DI FRANCO CARDINI
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Anzitutto, un lancio, anzi uno strillo d’agenzia. E un grido – più che di dolore – d’indignazione da parte delle molte nostre comunità italiane del subcontinente latinoamericano. A Buenos Aires, stanno rimovendo e forse sopprimendo il monumento a Cristoforo Colombo. E qui bisogna intendersi bene.
“Comunità italiane” è forse un’espressione generica e riduttiva. Ci sono i molti – centinaia di migliaia – d’italiani che lavorano nei paesi dell’America meridionale e che, oltre che nostri connazionali, restano nostri concittadini. Poi ci sono i moltissimi italoamericolatini, vale a dire i cittadini dei paesi dell’America centrale e meridionale che (non diversamente del resto dal Nordamerica) sono figli o nipoti di italiani o di italiane, o magari hanno nonni o genitori italiani entrambi, che portano un cognome italiano e hanno conservato l’uso della nostra lingua, hanno parenti da noi, magari mandano i loro figli a studiare nelle nostre università anche se esse sono in crisi. E amano l’Italia, la considerano la loro seconda patria e non di rado, sentimentalmente, addirittura la prima. Tra le loro comunità, accanto a quelle d’origine meridionale (insulare o peninsulare) e a quelle venete che sono le più numerose, sono molti anche i piemontesi – vi dice nulla il cognome argentino Bergoglio? – i toscani, e ovviamente i liguri, particolarmente densi tra Argentina e Uruguay, dove la fainà, la “farinata”, è uno dei piatti nazionali. Un intero quartiere di Buenos Aires, la Boca, era originariamente popolato di genovesi o comunque di liguri: ed esiste un teatro dialettale argentino-genovese illustre, portato avanti da autori e da attori fanatici di Gilberto Govi. Del resto, che altro volete aspettarvi da un paese che, tra i suoi eroi nazionali, annovera personaggi che portano il nome di Belgrano e di Imperiale?
La gigantesca statua dell’Ammiraglio, che fu donata nel 1910 dalla comunità italiana in Argentina e che da allora troneggia nella capitale del paese sulla Plaza Colón, che appunto ne porta il nome, alle spalle della Casa Rosada – e tra argentini d’origine italiana e d’origine iberica ci si litiga ancora per stabilire se messer Cristoforo/Cristobal fosse genovese o catalano di Barcellona -, è stata spostata ufficialmente per consentirne il restauro e per evitare il rischio di crolli: ma c’è tutta una corrente cittadina e nazionale, guidata dalla presidentessa Cristina Fernandez de Kirchner, che vorrebbe sostituirla con l’effigie della leader della guerrilla antispagnola Juana Azurduy de Padilla, una meticcia per metà ispano-basca (o portoghese) e per metà india nata nel 1781 in una località di quello che allora era l’Alto Perù (oggi Bolivia) e morta nel 1862 dopo aver per tutta la vita lottato per l’indipendenza del viceregno del Rio de la Plata dalla madrepatria spagnola. Il libertador Simón Bolivar era un grande ammiratore della Azurduy.
La questione è intricata: e se ne sta occupando la magistratura mentre l’alcalde di Buenos Aires, Mauricio Macri – un cognome evidentemente italiano o italianizzato – è a capo di quanti esigono l’immediato ritorno della statua dov’era e denunziano un piano teso a cambiar nome anche al teatro cittadino, il celeberrimo e glorioso Colón. Va detto che gli italiani e gli argentini d’origine italiana, in questa battaglia, non sono soli: ad essi si affiancano i molti che esigono di non veder recise le radici che legano il loro paese all’Europa. Fino a pochi decenni fa, si trattava di esponenti magari colti di un ceto medio che si sentiva legato dai valori dell’hispanidad, oggi si tratta soprattutto di persone e di ambienti che amano sottolineare come l’Argentina sia “il più europeo dei paesi latinoamericani”: e non è certo privo di significato che sia anche il più “italiano” tra essi. Ma il più illustre scrittore argentino di tutti i tempi, Jorge Luís Borges, se fosse vivo adesso si schiererebbe senza dubbio alcuno dalla loro parte.
E’ d’altro canto bene che gli italiani, quelli d’Argentina e quelli della nostra penisola, si rendano conto che le cose sono molto più complesse di quello che sembrano: e che dietro una disputa che può apparire “nazionale” e “culturale” c’è una forte attualità politica. Non è certo un caso se gli avversari della memoria di Colombo ricordano che egli fu un “massacratore di indios” – il che non è esatto, per quanto nella personalità dell’Ammiraglio non manchino le ombre – e che la statua di Juana Azurduy è stata donata all’Argentina da uno statista indio a metà, il venezuelano Hugo Chavez, mentre l’eroina è particolarmente celebrata in Bolivia, nel cui territorio attuale essa nacque, grazie oggi alla volontà di un altro presidente meticcio, Evo Morales.
Ebbene: sta proprio qui il bandolo dell’intricata matassa. Non è che nessuno ce l’abbia propriamente con Colombo. E i latinoamericani di oggi, di origine prevalentemente europea o india (o, in certi paesi, africana) che siano, non ignorano certo che la corona di Spagna difese a lungo, con le nuevas leyes ispirate a Bartolomé de las Casas, i diritti dei nativi, i quali furono semmai sterminati dai criollos, gli ispanici nati in America e partigiani dell’indipendenza dalla Spagna. Ma oggi un po’ in tutto il subcontinente centro e sudamericano stanno nascendo istanze volte a valorizzare una nuova identità nata dalla fusione di tutte le genti che lo abitano e volta anzitutto a scuotersi da quello che viene sempre più sentito come un giogo egemonico: quello esercitato dagli Stati Uniti d’America fino dall’Ottocento e ch’è stato diplomatico prima, finanziario ed economico poi, mai privo di un aspetto militare. E’ la volontà statunitense di considerare l’America latina lo America’s courtyard, il “giardinetto dietro casa” degli USA, che da Monroe a Obama non appare sostanzialmente troppo mutata e che è stata più volte in vario modo contestata: in questo senso, con tutte le loro differenze, Villa, Vargas, Perón, Castro, Chavez, Morales, la Kirchner, Lula, sono stati e restano su posizioni analoghe fra loro, su una linea coerente.
Ecco perché la questione della statua di Colombo a Buenos Aires non va disgiunta dal gravissimo incidente che ha visto poche ore fa il presidente boliviano Evo Morales bloccato per ore nell’aeroporto di Vienna dopo che al suo aereo alcuni paesi europei avevano negato il diritto di sorvolo sulla base di una richiesta statunitense; e quindi il suo ritorno a La Paz acclamato dalle folle sudamericane, mentre anche nel nostro continente crescono i dubbi e i malumori legati al “caso” di Edward Snowden e al Datagate. Sembra in effetti che il semisequestro del presidente boliviano dipenda dal sospetto che le autorità statunitensi nutrivano che egli ospitasse a bordo del suo aereo il signor Snowden. Se è così, l’acquiescenza di alcuni paesi europei sarebbe ridicola e gravissima al tempo stesso. Ma beninteso gli interessati negano o tirano a intorbidire le acque.
Mentre le accuse reciproche o comunque le “richieste di chiarimenti” tra la cancelleria di Washington e molte di quelle europee s’intrecciano, e già si annunziano ritorsioni perfino sul piano del libero scambio commerciale, l’australiano Julian Assange a tutt’oggi dopo lo scandalo del Wikileaks rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, ha esortato i paesi europei a non cedere alle pressioni degli Stati Uniti e ad accogliere sul proprio territorio Snowden. ”I paesi dell’Unione Europea, e in primo luogo e soprattutto, Francia e Germania, dovrebbero riservargli la più calorosa accoglienza, in qualsiasi condizione”, ha affermato Assange in un editoriale, scritto insieme a Reporters Senza Frontiere e pubblicato dal quotidiano francese “Le Monde”. Può sembrare una proposta surreale, al limite della follìa: eppure, su “La Repubblica” del 3 luglio scorso, Barbara Spinelli non ha espresso concetti troppo diversi.
Insomma, da una parte molti latino-americani si manifestano stanchi dell’egemonia statunitense, e dall’altra rimproverano all’Europa di essere invece rispetto ad essa troppo acquiescente, e quindi obiettivamente avversaria del loro progetto di emancipazione e complice della superpotenza. In questo contesto, poiché le radici storiche – a differenze delle origini – non sono predeterminate ma si scelgono, preferiscono ora considerare le loro basi identitarie come qualificate dalla lotta per l’indipendenza rispetto al vecchio continente, l’egemonia del quale viene oggi simbolizzata nella memoria di Colombo, e nel destino comune dei loro popoli di differente origine etnica così come esso è simbolizzata dalla figura della Azurduy. Quello che all’Europa proviene da parte dell’America latina oggi, insomma, non vuol essere né un’offesa né una sfida: bensì un invito e un modello. Gente come Juana Azurduy rivendicò indipendenza e dignità per le genti sudamericane rispetto alla Spagna dell’Ottocento.
Possiamo identificare in qualcuno oggi una Azurduy europea, che rivendichi indipendenza e dignità per noi rispetto all’egemonia statunitense che ci riempie di basi militari, fa spiare i nostri governi (come ha dimostrato Snowden) e c’impone addirittura di venir meno al diritto internazionale, com’è accaduto nell’episodio del semisequestro dell’aereo di Morales?
Se c’è, identifichiamola: e facciamole una statua anche noi.
Franco Cardini
Fonte: www.francocardini.net
4.07.2013