“Contro il Venezuela un assedio per riportarci al colonialismo”. Intervista alla deputata Tania Díaz

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di Geraldina Colotti

Tania Díaz, nota giornalista e dirigente politica della rivoluzione bolivariana, ha ricoperto diversi incarichi sia durante i governi di Hugo Chávez che in quelli di Nicolás Maduro. Attualmente è a capo della Commissione Propaganda Agitazione e Comunicazione del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), deputata all’Assemblea nazionale, e continua a condurre il popolare programma radiofonico Dando y Dando.

Cosa significa stare in prima linea durante un attacco multiforme e continuato come quello a cui deve far fronte la rivoluzione bolivariana? Quali sono stati i momenti più difficili?

Nei suoi vent’anni di vita, la rivoluzione bolivariana è stata oggetto di un’aggressione continua, ovvero di una strategia di guerra permanente, prima contro il comandante Chávez e ora contro il presidente Nicolás Maduro, poiché entrambi incarnano e guidano il processo di profondi cambiamenti che sta vivendo il Venezuela. Una rivoluzione che il popolo venezuelano si è dato, da protagonista, e che implica uno scontro di modelli. Un cambiamento che ha ribaltato le regole della politica nazionale nel 1998, attraverso i canali elettorali, e che continua per la via democratica, in senso opposto a quello dei grandi capitali transnazionali e delle oligarchie locali che vi si sottomettono. Ecco perché l’aggressione è sempre stata continua e spietata, con picchi molto duri come quelli vissuti alla fine del 2001, aprile 2002 e all’inizio del 2003. Furono anni di profonde turbolenze contro il comandante Chávez per aver preso il governo di aree nevralgiche dell’economia nazionale, come la terra e il petrolio, quando la Legge fondiaria e la Legge sugli idrocarburi furono approvate appena all’inizio del suo mandato. Quando queste leggi furono approvate, l’oligarchia e i suoi mandanti del nord decisero di agire contro Chávez: perché non erano disposti a lasciarsi strappare quella ricchezza che significava, per loro, la garanzia di sopravvivenza egemonica, e per noi rivoluzionari e rivoluzionarie un passo da gigante verso l’emancipazione e la sovranità. Sono stati momenti difficili.

È stata anche un’aggressione nello spazio politico e comunicativo. Abbiamo dovuto resistere negli unici due media ufficiali che esistevano all’epoca, Venezolana de Televisión e Radio Nacional de Venezuela. Onestamente, per la nostra esperienza nella comunicazione e nel giornalismo, la cosa più difficile è stata vedere quel fiume di odio sprigionarsi attraverso tutti i media disponibili all’epoca, vedere come quella strategia di propaganda di guerra riuscisse a inocularsi in settori della popolazione che non ci riconoscevano più come loro fratelli, che erano disposti ad attaccare violentemente con tutte le loro forze altri venezuelani e venezuelane, che non si riconoscevano più loro stessi come venezuelani e venezuelane, che si stava perseguitando una parte della popolazione. Vedere quella manifestazione di odio e violenza deflagrare senza freno attraverso i diversi canali di comunicazione e anche per le strade del paese, è stato per noi sorprendente. Era la prima volta che lo vedevamo in modo così sfacciato e aperto, come risultato di una strategia di propaganda di guerra contro il paese che si è aggiunta a un colpo di stato economico – hanno paralizzato e sabotato Petróleos de Venezuela – e a una prolungata e illegale insurrezione contro il quadro istituzionale del Paese.

Indubbiamente, allora abbiamo vissuto il preludio di una guerra. L’intera scena è stata impostata per scatenare una guerra fratricida, una guerra civile che avrebbe realizzato gli obiettivi delle grandi potenze interessate a rubare la ricchezza venezuelana, che doveva porre fine alla rivoluzione bolivariana, invertire lo spostamento del potere dei settori oligarchici proni all’imperialismo e sottomettere la popolazione venezuelana, annullare la speranza di milioni di persone che, per mano del comandante Chávez, avevano riconquistato il diritto alla cittadinanza, alla dignità, all’orgoglio nazionale, alla ferma convinzione e all’azione – con il processo costituente – di essere padroni del proprio destino e di poter decidere il futuro del nostro Paese, della nostra comunità e della nostra famiglia. Questo è ciò che ha causato più dolore in quel momento, un momento molto duro della Rivoluzione, indubbiamente, ma anche molto bello perché abbiamo visto il risultato di tutta l’azione di creazione collettiva che avevamo costruito insieme a Chávez. Lì, come tutti sanno perché è già storia, il popolo venezuelano ha dato un’enorme lezione politica: quel popolo, armato della Costituzione, è sceso in strada con la Legge in mano, senza violenza, per la via elettorale democratica, per ripristinare il filo costituzionale.

L’altro momento molto difficile, il più difficile di tutti e senza dubbio il più triste, è stata la perdita fisica del comandante Chávez. Non ci è mai passato per la mente che il comandante Chávez potesse andarsene da questa terra, che fosse un essere umano e avesse una vita fisica limitata. La sua malattia fu un periodo di profonda riflessione. Lui stesso ha guidato il processo di introspezione e di revisione politica che abbiamo dovuto vivere come società per prepararci al momento in cui non sarebbe stato più in prima linea e non avrebbe più potuto guidarci personalmente ad ogni passo, com’eravamo abituati a fare da quasi due decenni. Attraverso la letteratura, ad esempio, il comandante Chávez ci ha parlato a suo modo della teoria dell’Eterno Ritorno di Nietzsche, ci ha fatto leggere la Bibbia, siamo entrati in un processo di re-incontro con l’essenza stessa della Rivoluzione e di preparazione a un momento che non avevamo mai preparato, che mai avremmo voluto vivere.

Quando il comandante Chávez se ne andò – lui lo sapeva e noi, forse, non lo avevamo supposto con certezza -, quello fu il punto di svolta, il segnale di partenza per l’impero nordamericano e l’intera rete del capitale egemonico mondiale per infierire contro il Venezuela. Tanti e tante di noi pensano che la morte del Comandante sia stata provocata. Ci crediamo perché – come ben esprimeva lo slogan della sua ultima campagna elettorale – Chávez era ed è ancora oggi il Cuore del popolo, della gente comune del Venezuela, dell’uomo e della donna della strada, degli operai, dei contadini, dei lavoratori. Per questo credevano che, togliendocelo, sarebbe finita anche la nostra forza politica, e Barack Obama ha lanciato nel 2015 lo sfortunato decreto che dichiarava il Venezuela una minaccia per gli Stati Uniti. Sono iniziate le cosiddette sanzioni, ci hanno bollato come paese “canaglia”, ci hanno perseguitato, per giustificare il reato di aggressione permanente che persiste a tutt’oggi sul nostro Paese.

Ancora una volta, però, il popolo ha dato una grande lezione, sotto ogni punto di vista. Tanto per fare un esempio, c’è stato un pellegrinaggio di 10 giorni per partecipare al funerale di Chávez. Da ogni angolo del Paese, e con ogni mezzo, sono arrivate le persone semplici, gli ultimi fra gli ultimi, e hanno fatto lunghe file nella capitale per salutare il loro Comandante. Una dimostrazione di fratellanza e solidarietà nei momenti difficili per andare avanti, come è consuetudine nella nostra cultura venezuelana.

Il terzo momento più difficile è quello che stiamo vivendo, dal 2013 in poi. La guerra non dichiarata ma brutale, ibrida, spietata che hanno lanciato al Venezuela e che si esprime in vari scenari: quello economico, attraverso il blocco di tutte le nostre entrate, il sabotaggio indiscriminato della nostra capacità produttiva, il furto delle nostre risorse; il campo politico, con il rifiuto di riconoscere le nostre istituzioni democratiche e la creazione artificiale di altre parallele per accompagnare lo spoglio economico, la persecuzione dei nostri dirigenti, la criminalizzazione dell’intera leadership della Rivoluzione. Sotto l’aspetto militare, vi sono state incursioni nel territorio, tentato omicidio con droni, penetrazione paramilitare, “guarimbas” terroristiche; Nell’aspetto simbolico, culturale, si è scatenata la guerra psicologica: operazioni di propaganda bellica pianificate e concatenate in modo tale che in questa fase colpiscano gli affetti più vicini, l’emotività più intima perché attaccano direttamente la famiglia e la comunità. Forzare un collasso economico significa attaccare il lavoro dignitoso, il reddito familiare che così è diminuito, la piccola produzione che sopporta la parte peggiore di questa guerra. Questo significa vedere la figlia o il figlio che se ne vanno, spesso senza meta, a causa delle difficoltà economiche che esistono, ma soprattutto sono indotte da un’enorme operazione di guerra psicologica integrata nel suo piano di aggressione, destinata a derubarci anche della gioventù formata e educata durante vent’anni di rivoluzione, mediante studi universitari, formazione tecnologica e linguistica. Cercano anche di svuotarci della risorsa più preziosa che abbiamo, che è la nostra gente. Una buona parte della popolazione è stata colpita da questa perversione molto ben orchestrata, in cui è stato investito molto denaro, ma l’altra parte, la maggioranza, non si è arresa. È stato difficile, duro, ma è stato anche un momento di grande crescita, di esplosione creativa, di imprenditorialità, di forza, di esempio, di dignità, di coraggio e lealtà. Andiamo avanti sostenendoci, spalla a spalla e, come dice la poesia di Benedetti, “In strada fianco a fianco siamo molto più di due”.

In qualità di vicepresidenta dell’Assemblea nazionale costituente, sei stata direttamente colpita dalle “sanzioni” degli Stati Uniti. Puoi spiegare cosa comportano queste misure coercitive unilaterali e perché colpire una rappresentante del popolo come te significa ledere i diritti fondamentali di quel popolo?

A livello personale, quelle cosiddette sanzioni non significano nulla. L’Unione Europea, la Svizzera e il Canada mi hanno incluso in un elenco di venezuelane e venezuelani che, dicono, non potranno effettuare transazioni commerciali o spostare conti bancari in quei paesi. Non ho un conto all’estero. Dicono che non possiamo acquistare armi o svolgere attività per conto del governo nazionale. Non mi corrisponde, sono una legislatrice, non agisco in funzioni di governo. Ma credo che la strategia di censura che applicano illegalmente al parlamento venezuelano, usando queste misure coercitive unilaterali come scusa, dev’essere denunciata. Non solo siamo stati “sanzionati” noi deputati e deputate chavisti, ma è stata “punita” anche oltre una dozzina di parlamentari dell’opposizione, nel 2019, dopo la debacle politica di Juan Guaidó, quando ha perso la maggioranza alla camera e non ha ottenuto la rielezione come presidente dell’Assemblea nazionale. Coloro che hanno assunto la carica di direttori e presidenti di commissioni per l’anno 2020 (tutti uomini) sono stati minacciati, ricattati e infine sanzionati dagli Stati Uniti e da altri paesi. Alcuni di questi deputati sono stati rieletti per questo nuovo periodo 2021-2025. Dobbiamo poi denunciare che queste misure coercitive unilaterali riducono il nostro diritto di portare la voce delle persone che ci hanno eletto a livello internazionale. In breve, è una censura diretta della voce della rivoluzione e dell’opposizione democratica venezuelana, la cui partecipazione agli organismi politici multilaterali è severamente limitata.

Il resto è semplice pubblicità e marketing, vecchia norma anche tipica della propaganda nazista. Si tratta di dare volto, occhi, bocca e naso all’espressione politica che si vuole denigrare (o al prodotto che si vuole vendere, a seconda del caso) attribuendo così a una persona (o a un gruppo politico) tutti i mali e i disagi che possono colpire una società. L’intera strategia di segregazione, criminalizzazione e odio che si intende applicare a un sistema politico è incarnata in una determinata persona rappresentativa, perché in questo modo è più facile inoculare un veleno identico ad ampi settori della popolazione. Un esempio molto chiaro è quel triste e imbarazzante episodio in cui il procuratore generale degli Stati Uniti, William Barr – poi destituito in modo vergognoso da Donald Trump – ha mostrato ai media le fotografie dei rappresentanti dei Poteri Pubblici del Venezuela, compreso il presidente Nicolas Maduro, e ha indicato qual era la taglia posta sulla loro testa offrendo 15 milioni di dollari come ricompensa. Ci si spinge fino a questo estremo, rappresentando una scena logora tipica del cinema western nordamericano, come un colpo simbolico al Paese e alle sue istituzioni.

In che modo colpisce il popolo tutto questo? In tutti i modi, compreso quello di convincere una parte della popolazione che si sta agendo in suo favore e non contro, mentre si tratta semplicemente di una politica di adescamento che serve a giustificare i crimini di guerra scatenati contro una nazione. È la colonizzazione di cui hanno bisogno per dispiegare una strategia di aggressione come quella che stanno attuando contro il Venezuela, per normalizzare davanti agli organi politici delle Nazioni Unite e del sistema internazionale la crudeltà, la crudeltà contro un popolo, anche se viola il diritto internazionale, i diritti umani e gli standard minimi di convivenza.

Uno dei principali fronti dell’aggressione imperialista è costituito dai media. Come lo analizzi come giornalista e responsabile della Commissione di Agitazione, Propaganda e Comunicazione del Partito Socialista Unito del Venezuela?

Il tema della comunicazione va inserito nell’ambito della guerra ibrida, asimmetrica e multimodale, come uno dei teatri fondamentali di questa guerra, allo stesso livello e con la stessa precisione del quadro militare, politico o economico. È il sostegno emotivo degli altri scenari di guerra, il cui obiettivo è la conquista delle nostre menti e dei nostri cuori, del nostro spirito e della nostra speranza. Se non li conquistano, non hanno successo. Non si può mai dire che la rivoluzione bolivariana sia finita perché quella fiamma arderà sempre in alcuni di noi e finché arde, la rivoluzione non finirà. Chávez ha portato Bolívar dal XIX secolo al XXI secolo e, con lui, un accumulo di valori come l’uguaglianza, la sovranità, l’indipendenza, la democrazia popolare, partecipativa e protagonista, il potere costituente e in questo momento tutte quelle idee e quei valori permangono accesi, ardendo come un fuoco sacro nelle coscienze dei venezuelani e delle venezuelane.

Non credo che dovremmo limitarci solo all’analisi dei media. È un piano costruito per agire sulla cultura, sulla comunicazione e sulla politica, che mette in relazione questi fattori per ottenere l’effetto che l’autore cileno Pedro Santander Molina, nel suo libro La Batalla Comunicacional, ha definito “effetto scoramento”. L’autore parte dalla constatazione che, dalla caduta dell’Unione Sovietica, la supremazia del capitalismo neoliberista e della democrazia liberale borghese si sono imposte nel mondo. A questo fine, per istituire questo modello politico, economico e sociale come l’unico, senza alternative possibili, si è dispiegata l’intera industria culturale, a partire da Hollywood. In quello scenario, il Venezuela è stato protagonista della prima ribellione popolare contro il neoliberismo, il 27 febbraio 1989, e Chávez è insorto con la ribellione civile-militare del 4 febbraio 1992, ha conquistato il potere per via elettorale nel 1998 e ha attivato il processo costituente nel 1999, un momento fondamentale di comunicazione e creazione collettiva che dà il tono al nostro processo di emancipazione nel 21° secolo. Stiamo soppiantando il concetto di democrazia rappresentativa, in cui il popolo elegge rappresentanti che governino per lui, per sostituirlo con quello di democrazia partecipativa e protagonista, che “in modo non trasferibile” restituisce al popolo il potere di governare, di esercitare la sovranità e lo rende padrone del proprio destino. È questa idea bolivariana che sta rivoluzionando il continente, portata nel 21° secolo per mano di Chávez e dei suoi ispiratori. È la storia che accende e genera i cambiamenti. Per questo motivo, non dovremmo chiamare Mediatico questo scenario conflittuale, ma Simbolico-Culturale.

Chávez ci ha riportato alle origini; ci ha riportato l’identità nera e indigena e l’essenza della nostra storia libertaria che avevamo seppellito sotto le strutture della controcultura capitalista. Questa rinnovata identità con potenti valori indigeni è altamente pericolosa per l’egemone perché unisce il popolo, lo incoraggia e gli dà gli strumenti per diventare padrone del proprio destino. Ecco perché, nel teatro delle operazioni di guerra contro il Venezuela, viene progettato l’attacco simbolico, culturale e mediatico, che mira specificamente a offuscare quei valori, svalutandoli fino a farli diventare una fonte di vergogna, cercando di indurci di nuovo a negare la nostra stessa storia e origine. Per questo negano anche la portata colossale del pensiero del Liberator Simón Bolívar. Quando hanno ripreso il potere per 48 ore durante il colpo di Stato nell’aprile 2002, hanno tolto l’etichetta di “Bolivariana” dal nome della Repubblica. Ecco perché squalificano il concetto di Patria fino a equipararlo a un rotolo di carta igienica, solo per dequalificare l’ultima parola, l’ultima frase del comandante Chávez: “Oggi abbiamo una Patria, attenzione, oggi abbiamo un popolo, attenzione, perché oggi abbiamo la Patria più viva che mai, ardente di una sacra fiamma”.

Tutto, insomma, fa parte di un quadro culturale politico e semiotico che vuole riportarci sulla via del colonialismo, della sottomissione, sulla via della non indipendenza. Tornando a Santander Molina, la strategia di scoramento implica il disdegno per i nostri valori identitari essenziali e cerca di smobilitare la forza popolare in trasformazione; vuole che non crediamo più in chi siamo e soprattutto che ci sentiamo incapaci di promuovere i cambiamenti necessari per creare una società migliore. Un altro concetto bolivariano, portato anche dal comandante Chávez nel XXI secolo: ottenere per il popolo “la più grande quantità di felicità possibile”, è ciò che l’imperialismo si propone di neutralizzare attraverso questa guerra culturale simbolica.

Ora, dall’altra parte ci siamo noi, gravidi di questo compito per il futuro. Abbiamo il dovere di ricrearci permanentemente, organizzarci, allenarci alla conoscenza della nostra storia politica, della posizione che ci spetta occupare e difendere nel mondo, di studiare i processi di emancipazione degli altri popoli. In costante formazione e alla ricerca di forme innovative di organizzazione e costruzione. Il Venezuela ha creato un solido Sistema Nazionale dei Media Pubblici, una rete consistente di Media Alternativi e Comunitari, sono emersi collettivi di comunicazione popolare e digitale di ogni tipo, è stata impiantata la necessità di avere istanze di comunicazione in ciascuno degli spazi di partecipazione popolare propri che diffondono e promuovono la marcia della rivoluzione. Formare, organizzare, creare, mobilitare, per irrompere in questo teatro di guerra simbolico. Dobbiamo schierarci con la nostra strategia e pianificazione, la nostra organizzazione, i nostri attori, soldate e soldate che escono in strada in difesa della speranza e del futuro.

Il Psuv ha un’organizzazione nazionale con il compito di organizzare la comunicazione, che ha i suoi dirigenti in ciascuno dei 24 stati e nei 335 comuni. Adesso si va a formare una unità per la battaglia comunicativa in ognuna delle 280mila strade dove il partito ha già consolidato una struttura di fondo dell’azione politico-sociale. Abbiamo anche creato 4 anni fa le Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale, le Brics-Psuv, che sono state un punto di appoggio per intraprendere azioni fuori dai nostri confini. Tu, Geraldina, hai partecipato al 1° Congresso Internazionale di Comunicazione, svoltosi qui in Venezuela nel dicembre 2019, e poi abbiamo organizzato il Capitolo sulla Comunicazione del Congresso Bicentenario dei Popoli, recentemente, nel luglio 2021, con la partecipazione di 8.677 mila persone a livello nazionale e portavoce di 22 paesi. Siamo riusciti a tenere quattro sessioni di lavoro internazionali e a registrare un servizio di volontariato con decine di migliaia di connazionali desiderosi e pronti a unirsi alla battaglia.

Certo, non possiamo competere alla pari con il potere tecnologico, finanziario e logistico dei nostri aggressori, che hanno il sostegno dell’intera industria capitalista dell’intrattenimento e della comunicazione. E non stiamo parlando in senso figurato. È comune trovare scene sul Venezuela nelle serie televisive, in anteprima per piattaforme come Netflix, episodi in cui Petróleos de Venezuela viene fatto esplodere con esplosivi da “eroi” mercenari che vengono a liberare il paese dalla dittatura, propaganda politica contro lo Stato venezuelano sovrapposta ai videogiochi per bambini. Sono stati impiantati decine di siti web e spazi di comunicazione digitale, troll, laboratori di guerra sporca, finanziati direttamente dalla Ned e dall’USAID. Ci opponiamo all’aggressione con l’organizzazione popolare e la formazione per la comunicazione politica. I collettivi volontari si chiamano non a caso Guerriglia comunicativa.

Dalla proficua interazione generata nei Congressi Internazionali di Comunicazione è nata la proposta di creare l’Università Internazionale della Comunicazione, progetto che è già stato fondato con decreto presidenziale nel suo capitolo venezuelano e che è stato lanciato nel 2020, in piena pandemia, con la realizzazione di 33 webinar e 31.600 partecipanti registrati da 50 paesi in interazione digitale. L’Università di Lanus in Argentina è integrata in questa prima fase di creazione, attraverso il Centro di ricerche Mac Bride, diretto dal filosofo Fernando Buen Abad, ideatore e promotore dell’Università; ne fanno parte anche i Consigli delle Università di Cuba e Nicaragua, oltre a 5 università venezuelane. Entro il 2022, speriamo di avviare un piano accademico formale per diventare una “comunità organica di incontro, azione e riferimento in termini di pensiero, ricerca, produzione e diffusione di conoscenza e contenuti comunicativi”, come afferma la dichiarazione di principi, in uno spazio di incontro che contribuisce al pensiero de-coloniale e sostiene le lotte di emancipazione dei nostri popoli.

Nel mezzo di una battaglia permanente e impari, queste forme di organizzazione ci permettono di mostrarci con il nostro volto e di riconoscerci nella conservazione dell’essenza ideologica, culturale e identitaria che hanno cercato di cancellarci per secoli. Dalla proposta che abbiamo sollevato in autodifesa, a cui partecipi tu, Geraldina, avanziamo nella definizione, autoaffermazione, ricerca e crescita di quell’essere sociale, quell’essere collettivo che ci dà forza nella Rivoluzione.

In che momento è ora la Rivoluzione Bolivariana dopo anni di aggressioni e colpi bassi alle conquiste popolari?

Direi che siamo in un momento di riaffermazione. All’inizio dell’intervista, abbiamo ricordato i momenti più difficili che abbiamo dovuto vivere nei 20 anni della Rivoluzione Bolivariana e abbiamo descritto quest’ultima fase come la più difficile, dal punto di vista di ciò che il popolo ha dovuto vivere, più lunga e violenta delle precedenti. Ti dicevo che la guerra, l’attacco, ci ha raggiunto direttamente per strada, al mercato, nel soggiorno di casa nostra, in modo brutale. Ci ha toccato in quanto c’è di più intimo e significativo. Se dovessimo riassumere la strategia in una parola, sarebbe: assedio.

Ecco perché adesso ci tocca assumere un momento di autoaffermazione, dobbiamo buttarci alle spalle i nostri dolori per ricominciare molte volte, ma senza rinunciare al nostro proposito di costruire una nuova società sulla base del socialismo bolivariano del XXI secolo. In questo senso, il Presidente Maduro ha svolto un ruolo decisivo perché ha guidato con caparbietà ed efficacia una politica che si basa sulla convivenza, sull’unità della Repubblica, sulla pace, sulla conservazione dei principi della Rivoluzione. Dal mio punto di vista, ha svolto un ruolo ammirevole, di cura e di sprone del popolo. Richiede ai suoi gruppi di lavoro che si rinnovino permanentemente, che facciano inchieste, che mostrino i risultati. Tutti, dai funzionari del governo ai dirigenti alle dirigenti delle UBCH (le unità di battaglia Hugo Chávez), abbiamo dovuto reinventarci e “spingere a fondo”, come diciamo qui.

Abbiamo ideato i CLAP (Comitati Locali di Approvvigionamento e Produzione) per contrastare il boicottaggio della distribuzione alimentare da parte dell’agroindustria (una delle prime manifestazioni della guerra economica, nel 2016) e le Brigate Popolari di Prevenzione contro il COVID-19, ad esempio, nel 2020. Abbiamo redatto una nuova legislazione, abbiamo creato nuove forme di organizzazione e forme di amministrazione finanziaria nostre per alleviare l’attacco alla moneta. I nostri ingegneri hanno creato macchinari e sviluppato tecnologia autoctona per superare gli effetti del blocco economico, sono sorte imprese di ogni tipo per formare una nuova rete popolare di scambi commerciali e produttivi.

La nuova Assemblea ha approvato la Legge delle Città Comunali e ora siamo in una fase di consultazione pubblica – in tutto il paese – della legge dei Parlamenti Comunali, per avanzare nella nuova struttura statale comunale che abbiamo iniziato con Chávez e che è già presente nel paese sotto forma di più di 3.000 comuni costituite e 47.000 consigli comunali registrati. Abbiamo inventato forme di finanziamento, modi per salvare la produzione di petrolio; i nostri operai, ingegneri e capi, dirigenti e ministri, tutti in una sola azione hanno dovuto creare macchinari da rottami metallici, hanno dovuto creare nuove forme di produzione per andare avanti, ed eccoci qui.

È un momento di riaffermazione perché l’agenda dello sconforto, della guerra e della violenza è stata messa a nudo con tutte le sue miserie, sconfitta dall’azione collettiva. La maggior parte dei venezuelani e venezuelane si è resa conto che la minoranza politica rappresentata da Juan Guaidó e dalla sua banda li aveva ingannati e traditi. Che quella banda si è agganciata a interessi stranieri per attaccarci tutti, che ha agito per i propri interessi e non per la collettività, che ha venduto il proprio paese e causato gravi danni alla Patria. Che i suoi rappresentanti non sono mai venuti all’Assemblea Nazionale per legiferare e fare del bene, ma solo per lavorare secondo quell’agenda di guerra. Ancora una volta siamo riusciti a condurli sul cammino elettorale, ma a prezzo di tanto dolore e sacrificio. Oggi non hanno alternative. Per questo si sono nuovamente riuniti al Tavolo di Dialogo in Messico e hanno dichiarato -per ora- che parteciperanno alla competizione elettorale il 21 novembre, pur sapendo che oggi sono organizzazioni politiche molto indebolite, demoralizzate per non dire prive di morale, che sono passate da essere una minoranza a essere una infima minoranza per via dei propri crimini ed errori.

Quest’anno andremo alle elezioni numero 28, per scegliere governatori e governatrici, sindaci e sindache, e gli organi legislativi di entrambe le istanze di governo, le più vicine alla vita quotidiana delle persone. Nel chavismo, siamo anche impegnati in un’auto-revisione, per via del cambiamento determinato dalla decisione coraggiosa e corretta del presidente Maduro e della Direzione nazionale del Partito Socialista Unito del Venezuela, il PSUV, di organizzare elezioni primarie in un momento così convulso. Lo abbiamo fatto in due fasi: una prima il 27 giugno per nominare i candidati e le candidate, in più di 14.300 assemblee di base simultanee del PSUV, e un’altra l’8 agosto per scegliere i candidati e le candidate con la partecipazione dell’intero Registro Elettorale e sulla piattaforma tecnologica del CNE. Hanno votato 3,5 milioni di persone. Una grande vittoria politica per il Psuv e un colpo inferto, in modo nobile e democratico, all’opposizione radicale violenta.

Il risultato ha prodotto anche un rinnovamento di tutta la direzione: il 45% dei candidati maschi e femmine è costituito da giovani, con una parità di quasi il 50% tra uomini e donne. Sono volti nuovi i candidati e le candidate a sindaco per il 92%, e per il 43% per la carica di governatore. Le mega-elezioni del 21 novembre dovrebbero sancire la fine di questa fase di sanguinoso attacco alle istituzioni democratiche del Venezuela. Così dev’essere e stiamo facendo ogni sforzo perché sia così. E la Rivoluzione è molto ben preparata per questo scenario dopo un processo di revisione, rettifica e riaffermazione. L’aggressione ha generato distorsioni e macchie in tutti i settori, ha colpito anche tra noi, tra le fila della rivoluzione. Ora, passata la bufera, o buona parte di essa, siamo obbligati a “pulire la casa”, “far scorrere l’acqua” e dar luogo a questo nuovo inizio che, come ha detto il nostro Presidente, “deve procedere al recupero del benessere che avevamo raggiunto durante 20 anni di rivoluzione e che fino al 2017 nessun altro Paese della regione aveva”. Dobbiamo recuperare quel modello sociale, colpito al cuore una volta che il comandante Chávez è partito fisicamente. Ecco perché questo è il periodo che suggella la stabilità politica per andare verso la ripresa economica.

Questa è la fase della Rivoluzione Bolivariana e abbiamo tutte le speranze che andrà a finire bene perché ce lo meritiamo. L’abbiamo costruita giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, abbiamo combattuto la battaglia e l’abbiamo vinta, come si dice in linguaggio sportivo “con onore e con dignità”, rispettando le regole del gioco e senza aggredire nessuno, sul piano del lavoro e della creazione collettiva. E ce lo meritiamo.

Fonte: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-contro_il_venezuela_un_assedio_per_riportarci_al_colonialismo_intervista_alla_deputata_tania_daz/5496_43278/

Pubblicato il 01.10.2021

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