DI ROB HOPKINS
transitionnetwork.org
La principale lettura estiva di quest’anno è stata l’ultimo libro di Dan Brown o forse anche l’ultimo lavoro di JK Rowling, che prima non era suo, o poi era suo… La mia lettura quest’anno si è concentrata su Vincent Van Gogh. Essendo insegnamento e apprendimento i temi centrali di questo mese, da queste letture mi è rimasto un pensiero: come ha fatto a diventare così bravo? Come ha fatto a diventare uno degli artisti tra i più raffinati e influenti del mondo? Forse aveva seguito un corso di “Come-Diventare-Un-Artista-Mondiale” all’università, poi magari un master e un dottorato, accumulando una montagna di crediti durante tutto il percorso? E se così non è stato, come ha fatto a diventare così bravo? E noi, cosa possiamo imparare dalla sua storia?Una delle mie letture di quest’estate è stata Vincent Van Gogh The Drawings, uno splendido catalogo di una mostra al Metropolitan Museum of Art di New York. I suoi lavori a inchiostro sono molto meno noti dei suoi famosi dipinti a colori ricchi e vibranti, eppure mi hanno portato alle lacrime per la loro assoluta bellezza. Questo mio post è più che altro un pretesto per condividere alcuni di questi suoi lavori con voi, oltre ad essere un’opportunità per riflettere su apprendimento e insegnamento. L’altro libro che ho letto è stato La casa Gialla; Van Gogh, Gauguin e nove settimane turbolente ad Arles di Martin Gayford, libro che raccomando molto. Volevo capire come era riuscito a dipingere con tanta maestria, abilità, profondità e appassionata dedizione.
Van Gogh decise di essere un artista nel 1880. Ispirato dai disegni che apparivano su giornali e riviste, decise di guadagnarsi da vivere facendo l’illustratore. Fu anche ispirato da un artista che insegnava pittura nelle scuole. Iniziò copiando il lavoro di altri artisti, imparando le tecniche da libri del tipo “Imparare a dipingere”, copiando statue di nudi e leggendo qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani su anatomia e prospettiva. A quei tempi, molti artisti dell’epoca (Renoir, Manet ecc.) intraprendevano dei rigorosi percorsi di apprendimento, divenendo alla fine degli abilissimi artisti. Van Gogh, ed altri come Gauguin, seguirono una strada diversa. Come scrisse Martin Gayford in “La Casa Gialla”, “..Vincent era un autodidatta e fu proprio questo che lo rese aperto alle innovazioni di ogni tipo: stilistiche, spirituali e tecniche.”
L’apprendimento di tipo formale non gli si addiceva, anche se fece comunque un tentativo in questo senso. Si iscrisse alla Academie Royale des Beaux Arts di Bruxelles, ma non ci sono tracce di una sua assidua frequentazione. Non sappiamo neanche se mai andò ad una lezione, il più delle volte se ne stava da solo a lavorare, seguendo il Catalogo dei Dipinti, una sorta di “percorso che aveva elaborato da se stesso”. Nelle sue lettere scrisse che “dipingere è una lotta, dura e difficile”, ma lui perseverò, passando da un periodo di profondo fervore religioso fino alla perdita della fede, dopo che la sua famiglia aveva ostacolato una sua proposta di matrimonio.
Passò molto tempo a disegnare, provando diversi approcci ed esperimenti. Più tardi ritentò la strada accademica, iscrivendosi alla Académie des Beaux-Arts di Anversa. Superò anche degli esami di Pittura, nonostante il suo odio per l’insegnamento accademico. La più grande influenza sul suo lavoro la ebbe lo studio sulle teorie del colore dei suoi tempi, attraverso la consultazione di libri, passando molto tempo nei musei studiando Rubens e acquistando nei porti diverse incisioni in legno giapponesi, una nuova forma di arte che modificò notevolmente la sua impostazione artistica. Trascorse molto tempo con un suo cugino acquisito, il pittore Anton Mauve, che gli insegnò a dipingere ad olio e ad acquarelli. Poi si separarono: Van Gogh cercava l’ispirazione e l’apprendimento ovunque, lo divorava e poi passava ad altro.
La goccia che fece traboccare il vaso, nel suo rapporto conflittuale e volatile con il mondo accademico, fu il consiglio che ricevette ad Anversa da uno dei professori, secondo il quale lui avrebbe dovuto passare un altro anno all’Accademia solo a dipingere da calchi in gesso, invece che da soggetti reali.
Come scrisse Phoebe Pool in Impressionism:
“Considerando i pochi anni che avrebbe vissuto e il modo straordinario in cui li trascorse, per fortuna non diede ascolto a quel consiglio idiota”.
Iniziò ad utilizzare colori più brillanti, ispirandosi alle stampe giapponesi (disse, in seguito, che “..tutto il mio lavoro si basa per la maggior parte sull’arte giapponese”) e ai pittori impressionisti, ma fu quando in seguito si trasferì a Parigi che il colore entrò prepotente nella sua vita, spazzando via le incerte tonalità terrestri dei suoi primi lavori del periodo olandese.
Inizialmente, andò a Parigi con l’intenzione di scambiare idée con altri pittori e perchè voleva vedere i lavori dei grandi maestri e di altri pittori tradizionali. Voleva anche imparare di più sul colore e come fare per introdurlo nella sua arte. Andò ad una mostra di Monticelli dove fu abbagliato dal colore, incontrò Pissarro, che lo ispirò nell’utilizzo di colori puri e brillanti. Frequentò impressionisti e studiò le teorie del colore, divenendo un “fervente colorista” (come si autodefinì). In seguito, Pissarro disse che non appena incontrò Van Gogh sentì che o sarebbe diventato matto o avrebbe superato di gran lunga tutti i maggiori artisti del tempo, “..ma non immaginavo che sarebbe diventato entrambe le cose”.
Le sue abilità artistiche crebbero rapidamente e il suo lavoro si trasformò notevolmente durante il suo periodo parigino.
Tuttavia, dopo due anni, Parigi divenne troppo per lui. Sognava un posto “ritirato e pacifico, dove uno può ritemprarsi, calmarsi e ricomporsi”. Si trasferì quindi ad Arles, nel sud della Francia, con l’intenzione di dare il via a uno “Studio del Sud”, con un gruppo di artisti, vivendo in un ambiente monastico, immaginando e poi creando un nuovo movimento artistico che avrebbe ridefinito l’arte. Le luci ed i colori che trovò in questo luogo lo influenzarono fortemente, riportando alla sua memoria le incisioni giapponesi su legno.
Ad Arles continuò a sperimentare. Si spinse fino allo sperimentare il modo di utilizzare il colore, introducento il pennino a inchiostro, che si fabbricava lui stesso utilizzando delle canne di giunco locale. Aveva già utilizzato il pennino in Olanda, ma come scrisse a suo fratello Theo in una lettera che accompagnava il suo primo dipinto a inchiostro (Frutteto con Arles sullo sfondo, dipinto qui sopra):
“Questi dipinti sono stati fatti con giunchi affilati alla maniera delle penne d’oca: intendo creare una serie di questi pennini, spero di farne di migliori dei miei primi due. E’ un metodo che ho provato in Olanda tempo fa, ma lì non c’erano canne buone come queste”.
E’ in questo periodo che Van Gogh esegue, secondo me, i suoi dipinti più straordinari. Eccone alcuni:
Ma cosa possiamo trarre dalla storia di Vincent che possa illuminare le nostre discussioni sull’insegnamento e l’apprendimento di questo mese? In primo luogo, che Van Gogh si è tracciato da solo il proprio percorso di apprendimento. Ha colto qua e là, come un collezionista, da diverse fonti, ciò che aveva bisogno di imparare. E quello che aveva ancora bisogno di imparare lo ha cercato nei libri, nei corsi e tra gli artisti.
Aveva un’inesauribile sete di sperimentazione. Era aperto all’utilizzo del pennino a inchiostro anche molto tempo dopo averlo già utilizzato e a re-immergersi nelle sue possibilità. Si tuffò nel colore e, avendone appreso le teorie, lo portò a livelli ancora inesplorati. Quando Gaugin visse con lui alla “Casa Gialla” (le nove turbolenti settimane che terminarono con un esaurimento nervoso di Vincent che si tagliò l’orecchio da solo), Vincent sperimentò l’approccio di Gaugin di non dipingere a partire dalla realtà, ma dal sogno, dall’immaginazione, anche se poi alla fine finì con il non adottarlo più. Prese quello che gli serviva di prendere anche dal mondo accademico, senza lasciarsi cambiare da questo. Era un convinto sostenitore dell’apprendimento attraverso il fare, dello sviluppo delle proprie capacità attraverso la pratica, arrivando a sfornare anche un dipinto al giorno, disegni e lettere. Era anche un vorace lettore e amava discutere le idee, talvolta arrivando anche alle mani.
Ma più di ogni altra cosa, aveva la passione. Lo voleva davvero fare, voleva cambiare l’arte. Voleva cogliere le cose nel modo in cui lui le vedeva, anche se è stato spesso definito il “pittore pazzo” e ha davvero sofferto di squilibrio mentale (la diagnosi più condivisa fu la bipolarità, passava cioè da momenti di grande euforia a momenti di profonda tristezza). Quando era lucido, cioè la maggior parte del tempo, lo era talmente che vedeva il mondo, la luce e i colori con tale intensità che i paesaggi vibranti dei suoi dipinti non possono essere considerati il lavoro di un folle, ma di uno che vede il mondo con una sorprendente chiarezza, cosa che la maggior parte di noi si può solo sognare.
Nel suo “percorso di apprendimento” vedo qualcosa di simile al mio (anche senza essermi tagliato un orecchio da solo, senza la dipendenza dall’assenzio e senza quel carattere volubile e imprevedibile che aveva). Ho avuto l’ispirazione pensando che la crisi ambientale aveva bisogno di una risposta, e ho iniziato a guardarmi intorno e a cercare quello che mi serviva per attrezzarmi nel migliore dei modi.
Questo ha compreso anche studi accademici, ma anche la frequentazione di corsi di edilizia naturale, voraci letture, corsi di tecniche di insegnamento, l’apprendimento dell’uso del Pc da persone che lo utilizzavano e lo conoscevano, e tanto, tanto tempo dedicato a fare, provare, riprovare, coltivare, costruire, tentare e ritentare. E in quel tempo passato a fare pratica, era lì il cuore dell’apprendimento.
Mi colpisce molto il fatto che la cosa più importante sia la passione d’imparare, la capacità di coltivare questa passione, questa fame, questo desiderio di impadronirsi di un’arte, di creare qualcosa di nuovo nella nostra esistenza. L’insegnamento, secondo me, ha un dovere: quello di, dove possibile, generare passione fin dalla più tenera età. O perlomeno l’insegnamento non dovrebbe mai e poi mai sminuire, scoraggiare, sradicare ed umiliare una passione che già esiste. Una volta che è nata una passione, come fosse un sistema auto-organizzato, dovremmo guardarci intorno in cerca di quello che ci serve, insegnando a noi stessi. Credo che il non riuscire a generare passione sia il più grande fallimento della professione di insegnante.
Le attuali tendenze nel campo dell’insegnamento lavorano sia a favore sia contro tutto questo. Al livello scolastico, tutto gira sempre più intorno al “superare gli esami”, al “raggiungere il traguardo”, elevare le statistiche di rendimento della scuola, e sempre meno intorno alla generazione di una passione, all’apprendimento e alla capacità di risolvere dei problemi. Non si corrono dei rischi, ma s’impara quello di cui uno ha bisogno per riuscire a superare il prossimo esame.
Recentemente parlavo con dei miei ex tutor dell’università che ho frequentato, e questi lamentavano il fatto che gli studenti di oggi vogliono imparare quello che gli serve per avere un buon voto, trascurando completamente la voglia di discutere e dibattere le idee. Eppure oggi i corsi disponibili sono sempre più flessibili ed è quindi più facile per ognuno tracciarsi un proprio percorso di apprendimento.
Questo mese avremo occasione di sentire alcuni importanti educatori di Transition sulle loro esperienze di insegnamento in luoghi inusuali, su quello che occorre per essere un buon educatore e su nuovi corsi che presto saranno disponibili. Sentiremo come Transition si stia diffondendo in Giappone e ascolteremo anche le vostre storie su come questo tipo di apprendimento ha cambiato le vostre vite. Avremo anche alcune interviste importanti: questo mese inizieremo con una conversazione con il Dr. Nafeez Ahmed.
Quindi, mentre ci auguriamo che non sia questo il mese in cui finirete con lo scegliere un percorso formativo talmente rivoluzionario da perdere tutti i vostri amici, vivere in povertà, non dormire mai e finire con l’essere oggetto di una pietosa petizione da parte degli abitanti del luogo in cui sarai (che è quello che accadde a Van Gogh verso la fine dei suoi giorni alla Casa Gialla), speriamo invece che sia questo il mese che ispiri una diversa visione dell’ apprendimento, di riuscire a comprenderla a fondo e metterla in pratica sempre al meglio. E’ chiaro che alcuni aspetti “intrinsechi” di Transition entreranno in gioco per evitare che voi smettiate di prendervi cura di voi stessi e vi consumiate fino all’esaurimento, cosa che Van Gogh fece fino all’estremo (…ciò che lui era).
Come si è chiesta Isabel Carlisle nel suo articolo di Luglio (1):
“Se il futuro per il quale stiamo educando i giovani del nostro tempo non sarà il futuro che realmente arriverà, come possiamo adeguare il nostro monolitico sistema educativo? Qual è la preparazione e le attitudini necessarie per un mondo in profonda contrazione economica, costi energetici in aumento, degrado ambientale e cambiamenti climatici? Abbiamo forse tracciato la nostra rotta seguendo una Stella Polare fasulla?”
La Stella Polare di Vincent era chiara. Voleva trasformare l’arte, cosa che gli riuscì, ma solo dopo la sua morte. Qual è la tua Stella Polare, e come pensi di volerla raggiungere? Vorrei concludere con uno dei disegni a inchiostro di Vincent Van Gogh che preferisco, “Vista di Arles, con iris in primo piano” . Bellissimo. Forse… ho trovato la mia Stella Polare. Riuscire a dipingere così…
Rob Hopkins
Fonte: http://transitionnetwork.org
Link: http://transitionnetwork.org/blogs/rob-hopkins/2013-09/what-van-gogh-can-teach-us-about-education-and-learning
2.09.2013
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63
1) http://www.resilience.org/blogs/rob-hopkins/2013-07/one-year-transition-and-power-alternatives-university