CRISI DEMOGRAFICA: OLTRE L'EURO DENTRO IL PENSIERO NEOMALTUSIANO

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DI FEDERICO DEZZANI

federicodezzani.altervista.org

Gli indicatori demografici pubblicati dall’ISTAT sono l’ennesimo campanello d’allarme per la sempre più fragile società italiana: le nascite sono al minimo del 1861, quasi che il Paese stesse vivendo un momento più buio delle due guerre, il numero di italiani che emigra cancellandosi dall’anagrafe è in costante crescita e quello dei decessi registra un nuovo record. Sono gli effetti della moneta unica e dell’austerità, responsabili della distruzione di una quota crescente dell’occupazione, dello Stato sociale e del benessere italiano? Non solo. La denatalità è il prodotto di un sistema economico di cui l’euro è solo una manifestazione, o meglio, è solo uno strumento attraverso cui imporre quel sistema all’Europa: il neoliberismo. La diminuzione dei salari reali, accompagnata dalla diffusione del “vizio” in tutte le sue forme, è il principio cardine con cui le oligarchie massonico-finanziarie perseguono i loro obbiettivi di denatalità: Malthus fa ancora scuola a distanza di due secoli.

Peggio dei bombardamenti

La durata e l’intensità dell’eurocrisi ha prodotto in Italia effetti simili ad una guerra combattuta sul suolo patrio o ad un lungo periodo di bombardamenti aerei: il 25% della base industriale è stato ridotto in cenere, il 10% del PIL è evaporato e la disoccupazione reale (3 mln di persone in cerca di lavoro ed altrettanti “scoraggiati”) si attesta ben al di sopra del 20% della forza lavoro. Come in tutte le guerre, anche la demografia risente della situazione: le nascite sono procrastinate sine die, il concepimento di un figlio è subordinato alla contingenze del momento, la fasce sociali fragili incassano il colpo più duramente. A giudicare dai recenti dati demografici pubblicati dall’ISTAT1, l’Italia sta vivendo un periodo più buio della Grande Guerra del 1915-1918 e della Seconda Guerra del 1940-1945.

Colpisce il dato sulle nascite, al minimo storico da quando nel lontano 1861 furono compilate le prime statistiche nazionali: il fatto che in un annus horribilis come il 1917, quando gli arteriosclerotici generali italiani mandarono al macello centinaia di migliaia di contadini contro le fortificazioni austo-ungheresi, od in uno altrettanto critico come il 1943, quando i grandi centri urbani furono teatro di pesanti e drammatici bombardamenti aerei, fossero nati più bambini che nel 2015, la dice lunga sulle condizioni di salute del Paese.

Dopo il “refolo di primavera” del lustro 2006-2010, quando il tasso di fecondità era aumentato anno dopo anno (in parte dovuto al fatto che le donne nate negli anni ’70 si avvicinavano al limite massimo per il concepimento ed in parte dovuto alle nuove famiglie immigrate), fino a toccare l’1,46 figli per donna nel 2010, la situazione è peggiorata progressivamente, toccando l‘1,35 figli per donna nel 2015. Si noti che il minimo storico del tasso di fecondità si raggiunge nel 1995 (1,19 figli per donna) ma, ciononostante, allora nacquero più bimbi del 2015, complice una “base” più larga di donne, in costante restringimento da allora: per la prima volta dall’unità di Italia si è scesi infatti sotto i 500.000 nati (487.000 per l’esattezza, -2,9% rispetto al 2014).

Sono tassi di fertilità che se, protratti nel tempo, rendono sempre più precario il già malconcio quadro demografico italiano, distante dalla classica “piramide” in cui ad una larga base di giovani, corrisponde un ristretto vertice di anziani: non si dimentichi infatti che, escludendo l’apporto degli immigrati, il livello di sostituzione delle coppie è 2,1 figli, ossia un uomo ed una donna che mettono al mondo mediamente due bambini, più un terzo figlio saltuariamente per compensare gli scherzi che riserva il destino.

L’Italia è, in sostanza, un Paese sempre più vecchio (l’età media ha toccato il record di 44,6 anni) ed ogni anno che passa perde “capacità rigenerative”. Ai fini della nostra analisi è importante evidenziare come le due regioni con il più alto tasso di fertilità (superiore a 1,6 figli per donna2) siano il Trentino e Bolzano, le uniche regioni del Nord in grado di finanziare un generoso sistema assistenziale grazie ad una fiscalità ad hoc3.

Se in Italia nascono pochi bambini, i giovani scarseggiano e l’età media è in costante aumento, bisognerebbe almeno farsi in quattro per trattenere la gioventù e la forza lavoro esistente, indispensabili per garantire un futuro al Paese e la sostenibilità del sistema pensionistico, fino all’altro ieri di tipo retributivo (necessitando quindi di un numero crescente e non decrescente di contribuenti). Al contrario, a testimonianza della drammaticità del momento, si assiste al risveglio del triste fenomeno dell’emigrazione, due volte dannoso: la prima, perché a lasciare il Paese non è più, come fino alla metà del secolo scorso, manodopera poco qualificata, ma risorse istruite ed addirittura già formate, la seconda, perché vengono a mancare quelle forze più dinamiche ed intraprendenti che dovrebbero farsi carico di rovesciare, anche con il ricorso alla violenza (perché qualsiasi moto rivoluzionario è per definizione anti-costituzionale, e quindi illegale, finché non vince e scrive la propria costituzione), quello stesso sistema che le ha condannate all’emigrazione.

Sono infatti 145.000 le persone che si sono cancellate dall’anagrafe nel corso del 2015 (100.000 italiani e 45.000 stranieri), più del doppio rispetto al 2007, ma la cifra potrebbe essere molto superiore, calcolato che molti abbandonano il Paese senza le formalità del caso. Considerato che quasi un quarto dei nuovi emigrati possiede un titolo di laurea e sommando i costi per l’istruzione a carico dello Stato, si è stimato che tra il 2008 ed il 2014, l’Italia abbia “regalato” all’estero 23 €mld di capitale umane4, diretto principalmente in Regno Unito, Germania e Svizzera. Sintomatica è a questo proposito la fuga dei neo-medici e degli infermieri che, di fronte ad assunzioni bloccate dal lontano 2008 e ad una situazione lavorativa sempre più precaria, abbandonano a ritmo crescente il Paese, depauperandolo delle (ingenti) risorse spese per la loro formazione, neppure lontanamente coperte dalle rette universitarie.

Veniamo così al capitolo della sanità pubblica, finita nel mirino dei tagli già col “piano Tremonti” nel lontano 2008 e da allora continuamente taglieggiata, nonostante il Fondo Sanitario Nazionale abbia nel frattempo raggiunto i 111 €mld annui5: liste d’attesa sempre più lunghe e l’introduzione di ticket sempre più salati ha spinto una fascia di cittadini (stimati attorno al 10% della popolazione6) a rinunciare alle cure. Il fenomeno ha senz’altro contribuito, difficile stimare in che misura, all’anomala impennata di decessi registratasi nel 2015 (665.000 morti, record dal dopoguerra7), tanto che qualche esperto di demografia ha evocato la transizione dal comunismo all’economia di mercato nell’ex-URSS, foriera di altissimi costi sociali a causa dello smantellamento del sistema assistenziale.

È corretto attribuire all’euro le responsabilità della drammatica crisi demografica che sta vivendo l’Italia? Sì, ma solo in parte, altrimenti non si spiegherebbe perché la Germania, che è il nocciolo dell’eurozona al contrario dell’Italia che è “europeriferia”, abbia un tasso di fertilità non dissimile dall’Italia e tra i più bassi d’Europa (1,4 figli per donna8). Alla moneta unica sono certamente attribuibili gli effetti prodotti sul tessuto sociale dall’adozione dell’austerità (tagli alla sanità, emigrazione legata a motivi di lavoro, rinvio dei concepimenti per difficoltà economiche, etc.), ma se ci limitassimo ad addossare tutte le responsabilità alla moneta unica, non potremmo spiegare perché la crisi demografica morde (persino più forte che in Italia) anche in quei Paesi europei (come la Polonia, la Repubblica Ceca, l’Ungheria, etc.) che hanno avuto la fortuna di restare fuori dal perimetro dell’euro.

Le ragioni della crisi demografica che affligge Paesi dell’europeriferia (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia), dell’eurocentro (Germania) ed esclusi dalla moneta unica, devono essere quindi ricondotte ad un minimo comune denominatore, tale da rendere la situazione demografica italiana rapportabile a quella tedesca o a quella polacca (in Polonia il tasso di fertilità è 1,3 figli per donna).Quale può essere questo minimo comune denominatore?

Per rispondere ci viene in soccorso l’economista canadese e premio Nobel, Robert Mundell, “padre dell’euro”, nonché pupillo dalle oligarchie anglofone (i suoi esordi accademici avvengono sotto l’ala protettrice della Fondazione Ford, Fondazione Rockefeller e del pensatoio Brookings Institution9): l’euro, secondo Mundell, è un pezzo della “Reaganomics”, è lo strumento principe per introdurre il neoliberismo anche sull’Europa Continentale10. Abbiamo trovato quindi il nostro minimo comune denominatore, il neoliberismo?

Proviamo a fare un tentativo.

Di stampo neoliberista sono tutte le riforme imposte dalla Troika ed applicate dai governi Monti-Letta-Renzi in Italia: deregolamentazione del lavoro (il sociologo Luca Ricolfi ha evidenziato come il precariato abbia toccato nel 2015 un nuovo record assoluto11), tagli alla sanità, porte spalancate all’immigrazione di qualsiasi genere purché comprima i salari a tutto vantaggio del capitale. In Germania, il piano Hartz per il mercato del lavoro, di chiaro stampo neoliberista, ha provocato l’esplosione dei cosiddetti mini-lavori (sono 8 milioni, quasi il 25% dei dipendenti, i tedeschi che ricevono retribuzioni nell’ordine dei 450 euro mensili12) e l’immissione, grazie alla cancelliera Angela Merkel, di un milione di nuovi immigrati nel solo 2015, cancella de facto la recente legge (2014) del salario minimo (8,5 euro all’ora13), duramente osteggiata dagli ambienti ultra-liberisti. Infine, di puro stampo neoliberista (deregolamentazioni spinte, tagli allo Stato sociale, diseguaglianza crescente) è il sistema economico adottato (o imposto?) alla Polonia dopo il 198914.

Nei tre Paesi dove imperversa il neoliberismo il tasso di fertilità decresce costantemente e nascono sempre meno bambini, a differenza della Francia dove (non si sa ancora per quanto) resiste un robusto Stato sociale che assiste le famiglie e l’alta sindacalizzazione del fattore lavoro impedisce la compressione delle retribuzioni: nell’Esagono, infatti, il tasso di fertilità è il più alto d’Europa, avvicinandosi ai 2 figli per donna, indispensabili per garantire la sostituzione naturale delle coppie15.

Sorge allora spontaneo l’interrogativo: cos’è il neoliberismo?

Una prima riposta è che il neoliberismo rappresenti il regime economico preferito dalle oligarchie massonico-finanziarie perché garantisce la massima remunerazione del capitale a discapito del fattore lavoro: in quest’ottica la crisi demografica, dettata dalle crescenti difficoltà delle giovani coppie a crearsi una famiglia, sarebbe solo un effetto collaterale, da compensare con la massiccia immissione di immigrati. In realtà, il fatto che il neoliberismo sia accompagnato (è ben visibile dall’attività dei Parlamenti in Europa) da tutta serie di riforme contro la natalità (diffusione della “pillola del giorno dopo”, progressivo smantellamento della famiglia tradizionale, tentativi di rendere i bambini “asessuati” fin dall’asilo16, crescente retorica a sostegno dell’omosessualità, norme per la diffusione delle “droghe leggere”, etc.), fa pensare che il neoliberismo sia una politica demografica, camuffata da regime economico.

Delle necessità di tagliare lo Stato sociale ed i salari reali parlava già all’inizio del XIX secolo l’economista e demografo inglese Thomas Robert Malthus (1766-1834), secondo cui le restrizioni economiche erano l’unico freno (assieme alla diffusione del “vizio”!) alla crescita demografica, oltre ovviamente alle guerre ed alle pestilenze.

A distanza di quasi due secoli è ancora il pensiero malthusiano ad animare le élite anglofone, propugnatrici di quel neoliberismo che ovunque arriva svuota le culle.

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