DI MAURIZIO BLONDET
“Usa incoraggiati dall’alto afflusso alle elezioni in Vietnam. L’83 per cento dei sud-vietnamiti ha votato nonostante la campagna terroristica dei Vietcong”.
E’ il titolo di un vecchio articolo del New York Times, del 4 settembre 1967 (1). Furono eletti il generale Nguyen Van Thieu, candidato alla presidenza, e il generale Nguyen Cao Ki, candidato alla vicepresidenza: entrambi già governavano il Paese di fatto, dopo il golpe che aveva rovesciato Ngo Dinh Diem.
“Ora gli Usa sperano che il [nuovo] governo potrà agire con una legittimità da tempo mancante in Vietnam”, diceva il New York Times, confrontando l’alto afflusso dei vietnamiti con quello molto inferiore – il 62 per cento – delle elezioni presidenziali Usa nel 1964. “Da documenti intercettati e vari interrogatori è emerso che i capi vietcong guardavano al voto con serio allarme, e avevano pianificato un grosso sforzo per rendere le elezioni prive di significato. Non ci sono riusciti”. Le elezioni in Irak hanno suscitato lo stesso tipo di commenti esultanti. “Ora i terroristi sanno di non poter vincere”, ha dichiarato il premier ad interim (ed ex agente della Cia) Allawi. In Occidente, la comparsa della “democrazia” e di un coraggioso elettorato in Irak ha provocato qualche crisi di coscienza persino a sinistra. Alberto Asor Rosa non credeva che la democrazia potesse essere imposta con le armi dell’occupante. Si è ricreduto quando ha visto in tv “file di donne in chador che aspettavano di votare”.
Ecco il problema: le posizioni della sinistra come della destra, in Italia come in Europa e in Usa, si formano non in base ad analisi e conoscenze, ma alle emozioni create dalle immagini televisive. Il problema è che la tv – quando non è mera propaganda – esibisce un’apparenza, senza spiegare cosa sta dietro le immagini. Forse Asor Rosa non avrebbe cambiato così totalmente idea, se avesse saputo cosa muoveva le elettrici in chador. L’ayatollah Al Sistani, per spingere le donne a votare, aveva emesso una fatwa così concepita: votare è più meritevole che il pellegrinaggio alla Mecca.
Ciò, s’intende, non sminuisce il valore del voto iracheno, ma ne muta il significato. E aiuta a capire che il senso delle elezioni per gli occidentali – individualità con idee politiche private – non è lo stesso in una società che risponde a strutture d’autorità tradizionali, tribali e religiose. Le donne col chador non hanno “opinioni politiche”, hanno i mullah, i capi-kabila, e gli interessi del gruppo cui appartengono. Questo cambia tutto.
Con certezza, si può dire che gli iracheni hanno votato per l’autogoverno, quindi contro l’occupazione Usa. E hanno votato contro “al Zarkawi”, l’etichetta dietro cui molti di loro dicono si celi il Mossad. E’ stato infatti “Al Zarkawi” a trasformare il voto in un referendum pro o contro la democrazia, definendo nel suo ultimo proclama l’esercizio del voto una frode, anzi un’apostasia. Chiunque sia in realtà, “Al Zarkawi” si è presentato come straniero (sarebbe un giordano), un laico e un sunnita ferocemente anti-sciita: il suo ascendente sugli sciiti iracheni è pari a zero, e la sua autorità religiosa, agli occhi di gente che si riferisce ai suoi ayatollah, è nulla.
Ma cosa precisamente hanno votato gli iracheni? Hanno dovuto votare alla cieca, senza conoscere neppure i nomi dei 7700 candidati, men che meno i programmi. Dai sondaggi risulta che metà dei votanti credevano di dover eleggere un presidente, il che non è. Hanno eletto, lo sapessero o no, un’assemblea nazionale transitoria che avrà come compito principale quello di stilare una costituzione.
I sunniti, benchè abbiano disertato le urne (per ordine dei loro capi e notabili), parteciperanno comunque alla formazione del processo costituzionale, con un peso che non avrà alcuna relazione con la loro forza elettorale. Lo stabilisce la “legge-base” approvata a marzo scorso, la quale sancisce che la nuova costituzione dovrà essere sottoposta a referendum, e sarà liquidata se la rigetteranno tre provincie. Questa clausola è stata scritta dagli americani per dare alla minoranza curda (la fedele collaborazionista) un potere di veto su una costituzione per loro inaccettabile; ma finisce per dare un simile potere di veto anche ai sunniti.
Ciò significa che, in conclusione, il risultato finale e l’assetto dell’Irak non sarà deciso da un voto popolare, ma dagli accordi previi che riusciranno a stabilire i maggiorenti delle tre componenti etnico-religiose: gli abziani, i capi-kabila, i mullah. Negoziati febbrili e molto orientali in questo senso sono già in corso. Mercanteggiamenti, collusioni, compromessi. William Pfaff, un commentatore molto autorevole (2) dell’Herald Tribune, ritiene che una cosa accomuni i maggiorenti di ogni kabila o fede: il rigetto della guerra civile. Tutti convergono nella necessità di formare al più presto un governo di unità nazionale, che sia in grado di chiedere agli americani di togliere l’incomodo.
Non è ciò che vogliono gli americani, interessati a perpetuare la loro presenza nel Paese con la scusa del pericolo di guerra civile. Non è ciò che vuole Israele, che ritiene utile smembrare i Paesi arabi in provincie etnico-religiose senza peso militare. In questa situazione, è da decifrare la strana, esplosiva criminalità che travaglia l’Irak e rende la vita impossibile agli iracheni: bande di delinquenti che rapiscono per esigere riscatti anche donne e bambini, rapinatori di auto, violentatori di donne. Questa criminalità è in parte importata: si parla per esempio di “mafia russa”, il che significa “mafia ebraico-russa” in azione in Irak. E non sembra affatto “spontanea”. Chi la teleguida, ha evidentemente in mente un modello atroce. Che non è il Vietnam del 1967, ma la Somalia: ingovernabile e sanguinoso caos percorso da bande, l’anarchia senza fondo dei signori della guerra.
Note
1) Peter Grose, “US encouraged bi Vietnam vote: 83% turnout despite Vietcong terror”, New York Times, 4 settembre 1967.
2) William Pfaff, “The only option for Iraq”, International Herald Tribune, 31 gennaio 2005.
Maurizio Blondet
Fonte: www.effedieffe.com
2.02.05