DI MASSIMO FINI
Credo di aver visto raramente un provvedimento così sgangherato e assurdo come il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche che il governo, dopo il rifiuto di Ciampi di farne un decreto, si appresta a presentare in Parlamento. Si vede che è stato proprio Berlusconi a prepararlo “di suo pugno” come il premier, furibondo per essere rimasto impigliato indirettamente in qualche intercettazione relativa al caso Bankitalia, aveva promesso, quest’estate dalla Sardegna. Il disegno prevede che, tranne che per i reati di mafia, di terrorismo e pochi altri come l’omicidio, non possano essere intercettate persone che non siano già indagate. Ma le intercettazioni servono proprio, in prima istanza, per individuare quelle persone che si sospetta possano aver commesso un reato ma sulle quali non esistono ancora indizi sufficienti per iscriverle nel registro degli indagati. Non potendole quindi indagare con strumenti efficaci come le intercettazioni, costoro non saranno mai indagati. Solo in un secondo momento le intercettazioni servono per raccogliere ulteriori elementi di prova su soggetti già indagati, che è invece l’ipotesi a cui il progetto di legge restringe la possibilità dell’uso di questo strumento. Inoltre il disegno “di pugno” di Berlusconi prevede una misura ancor più ridicola: chi non è indagato e viene intercettato per via indiretta dovrà essere avvertito con raccomandata con ricevuta di ritorno. Il che significa che il “non indagato” avvertirà immediatamente l’amico che è sottoposto ad intercettazioni che, appunto, lo stanno intercettando e che costui, messo sull’avviso, si guarderà bene dal proferir verbo quando parla al telefono. Ciò renderà inutili le intercettazioni anche su chi è già indagato. Bel colpo. Il problema non sono le intercettazioni legittimamente disposte dalla magistratura, ma la loro divulgazione sulla stampa o in tv, perché possono esporre al ludibrio mediatico anche persone che non c’entrano nulla con le indagini in corso ma il cui nome, per qualche motivo, compare nelle intercettazioni. Poiché, attualmente, pochi atti sono secretati e gli altri sono pubblici, il giornalista è legittimato a divulgarli.
E dopo che non può sapere chi, fra le persone il cui nome compare in una intercettazione, è soggetto a indagini e chi no, divulga anche le conversazioni, magari molto private e intime, di chi in realtà non ha nulla a che fare con le indagini.
L’unica soluzione è tornare al vecchio sistema del segreto istruttorio che vigeva prima della riforma di Gian Domenico Pisapia dell’89 per cui fino al dibattimento la maggioranza degli atti è coperta dal segreto e chi, pubblico ufficiale (magistrati, cancellieri, polizia giudiziaria) o giornalista, ne divulga il contenuto commette reato. Che deve essere sanzionato, questo sì, con pene molto più adeguate di quelle previste che ai giornalisti comminava, come l’attuale disegno di legge, solo pene pecuniarie di cui un grande giornale può farsi un baffo decidendo, se la notizia è ghiotta, di pagarne il prezzo. Per cui se dovesse rientrare in vigore il vecchio segreto istruttorio dovrebbe essere prevista anche per il giornalista la pena della reclusione, che lo spaventa molto di più dei 5000 euro comminati dal “disegno Berlusconi” e che gli verranno pagati dal suo giornale. E se Berlusconi, nel suo sgangheratissimo disegno, non ha previsto una pena carceraria per i giornalisti è solo per demagogia, per non incorrere nelle ire corporative della nostra categoria.
Massimo Fini (www.massimofini.it)
Fonte:www.ilgazzettino.it
12-09.05
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