CRIMINALITA’ ALBANESE E POLITICHE AMERICANE: UNA REPLICA

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L’articolo di John Kleeves “Criminalità albanese e politica americana” , com’era prevedibile ha suscitato tra i nostri lettori reazioni controverse.
Tra i commenti pervenutici, in particolare, per una serie di interessanti considerazioni, poniamo alla vostra attenzione quello di Francesca Fiorentino.

La redazione

DI FRANCESCA FIORENTINO

….il come e il perché conosciamo stabilisce il cosa conosciamo….

(A. Salvini)

Già, forse la questione è davvero più complessa… perché la realtà in cui siamo immersi è costituzionalmente complessa, e non risponde alla logica causalistica lineare (causa-effetto, per intenderci) antico retaggio di un positivismo oramai obsoleto e superato, persino in quegli ambiti della scienza considerati da sempre come “esatti” …. L’errore che scorgo alla base dell’analisi del nostro esimio professor Kleeves e seguaci non sta (solo ed unicamente) nella citazione di dati aleatori desunti da non si sa bene quale fonte, piuttosto che nell’assunzione di sé stesso quale unico referente scientifico. L’errore del nostro è l’errore del cosiddetto “uomo della strada”, di colui cioè che si fa ingannare dai ragionamenti di senso comune, dalle scorciatoie della ragione, per arrivare in perfetto stile antipopperiano, alla conferma dei propri assunti. Egli si trova così, schiavo incatenato di pregiudizi e stereotipi, a privilegiare un punto di vista (il suo), un interesse, che è palesemente contenuto nel linguaggio attribuzionale di cui si avvale, connotato altresì da giudizi di valore (e dunque non scientifici) assurti erroneamente a dogmi esplicativi.
Ancora. L’errore che sta alla base del ragionamento del Prof. Kleeves, e di molti che come lui che si improvvisano sociologi o scienziati dell’ultima ora, risiede proprio nell’approccio conoscitivo: è cioè un errore di tipo epistemologico… egli ha in mente una teoria e la vuole a tutti i costi dimostrare dimenticando che:
– ogni teoria è scientifica solo nella misura in cui può essere falsificata (Popper);

– ogni teoria, o modello esplicativo, devono, per essere validi, tenere conto dei criteri di adeguatezza e validità esplicativa locale, non possono cioè presentarsi esaustivi nello spiegare la realtà nel suo complesso. “Se un modello (o una teoria) è adeguato per spiegare un certo problema, diverrà inutilizzabile su altri piani di realtà o per altri oggetti configurati entro altre categorizzazioni conoscitive” (A. Salvini, 1988, p. 31). Il presunto “complesso di inferiorità” cui attinge il Nostro potrà dunque essere utilizzato per scrivere un articolo circa le problematiche sessuali dell’uomo moderno occidentale ma non può essere applicato in un percorso conoscitivo inerente una tematica quale la criminalità.

In buona sostanza, se non si rispettano queste regole minime ogni teoria o modello teorico, perderà di valore, divenendo discorso di senso comune, smarrendo così il senso della propria funzione principale, quella cioè di essere essenzialmente strumento conoscitivo ed operativo. Ritornando alla complessità e ai processi di conoscenza, non dobbiamo dimenticare quanto Heisenberg aveva scoperto e successivamente formulato nel noto “Principio di indeterminazione”. Nella sua formulazione più comune, questa teoria dice che non è possibile misurare contemporaneamente e con arbitraria precisione la posizione e l‘impulso (e quindi la velocità) di una particella. O meglio quel che Heisenberg ha dimostrato, è che qualsiasi misura induce un errore sull’oggetto osservato. Tradotto in altri termini bypassando consapevolmente considerazioni su cui non mi voglio dilungare molto, si può dimostrare che il principio di Heisenberg non deriva da difficoltà tecnologiche, ma rappresenta una caratteristica della natura delle cose e dei processi conoscitivi, da cui deriva l’impossibilità di osservare un sistema senza alterarne i parametri osservati. Nel momento in cui osserviamo qualcosa stiamo modificando il nostro oggetto di conoscenza. Conoscere è un atto interpretativo e non un processo neutro di tipo “fotografico” volto a rappresentare una realtà esterna a noi, solida e monolitica.
Ciò vale a maggior ragione in un ambito così complesso quale quello del comportamento umano, e della devianza in particolare. Come è noto (ma forse non all’esimio prof. Kleeves e seguaci) le moderne teorie esplicative del comportamento deviante, hanno da tempo abbandonato quell’approccio di lombrosiana memoria che sembra accompagnare l’analisi del Nostro, per accedere a più idonei sistemi esplicativi di appannaggio antropomorfista (cfr A. Salvini, 1988) propri dell’approccio costruzionista ed interazionista. Secondo questo modello, ogni comportamento, per essere compreso, deve essere collocato all’interno della matrice dei significati che lo ha generato e non può prescindere dall’osservatore stesso che nel processo conoscitivo modifica l’oggetto stesso della sua conoscenza, più o meno consapevolmente.
Anche la scienza è un modo di vedere la realtà, dove per realtà intendiamo i diversi sguardi prospettici che si intersecano in una “fusione di orizzonti”. Il problema non è come si possa uscire dal cerchio delle nostre interpretazioni soggettive. Al contrario la soluzione sta proprio nella presa di coscienza della nostre pre-supposizioni.
In tale ottica si pongono le più moderne teorie sociologiche e in particolare quelle sviluppate attorno agli studi sulla devianza. Harrè, Lemert, De Leo, Salvini, per citarne solo alcuni, hanno proposto un modello di analisi del fenomeno delinquenziale che, esulando dal tentativo di trovare il “delinquococco”, sposta l’attenzione ai processi sociali, alle interazioni umane (formali ed informali), ai contesti entro cui queste si collocano e ai significati che in essi assumono i comportamenti.
Comprendere la devianza è un’impresa scientifica massiccia e ridurre il problema ad un’analisi semplicistica quale quella fatta dell’esimio professore non ci porta molto più lontano dai discorsi dell’uomo della strada. Il paradigma della complessità diviene qui un utile strumento per comprendere questo fenomeno. Becker, Lemert, Bandura e Matza ci forniscono utili concetti per in tal senso.
Dagli anni ‘60 circa si incomincia così a parlare di carriera deviante, di disimpegno morale, di neutralizzazione della norma ed etichettamento sociale.. Senza entrare nel merito di ognuna di queste teorie, ciò che pare utile sottolineare ai fini della nostra analisi, è lo spostamento del focus attentivo, operato questi studiosi, dal tentativo di trovare le cause all’interno dell’individuo (Lombroso) ad una maggiore attenzione ai processi relazionali, sociali e soprattutto conoscitivi. Si va così a costruire un concetto di devianza intesa non più come comportamento patologico della persona bensì come processo che coinvolge differenti attori sociali (ecco dunque la complessità) che si struttura all’interno di un tessuto normativo e relazionale storicamente e culturalmente collocato, all’interno del quale è importante, ai fini della comprensione del fenomeno, prestare attenzione sia al comportamento (che il contesto connota come deviante) che alla risposta sociale che ne consegue. Ciò che viene così a costituirsi è un’immagine della devianza come “carriera”, costituita cioè da una serie di tappe. Un processo attivo che si sviluppa e si dipana attraverso varie fasi, concatenate a livello di significato ma suscettibili di interruzione o prosecuzione a seconda di diversi e importanti fattori tra i quali la risposta sociale stessa. Non esiste un gene della devianza, professore, la cui spiegazione possa essere trovata nel passato storico di una nazione. La devianza è un percorso che parte dalla violazione di una norma, socialmente riconosciuta e condivisa, una violazione la cui caratteristica fondamentale è quella della visibilità sociale (si veda Lemert, devianza primaria e secondaria), e che si inserisce all’interno di una serie di possibili risposte formali. Goffman, appartenente alla famosa scuola di sociologia di Chicago, sottolinea bene nelle sue opere come spesso è nella risposta sociale stessa che si struttura la carriera deviante. Sono proprio le leggi, le errate e superficiali teorie pseudo-scientifiche e di senso comune nonché le istituzioni stesse create dalla società per prevenire, reprimere e curare la devianza a divenire la ragione che sostiene e supporta la devianza stessa.

E proprio a tale proposito vale la pena sottolineare come l’equazione clandestino = criminale è del tutto aleatoria e foriera di conseguenze nefaste. Se il fenomeno della clandestinità introduce quello dell’illegalità e della criminalità è perché forse, come sostiene Dal Lago, è necessario ripensare in maniera sostanziale al fenomeno migratorio, alle teorie interpretative a e alle conseguenti politiche di gestione dell’immigrazione stessa. Viviamo comodamente e acriticamente in un’epoca dove la gente si riempie la bocca di concetti quale quello di “globalizzazione” senza tuttavia essere riusciti a giungere ad una normativa civile e coerente in materia di Stranieri e migrazioni. Va da sé che l’immagine dello Straniero come Nemico, all’origine della filosofia politica moderna e dell’origine stessa di stato moderno, è alla base di monche e ideologiche rappresentazioni identitarie di chiara fattura xenofoba. In questo nostro Occidente “civilizzato” la normativa e la politica in materia di immigrazione ha ancora a che fare con paradigmi di esclusione dello Straniero, non riuscendo a ripensare il legame sociale in modo più costruttivo. Il risultato è che ancora oggi, quando si parla di immigrazione, si evocano scenari apocalittici che necessitano di feroci interventi polizieschi. Il mondo contemporaneo, come suggerisce Pier Aldo Rovatti, è attraversato dall’ansia di ricostruire identità chiuse e perfette, religiose, etniche, territoriali o economiche che siano. Il migrante, lo straniero che viola i confini territoriali minaccia i confini identitari della Nazione e del Singolo. Da questa premessa scaturiscono discorsi giuridici e prassi operative (politiche e sociali) che a partire dalla paura dello straniero, del Diverso, lo fanno diventare il Nemico da odiare, la causa della crisi sociale, un problema di ordine politico da gestire solo ed esclusivamente a livello di polizia locale o internazionale.
Il ragionamento è Migrante = clandestino = criminale.
Il pregiudizio di fondo che muove l’analisi dell’esimio professore è proprio quello che appartiene al senso comune: se uno è clandestino allora vuol dire che è fuori legge, dunque è pericoloso. Ecco allora che il Professore, insieme ad altri piccoli uomini della televisione o del mondo politico, si fanno d’un tratto grandi uomini, assurgendo al ruolo di “imprenditore morale” colui cioè che a vario titolo difende e “vendica” la società e i suoi simili, e che tramite discorsi e azioni trasforma e legittima opinioni di senso comune in azioni di violenta repressione, avallato da un sentire morale socialmente condiviso, legittimato da uno pseudosapere scientifico. E’ infatti proprio grazie ad analisi quale quella illustrata dal professore che si arriva a conseguenze estreme quali quelle previste dalla legge Bossi-Fini: militarizzare il controllo delle frontiere e impedire l’accesso ai clandestini (criminali) anche a suon di mitragliate… E cosa c’è di tanto diverso tra la violenza perpetrata attraverso questo comportamento e quella da lei giudicata come inaccettabile?
Professore mi dica, esiste una violenza accettabile? Quale la differenza tra questo atteggiamento e il comportamento perpetrato dai tanto odiati albanesi, se non l’arroganza di chi si pone dalla parte del giusto, della legge e della democrazia e per questo si sente in diritto di esercitare un’altrettanto esecrabile violenza mosso dal superiore interesse dello stato nel tentativo di riportare lo status quo. Ma questo è un classico esempio di disimpegno morale, una bieca forma di autogiustificazionismo che oltre a non aggiungere in termini intellettuali nulla al discorso scientifico in corso, non risolve il diffuso e generalizzabile problema della criminalità. Ancora sono qui a chiederle professore, se secondo lei (domanda retorica poiché desumo la risposta dal suo scritto) esiste una criminalità più buona di un’altra, se per caso lei pensa che le stragi che hanno toccato in altri tempi il nostro Paese (penso alla strategia della tensione dei famosi anni di piombo) e i delitti e le esecuzioni di mafia che ancora oggi colpiscono le nostra cultura (ricorda negli ultimi tempi quante persone sono morte a Secondigliano e dintorni?) sono forse forme di criminalità migliore rispetto a quella da lei analizzata?

Che male che fa professore sentire discorsi come il suo. Soffro, intellettualmente, culturalmente e soprattutto come persona.

E poi Professore, la prego, non citi il Kanun senza possedere conoscenze approfondite in merito. Piuttosto incominci a leggere qualche libro di penna albanese. Sa, non tutti in Albania utilizzano come unico prolungamento della mano il Kalashnikov…. conosce ad esempio “Aprile spezzato” di Ismail Kadarè? E dello stesso le potrei citare, come utile lettura d’approfondimento, anche un altro testo dal titolo “Il generale dell’armata morta”, che racconta le gesta dei soldati italiani nella terra delle aquile….

Riassumendo e concludendo non voglio assolutamente negare il problema della criminalità, tuttavia dando una rapida scorsa ai dati statistici provenienti da fonti riconosciute (www.giustizia.it), e non da giornaletti locali che sbattono il mostro in prima pagina con l’unico fine di vendere qualche copia in più, non ci pare che l’allarme del professore abbia serie e concrete ragioni di esistere. La criminalità albanese non supera quella italiana ….ma che glielo dico a fare?!
Ripeto…. Un crimine è una violazione del patto sociale. Come può esserci una criminalità buona (quella italiana?) ed una cattiva (quella albanese?) suvvia professore…. Faccia il serio!!!
Aggiungo in ultimo, per entrare nel merito della problematica albanese e precisando che da anni mi occupo del fenomeno della devianza e della criminalità essendo esperta in psicologia giuridica, che dagli anni ‘90 l’Italia in collaborazione con il governo albanese ed alcune ONG locali, ha messo in atto un piano di intervento massiccio (più o meno opinabile ma questo è un altro discorso) finalizzato ad interrompere dapprima il flusso di scafi nel canale d’Otranto (infatti quelli provenienti dall’Albania sono quasi del tutto scomparsi) e poi volto alla strutturazione programmi di rimpatrio assistito per quei giovani (minorenni) che si trovano in Italia senza permesso di soggiorno. Sono così stati avviati interventi atti a incentivare la permanenza dei giovani albanesi in patria attraverso l’incremento di corsi di formazione professionale con avviamento al mondo del lavoro che andando ad incidere su uno dei fattori che sottostanno al fenomeno migratorio (il miglioramento delle proprie condizioni di vita) rivelano l’interesse anche del governo albanese a gestire il problema della criminalità e degli esodi di massa in maniera intellettualmente ed operativamente più adeguato di un mero e superficiale intervento di operazione poliziesca.

…e ora mi fermo qui, perché ho come la sensazione che lei professore, e i lettori di questo sito, non abbiano alcun interesse ad approfondire la questione, intenzionati solo ed unicamente a cercare assensi volti a confermare il proprio punto di vista, poco o per nulla interessati ad aprirsi a nuovi orizzonti conoscitivi.

Cordiali Saluti
Francesca Fiorentino

15.06.05

Note

– E noto che quando si fa ricerca la citazione delle fonti, teoriche e statistiche, è di fondamentale importanza per dare credibilità scientifica all’articolo.

– L’Epistemologia è una branca della filosofia che studia i processi di conoscenza e fornisce criteri circa le caratteristiche che una teoria dovrebbe avere per essere un’asserzione scientifica a tutti gli effetti.

– Si veda, per approfondire la legge in materia di immigrazione: L. 39/90 “Legge Martelli”; L. 286/98 “Legge Turco-Napolitano”; L. 40/98 “Disciplina sull’immigrazione e norme sulla condizione di straniero”; e la Legge Bossi-Fini, che introduce il controllo militarizzato delle frontiere.

– Si veda, in tema di minori stranieri e immigrazione clandestina, l’interessantissimo testo dal titolo “Il male minore”, di G. Petti, Ed. Ombre Corte

Suggerimenti bibliografici

– Ciacci M. (a cura di) Significato e interazione: dal behaviorismo sociale all’interazionisno simbolico, (1983) Il Mulino, Bologna

– Lemert E.M. , Devianza problemi sociali e forme di controllo, (1981), ed. Giuffrè, Milano

– Goffman E. La vita quotidiana come rappresentazione, (1969), Il Mulino, Bologna.

– Goffman E. Stigma, L’identità negata, (1970), Laterza, Bari.

– Salvini, Fiora, Pedrabissi, Pluralismo teorico e pragmatismo conoscitivo in psicologia della personalità, 1988, Ed. Giuffrè.

– Berger e Luckmann, La realtà come costruzione sociale, 1971

– Matza, Come si diventa devianti, 1969

– Leyens, Psicologia del senso comune, 1969, Ed. Giuffrè.

– Alessandro Dal Lago, Non Persone – L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli 1999

Filmografia

Per approfondire l’aspetto inerente il processo di costruzione sociale della devianza e il ruolo dei mass media suggerisco la visione del documentario di G. Chiesa “Sono stati loro, 48 ore dopo la strage di Novi Ligure”, Fandango, 2003. (www.fandango.it)

LA REPLICA DI JOHN KLEEVES

  Replica rimossa su richiesta di Kleeves

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