DA MONNEZZIA CON FURORE

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DI CARLO BERTANI
carlobertani.blogspot.com/

Talvolta, quando il mare dell’informazione ingrossa e squassa il nostro fragile vascello, conviene serrare le vele e restare qualche giorno in porto, ascoltare storie di mare nei bistrot, bere un po’ di Calvados. E leggere.
Il rumore di fondo di questo Web 2.0 a volte subissa, riempie le orecchie di vento al punto che non capisci più da dove spira, per gettare la prua all’orza e fermarti un attimo.
In mesi, anni di notizie sulla crisi economica e finanziaria abbiamo scorso centinaia d’articoli (compresi i miei!) mediante i quali abbiamo cercato di capire la ragione ultima di questo assurdo evento. Che, oggi, sappiamo essere solo un Frankenstein finanziario, confezionato in digitali antri dai novelli stregoni dell’economia politica.
Eppure, qualcosa ancora sfugge: perché?

Poiché lo scenario, lo sfondo nel quale tutto ciò viene creato, ai più si sottrae come se, abbagliati da un fiammeggiante sole al tramonto, non riuscissimo a scorgere le nuvole foriere di tempesta che s’approssimano ad Est.
Sono rare le epoche, e le conseguenti generazioni, nelle quali è possibile osservare la fine di un mondo: una generazione è troppo poco per rendersene conto. A meno che.
A meno che non si chieda soccorso alla Storia, la quale non potrà spiegarci – ovviamente – l’oggi ma potrà fornirci tutta la casistica di “ieri” e riuscirà, almeno, a fornirci degli elementi per capire meglio ciò che ci accade intorno.


Purtroppo, lo studio tradizionale della Storia è alquanto carente: materia negletta, considerata – scolasticamente parlando – poco di più che un ingombrante accessorio del quale, ahimé, non si può fare a meno.

Aprendo una breve parentesi, dobbiamo riconoscere che rientra a pieno titolo, in questo contesto disinformativo, la decisione della Gelmini di riunire l’insegnamento della Storia, nel biennio delle Superiori, con Geografia: così, d’amblé, uno più uno fa due e morta lì. Come si nota che la signora non ha nessuna esperienza di scuola! Che è soltanto lì per eseguire gli ordini della Triade: Brunetta, Sacconi e Tremonti!
Altra cosa sarebbe stata introdurre le due discipline come Geostoria, ossia studiare i singoli ambiti geografici (ad esempio Medio Oriente, Oceania, America del Sud, ecc) partendo dalla Geologia e dalla Paleontologia, per giungere infine alla Storia Moderna e Contemporanea. Una gran bella materia, grazie alla quale sarebbe possibile persino capire qualcosa di quel che ci circonda.
La scelta dell’attuale governo mantiene invece separate le due discipline, diminuendo semplicemente il numero d’ore d’insegnamento: risparmiare! risparmiare! Bertolaso & Anemone ringraziano sentitamente per i “risparmi”.
Se fossimo dei superficiali, concluderemmo qui la parentesi, come una semplice questione di “risparmio” ma…in cauda venenum…ed è nella parte più nascosta del mostro che troviamo la spina velenifera.
Agendo in questo modo, le capacità critiche autonome che la scuola potrà fornire scemeranno ancora, cosicché sui media embedded non ci sarà il rischio che qualche forma di ragionato costrutto venga a galla. E si potranno raccontare balle a iosa.

Già oggi – solo qualche misero esempio – si presenta alla maturità un tema sulle foibe, ma non si chiede – parallelamente – d’approfondire cosa significò l’occupazione militare italiana della Jugoslavia: difatti, si chiedeva al candidato di soffermarsi “sugli eventi degli anni compresi fra il 1943 e il 1954.”
Come a dire: parlaci male dei criminali partigiani di Tito, ma non c’interessa sapere nulla degli “eroici” generali italiani i quali esortavano le truppe d’occupazione, fra il 1941 ed il 1943, con proclami del tipo “Si ammazza troppo poco”, giustamente diventato il titolo per un coraggioso libro [1] di denuncia.
Il campo di concentramento di Jasenovac (comandato dal francescano Miroslav Filipovic-Maistorovic, detto “Frà Satana”, si stimano dalle 500 mila al milione di vittime) è ancora là che urla il disgusto per i nostri “Giorni del ricordo”: se si “ricorda” la tragedia della guerra, hanno egual peso i drammi degli uni e degli altri. Noi, invece, “ricordiamo” solo le menzogne e facciamo beato il diretto superiore di Filipovic-Maistorovic, Aloysius Stepinac, come se fosse stato un agnellino [2].
La negazione della Storia, l’inquinarla in malafede con la prezzolata storiografia, conduce a non riconoscere più gli eventi d’oggi, perché le fonti comuni di riferimento sono avvelenate: si pensi a quante balle c’hanno raccontato sul Risorgimento.

La falsità più incredibile che oggi andiamo raccontando è che l’Occidente sia sempre stato il faro della civiltà: in campo filosofico, letterario, tecnologico. Certo, fin quando non studiamo il sapere degli altri, la menzogna regge.
C’è un momento, nella Storia, nel quale l’Occidente pone una pietra miliare del suo percorso, tanto da segnarlo come spartiacque fra il Medio Evo e l’Evo Moderno: il 1492, Colombo e le Americhe.
Prima del 1500, secondo la vulgata imperante, in giro per il pianeta c’erano soltanto selvaggi che aspettavano di ricevere collanine fatte con perline di vetro.
Invece, nel 400 D. C., in India già fabbricavano una lega di metallo che non arrugginiva: è ancora là, a testimoniarlo, una stele alta 7 metri che ha resistito alla ruggine per ben 16 secoli! Oppure, un paio di secoli prima, in Cina si fondevano leghe d’Alluminio. Peccato che noi, l’Alluminio, imparammo ad estrarlo e raffinarlo nel 1908 [3]!
In tutto l’Oriente la polvere da sparo, il telaio per tessere e la stampa furono inventati pressappoco nello stesso periodo rispetto all’Occidente: spesso, prima. E non parliamo della cultura araba dei grandi califfati.
Eppure, divenimmo i padroni del pianeta.

Tutto ciò fu possibile grazie ad un fatto di per sé irrilevante, che invece concesse all’Occidente un’incollatura di vantaggio, quel che bastò per dominare l’Oriente per cinque secoli. In Occidente si fondevano le campane e, “allungando” una campana, s’ottiene un cannone: le prime petriere o bombarde avevano ancora la forma di una campana allungata ma, già nel ‘600, nessuno poteva competere con le artiglierie occidentali.
Un piccolo vantaggio tecnologico, la maggior perizia nel fondere dei tubi di ferro, ci diede un vantaggio impensabile: la nostra storia, da quegli eventi in poi, divenne una vicenda di sangue e di cannoniere, poco improntata verso il sapere se esso non era immediatamente funzionale alla conquista.

Gran parte della storia moderna europea, anzi, si svolse proprio per decidere gli equilibri coloniali: le grandi battaglie del Mare del Nord, fra Monck e De Ruyter, avevano lo scopo di difendere le rispettive Compagnie delle Indie, inglese ed olandese. Si pensi che – per la spedizione di Magellano – il solo carico della Victoria (l’unica delle cinque navi tornata in Spagna, quasi un relitto galleggiante) “coprì” le spese dell’intera spedizione e ci fu ancora un buon margine di guadagno.
Noi, europei del XXI secolo, da circa cinque secoli viviamo immersi in questo mare di certezze, come se la storia extraeuropea fossero solo quattro battaglie fra Cornwallis e gli americani, oppure il sangue versato nella Guerra di Secessione Americana. Nonostante Marco Polo avesse già riportato cronache avvincenti sulla Cina, poco si sapeva (e si doveva sapere) di ciò che esisteva di là del Mediterraneo.

La dimostrazione tangibile che la nostra è oramai un’abitudine che succhiamo con il latte materno, sono le attuali guerre per la conquista dell’ultimo petrolio (Iraq) e per mantenere il controllo delle vie di transito nell’Asia Centrale (Afghanistan), vale a dire per non concedere troppa libertà di movimento fra Iran, Cina, India, Russia e le ex repubbliche sovietiche.
Noi abbiamo inventato la Scienza, noi abbiamo scritto la Matematica: peccato che, i testi medici scritti intorno all’anno mille a Baghdad, siano stati d’uso comune nelle Università europee fino al 1700, che i numeri “arabi” giunsero a Baghdad portati dai matematici persiani, che li avevano appresi in India…
Poi, cosa succede?

Capita che convenga acquistare bamboline di pezza fatte in Cina, perché costano un’inezia, quindi una serie infinita d’oggetti d’uso comune…ed oggi producono la quasi totalità dell’elettronica del pianeta. Come sono bravi gli informatici indiani! Come costano poco! Facciamoli lavorare per noi!
Così, il software per prevenire il “Millenium bag” e tutto quello di gestione dell’euro, sono stati creati a Bangalore e negli altri distretti tecnologici indiani: probabilmente, anche quello dei missili iraniani che, affidati ad Hezbollah, affondarono nel 2006 alcune vedette israeliane. Anche il noto “Windows Installer” è firmato da un ingegnere indiano.
Tornano alla mente le parole di un generale statunitense, all’indomani di Pearl Harbour: “Dopo 87 anni dalla forzatura della Baia di Tokyo ad opera del commodoro Perry, i giapponesi ci hanno restituito un campionario rivisitato e corretto della nostra tecnologia”.
E siamo ad oggi.

Letto, appreso e sottoscritto, per capire meglio l’oggi dobbiamo distanziarci, prendere il primo
dirigibile in partenza per un altro pianeta del sistema solare è, da lì, far maturare il frutto delle nostre meditazioni.
Visto da lontano, con il privilegio di poter far scorrere il tempo a piacimento, avanti ed indietro, cosa vedremmo?
Una parte del globo che, per cinque lunghissimi secoli, s’approvvigiona delle ricchezze altrui e ci campa a sbafo: se non bastano le materie prime si prendono anche le genti – schiavi – per la loro trasformazione in beni di consumo.
Si rifletta sul noto “Triangolo degli schiavi”: le merci europee erano vendute agli arabi (gran razziatori di schiavi), poi i neri erano rivenduti nelle Americhe e le materie prime, prodotte dalle braccia frutto di razzia, erano acquistate dalle industrie europee. Alla base del tutto, c’era la trasformazione della libera carne umana in “risorsa umana”, ossia “capitale umano”: per questa ragione l’Africa versa nelle condizioni che sappiamo, non per chissà quale maledizione divina!
Fa quasi agghiacciare ascoltare parole come “risorse umane”, perché fa pensare all’espulsione dell’Uomo dal lavoro come attività nella quale immette la propria creatività e ne ricava soddisfazione: un misero ingranaggio, quello di Chaplin di “Tempi moderni”, ecco a cosa ci hanno ridotti quei cinque secoli di schiavitù imposta, a riproporre il medesimo ingranaggio per le popolazioni europee.

Nel ‘900, però, alcune nazioni europee decidono di regolare una serie di conti “interni”, con ovvi risvolti sul colonialismo – si pensi al “ratto” franco-britannico del Medio Oriente (accordo di Sèvres del 1920), ed alla spoliazione dell’Impero Coloniale Tedesco e di quello Ottomano – ma vanno forse un poco “oltre” le loro possibilità economiche, finendo sì vincenti, ma indebitate come non mai. Il potere coloniale, che necessita di risorse per essere mantenuto, vacilla.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale ci si mette pure l’URSS – per mere questioni di politica estera più che ideologiche – a foraggiare i movimenti di liberazione, e la stagione coloniale termina.
Lascia però il posto – le nazioni razziate per secoli non avevano mezzi, si pensi che all’indipendenza della Tanzania il Paese poteva contare su 14 laureati e 150 diplomati, quasi tutti maestri elementari, di “tecnico” quasi nulla – al neocolonialismo: ce ne siamo andati con le cannoniere, ma torniamo con le corporation e le banche.
Oggi, cosa possiamo osservare dal nostro privilegiato punto d’osservazione su Marte?

Un gruppo di nazioni che stanno bruciando tappe su tappe, che non hanno debiti interni o se li hanno sono risibili: anzi, sono proprietarie del debito delle ex nazioni coloniali! Queste nazioni stanno diventando il fulcro di nuove alleanze per Paesi di media e piccola taglia, pensiamo all’Iran od al Venezuela.
Come rispondono le vecchie signore occidentali, con i fucili spianati e le pezze al sedere?
Dove possono inviano le truppe, altrimenti il petrolio iracheno (seconda riserva mondiale) finirebbe in Cina, oppure cercano di mantenere il controllo delle vie di transito dell’Asia Centrale, affinché le nazioni del Patto di Shangai non abbiano troppa libertà di commercio. Per farlo, devono raccontare una miriade di balle, come la stantia e desueta “guerra al terrorismo”.
La novità del post-neocolonialismo è che i paesi ex-colonizzati devono importare sempre meno tecnologia e, spesso, appena importato un macchinario, lo replicano in modelli migliorati. La base sulla quale poggiava l’impronta neocoloniale del secondo ‘900 era, invece, che quelle nazioni dovevano, volente o nolente, importare beni tecnologici e know-how. Oggi, il flusso è quasi invertito: le migliori università sono spesso in India e in Cina.
La risposta occidentale?

La strada è sempre la stessa: cannoniere a volontà. Per fare cosa?
I costi di manutenzione di un Task Group navale statunitensi sono astronomici, per una nazione nella quale alcuni Stati (California, ad esempio) sono sull’orlo della bancarotta: mantenere in navigazione navi, sottomarini ed aerei costa cifre che sono nell’ordina di grandezza dei bilanci dei singoli Stati.
Anche in Italia, nel nostro piccolo, stiamo demolendo lo stato sociale e la corrispondente parte della Costituzione che lo salvaguarda: si mette in dubbio, almeno qualche volta, la montagna di soldi che spendiamo per le “missioni di pace” nel pianeta? Dobbiamo dissanguare la popolazione, con Finanziarie da 24 miliardi, senza mai nominare i miliardi spesi, ogni anno, per foraggiare le nostre truppe all’estero?
I risultati (a parte le bare che, ogni tanto, tornano), dove sono?

Si dirà che dobbiamo difendere le fonti d’approvvigionamento petrolifero.
La Germania – la quale, non dimentichiamo, perdendo l’Impero Coloniale nel 1919 non partecipò al successivo “gran sacco” del petrolio – è la nazione che, negli anni, ha avuto minori spese per contingenti militari. Eppure, è quella all’avanguardia nella progettazione e nell’attuazione dei sistemi di captazione per le energie rinnovabili: non dimentichiamo che, per il 2015 – nonostante gli sproloqui di Franco Battaglia – è già prevista la completa autosufficienza energetica per distretti industriali quali Monaco, Dusseldorf, Kassel, Augusta e Friburgo.
Il paradosso è dunque questo: investendo risorse nel settore militare per difendere i campi petroliferi, non si hanno sufficienti risorse da destinare alla ricerca ed all’attuazione delle tecnologie per le rinnovabili.
Il caso italiano è ancora peggiore giacché, la corruzione e lo stretto connubio fra la classe politica ed i boiardi di Stato, acuisce ulteriormente il problema: si pensi ai contributi CIP6 (che tutti paghiamo sulla bolletta dell’ENEL, che dovrebbero essere destinati alle energie rinnovabili), i quali finiscono – grazie a spericolate “interpretazioni” tecnico-giuridiche – nelle tasche dei petrolieri ed al gran circo degli inceneritori, i cancrogeneratori al quadrato.
Si parla tanto di Pomigliano e delle scelte FIAT, ma si dimentica che la FIAT non ha praticamente programmi per auto elettriche che non siano meri prototipi destinati soltanto a “far vetrina”. Lo crediamo bene che, per continuare a sopravvivere, debbano cancellare diritti del lavoro che sono addirittura siglati nella Costituzione! Alla fine della questione, Marchionne chiederà il ripristino della schiavitù per varare la produzione di omnibus a cavalli?

Le nazioni che, per un naturale volgere della Storia, si trovano nel campo perdente devono capire per tempo la lezione: ci sono pochi esempi dai quali attingere – se vogliamo, la Spagna dopo il crollo del suo impero nelle Americhe, l’URSS (la quale, però, rimase una nazione enorme, su due continenti!), forse l’Olanda…le vicende lontane nel tempo poco hanno da raccontare, troppo diverse le situazioni… – ma c’è poco da imparare d’immediatamente “spendibile”.
L’unica lezione che si deve assolutamente capire è la consapevolezza dell’evento: oggi, invece, assistiamo all’ennesimo tentativo di una “resa dei conti” fra gli USA i quali – dopo anni di liberismo selvaggio – tentano la via keynesiana (Obama che sostiene i sostegni statali all’economia) e l’Europa – spaventata dal “babau” greco, creato ad hoc dalle agenzie di rating, guarda a caso sotto influenza USA – la quale si rifugia nella fumosa salvaguardia della ricchezza nazionale (Germania) utilizzando inconcludenti strategie liberiste, mentre non esiste nessun disegno comune. Basti riflettere che manco trovano unità d’intenti sulla tassazione delle rendite finanziarie.

Questo perché l’UE è una creazione fittizia, dove ogni nazione cerca singoli vantaggi in politica estera – la Gran Bretagna sempre legata al carro atlantico, l’Italia ondivaga e sconclusionata da una crisi interna senza fine, la Francia tentata dal “sogno carolingio”, che deve però fare i conti con una Germania che sigla accordi con la Russia… – insomma: com’ebbe a dire a suo tempo Solana, “tutti insi
eme, in ordine sparso”.
Oggi, addirittura, per cementare quel “ognuno per sé e Dio per tutti” hanno nominato una sconosciuta baronessa inglese alla politica estera comune, la quale manca completamente dell’esperienza necessaria: un bel modo per dire “Continuiamo a farci i c…nostri”.
Il balletto continuerà fino all’implosione della baracca europea: ad oggi, è presto per dire se saranno gli Stati nazionali a riprendere la sovranità in toto, oppure se si “scivolerà” verso aree regionali omogenee per cultura ed economia. Il secondo scenario, non dimentichiamo, presenterebbe forti rischi di “derive balcaniche”.
Tutto ciò che dovrebbe essere fatto – ossia programmare uno stile di vita più sobrio, meno teso verso consumi imposti ed in gran parte inutili – non viene preso minimamente in considerazione: addirittura, la sperequazione nella distribuzione della ricchezza, aumenta. E, questa, sembra oramai una deriva internazionale.

In effetti, i vari G8-12-20 e roba del genere sembrano più delle continue rese dei conti nei rapporti fra le ex potenze coloniali che altro: i Paesi del BRIC non sembrano molto interessati. Perché?
Riflettiamo che, i soli quattro grandi Paesi appena citati nell’acronimo, raggruppano all’incirca la metà dell’umanità, mentre il blocco euro-americano è circa un decimo: una sproporzione evidentissima.
Si potrà obiettare che la grande finanza riposa in Occidente: sarà, ma, da quando mondo è mondo, Main Street ha sempre avuto la meglio su Wall Street, perché gli eserciti si muovono con la nafta, non con rettangolini di carta verde.
Un rischio di confronto militare fra i blocchi che si stanno delineando – la scelta atlantica dell’UE, qualche anno fa ancora incerta, è oggi senza smagliature (Obama ha lavorato bene, alla faccia di coloro i quali lo pensavano un Messia) – è comunque molto basso: entrambi i blocchi dispongono d’abbondanti testate nucleari, e nessuno sarà preso dalla “febbre del bottone”.
Aumenteranno, probabilmente, i conflitti locali: qualche avvisaglia c’è già stata – la “fiammata” georgiana, le continue tensioni fra le due Coree (recentemente “benedette” dal “pacifista” Obama), il sempiterno tormentone iraniano… – ma sarà purtroppo l’Africa a pagare, ancora una volta, il prezzo del confronto, giacché la “sete” di materie prime sta aumentando: non si tratta di solo petrolio, ma di metalli che iniziano a scarseggiare, e l’Africa è una enorme miniera a cielo aperto.
Esiste un’alternativa?

Sotto il puro aspetto ideale sì – ed è giusto sottolinearlo – ma il peso politico di una nuova cultura, nei santuari dell’economia, è così scarso da risultare ininfluente.
Chi da anni riflette sul “dove stiamo andando”, ha già compreso che si tratta di una folle corsa su un binario morto: consumiamo risorse a velocità folle, quasi la stessa con la quale creiamo montagne di rifiuti.
Se l’ONU fosse qualcosa di diverso da un’accozzaglia di prezzolati devastatori del pianeta, dovrebbe indire un’assemblea plenaria su una nave, nei pressi della grande “isola artificiale” dei rifiuti che s’è creata nel Pacifico. Là – di fronte alla testimonianza tangibile del nostro fallimento come specie in grado di comprendere gli equilibri di un pianeta piccolo, dalle dimensioni rigidamente finite, e di rispettarli – si dovrebbe piangere.
Invece?

Allo scoppiare della bolla finanziaria nel 2008, un dirigente della Skoda ebbe a dire che bisognava “iniziare a riflettere” di ridurre la vita media di un’autovettura a 7 anni, per aumentare la produzione e rimediare al semplice fatto che, la potenzialità costruttiva dell’industria automobilistica, supera oramai di gran lunga le necessità. Per l’Europa, siamo ad un surplus ci potenzialità produttiva del 20% [4].
Al crollo del saggio di profitto per ogni bene prodotto, si risponde aumentando a dismisura la quantità di beni da produrre: è così facile! Nel Pacifico esiste oramai il settimo continente, quello della monnezza? E chi se ne frega!

Ecco il legame politico/economico fra l’oggi e la fine dell’era coloniale, neocoloniale o post-coloniale, quando lo sfruttamento di miliardi di persone era sufficiente per arricchire a dismisura le holding finanziarie ed industriali, e mantenere un minimo di stato sociale, tanto per pararsi le chiappe dal pericolo socialista ed aprire varchi alla socialdemocrazia venduta!
Vogliamo ricordare la “suddivisione” dei proventi petroliferi in Iran, quella che condusse alla “ribellione” di Mossadeq poi soffocata da USA e GB nel 1953, vale a dire il 94% alla British Petroleum ed il 6% allo Stato iraniano?
La sopravvivenza e l’affermazione della socialdemocrazia, in Europa, avvenne proprio grazie ai “benefici” d’origine coloniale e neocoloniale: al termine di quel processo, generò personaggi come Craxi – apparentemente socialdemocratici, in realtà già liberisti – i cui “figliocci” si chiamano Brunetta, Tremonti, Sacconi, Epifani…e la totalità, almeno sotto l’aspetto della cultura politica, della cosiddetta “opposizione”.
La salvezza, per i manovratori del treno impazzito che non può più predare ricchezze ad ogni stazione, è premere sull’acceleratore: questa è la risposta liberista di variegati colori, bianco-rosso-verde-nero.

L’unica via d’uscita all’attuale follia, per il genere umano, è riprendere in mano la responsabilità di cosa produrre e di quanto produrre: non esistono altre soluzioni. Qualcuno preferisce chiamarla economia di Stato, socialismo, comunismo, totalitarismo…faccia pure.
Ricordiamo soltanto che, già oggi, sarebbe perfettamente possibile costruire automobili elettriche alimentate ad Idrogeno con pila a combustibile che durerebbero decenni: ciò che sconcerta, in un’auto elettrica, è il “nulla” che c’è sotto il cofano. Un motore elettrico un po’ più grosso di quello di una lavatrice e poco altro.
Sono già stati costruiti prototipi costruiti su telaio, con carrozzeria simile alla “cover” di un telefonino (facilmente staccabile e riciclabile), con tutto l’impianto propulsivo contenuto in una “lastra” di soli 26 centimetri di spessore! E tutto questo mentre l’ENEL – la stessa che ci succhia i contributi CIP6 – riconosce che la sola risorsa eolica è in grado di fornire 4 volte l’attuale consumo mondiale d’energia!
Ma, per quanto tempo ancora dovremo farci prendere per i fondelli? Per quanto tempo ancora solo poche persone s’accorgeranno dell’evidenza, che stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi, mentre sarebbe perfettamente possibile ridurre la “febbre” del consumo, garantire diritti e protezione sociale, e campare tutti meglio?

Personalmente, sono alquanto pessimista: quando il continente artificiale “Monnezzia” giungerà a lambire le coste della California – ed i surfisti torneranno a terra con i sacchetti di plastica incollati alla pinna – diranno che è tutta colpa di Al-Qaeda. Se c’è troppa merda in giro – rifletteranno al Pentagono – è perché troppa gente caga: tiremm innanz.

Carlo Bertani
Fonte: http://carlobertani.blogspot.com/
Link: http://carlobertani.blogspot.com/2010/06/da-monnezia-con-furore.html
28.06.2.2010

[1] Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco, Mondadori, Milano, 2007
[2] Vedi: http://www.fisicamente.net/SCI_FED/index-405.htm
[3] Vedi: http://www.medievale.it/getContent.asp?DocFN=metallurgia-celeste
[4] Vedi: www.europarl.europa.eu

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte

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