difesa ed in termini del tutto svantaggiosi ed emarginati per quest’ultima. Il solo punto fermo che poteva valere era l’assistenza all’interrogatorio, che progressivamente è stata tolta del tutto sia di diritto che di fatto. Ben si sa di gente chiusa nelle Caserme dei Cc per oltre 40 giorni. (Avv. Luigi Zezza, Stato di diritto, forma-stato, processo politico, in: “Controinformazione” n.19, p. 27).

Col “decreto Moro” è stato introdotto l’art. 225bis cpp, che “nei casi d’assoluta urgenza e al solo scopo di perseguire le indagini in ordine ai reati di cui all’art. 165ter” (cioè connessi ad attività mafiose e terroristiche) consente l’interrogatorio di polizia (nascosto dietro la dicitura “assunzione di sommarie informazioni”) in assenza del difensore. Le informazioni così raccolte non hanno alcun valore giuridico, e il difensore non avrà modo di sapere cos’abbia detto il suo assistito né che conseguenze si siano prodotte. La “legge Cossiga” ha esteso tale procedura a chi è semplicemente “sospettato” di tali reati. Anche l’allungamento della carcerazione preventiva si configura come pena anticipata, pena in assenza di giudizio, che sminuisce l’importanza del dibattimento e quindi della difesa.

Il rito processuale non è… un momento di socializzazione della conoscenza e di formazione di un giudizio collettivo. È invece un momento di spettacolarizzazione di una “vendetta”, che per essere legittima, deve essere attuata nei confronti di mostri o di pazzi criminali.
Il giudizio è già dato “altrove”: gli imputati sono già definiti e catalogati; la loro pericolosità e la loro estraneità al corpo sociale – costantemente ribadita dai mass-media – si materializza nelle gabbie in cui sono rinchiusi, e che trasformano l’aula giudiziaria del processo in un prolungamento del carcere.
Così, se il giudizio è già dato altrove, non ha senso la presenza del pubblico: il mito “liberale” della pubblicità dell’udienza svanisce, colpito dalla pratica delle schedature, dalla pratica delle oltraggiose perquisizioni corporali cui è sottoposto chi vuole presenziare all’udienza.
E, allora, neppure ha più senso la presenza attiva del difensore, che è infatti privato della possibilità di mantenere un valido contatto con il proprio difeso: la corrispondenza è sottoposta a censura, il colloquio in carcere avviene con il vetro divisorio (e quindi con possibile controllo uditivo), in aula l’avvocato è tenuto a metri di distanza dalle gabbie da transenne e, fra difensore e difeso, stazionano i carabinieri. Se poi l’imputato vuole consegnare all’avvocato i propri appunti difensivi, questi vengono prima diligentemente fotocopiati dai carabinieri.
(Avv. Pelazza, Frammenti…, p.XXXVI)

L’emergenza ha introdotto un linguaggio mediatico-giudiziale nel quale trionfa il “modello cattolico”. Se un delatore viene universalmente definito “pentito”, ciò non lascia il tempo che trova. La parola “pentimento” rimanda all’idea di peccato e comunque a una sfera spirituale, all’interiorità, al tempo assolutamente soggettivo dei ripensamenti e dei rimorsi. L’enunciato anticipa la molecolarità delle emergenze a venire, ma pochi sembrano intuirlo, perché lo scontro è ancora in gran parte molare, politico in senso stretto, macro-ideologico.

Chi difende la legge sui pentiti invocando lo stato di necessità dice: le preoccupazioni dei garantisti sono ipocrite, questi metodi di persuasione sono in uso presso tutte le polizie. Un modo di ragionare rozzo che ignora la sostanza di uno stato di diritto. Lo stato di diritto non è la morale assoluta, l’osservanza rigorosa delle leggi in ogni circostanza, ma è la distinzione e il controllo reciproco delle funzioni. […] se si accetta con la legge sui pentiti e simili che giudice e poliziotto siano la stessa cosa, quale controllo sarà possibile? Ma, si dice, la legge sui pentiti è stata efficace, ha ottenuto centinaia di arresti e la fine del terrorismo.
Questo è scambiare gli effetti per la causa: non sono i pentiti che hanno sconfitto il terrorismo, ma è la sconfitta del terrorismo che ha creato i pentiti. Comunque, anche a concedere che la legge sia stata efficace, ci si dovrebbe chiedere se essa ha giovato o meno a quel bene supremo di una società democratica che è il sistema delle garanzie. La risposta è che i danni sono stati superiori ai vantaggi, anche se un’opinione pubblica indifferente al tema delle garanzie, fino al giorno in cui non è direttamente, personalmente colpita, finge di non accorgersene. Sta di fatto che una notevole parte della magistratura inquirente si è lasciata sedurre dai risultati facili e clamorosi del pentitismo, ha preso per oro colato le dichiarazioni dei pentiti sino a capovolgere il fondamento del diritto, le prove sono state sostituite con i sentito dire. Grandi processi sono stati imbastiti sulle dichiarazioni dei pentiti, centinaia di arresti fatti prima di raccogliere le prove.
(Giorgio Bocca, p.285)

Tra breve si verificherà lo slittamento del pentitismo dalla lotta contro l’eversione a quella contro il crimine organizzato, con risultati devastanti.

Fonte: www.lutherblisset.net

Anche su: it.geocities.com/antirepressione

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