CONTRADA E DOPPIO STATO

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“Nell’agire come ha agito l’imputato non ha avuto fini personali […]. Secondo l’impostazione dell’accusa […] il reato ascritto all’ex uomo del Sisde, non era un caso di infedeltà individuale, ma si inseriva purtroppo in un sistema di connivenza tra Stato legale e Stato illegale […]. Nella convinzione che una pacifica convivenza dei due apparati, quello legale e quello illegale, fosse indispensabile per raggiungere l’equilibrio […] del «niente più arresti, niente più stragi»”(1).

La domanda sorge spontanea e apparentemente provocatoria: com’è possibile che un personaggio come Bruno Contrada abbia ricevuto dallo Stato il lusso di poter terminare la sua condanna agli arresti domiciliari ?Una domanda che ha una duplice risposta e una lunga, triste, e poco edificante storia “alle spalle”. La storia è quella della lotta alla mafia, un argomento, nella sua semplicità, così intricato e complesso da non poter certo venire descritto adeguatamente in poche righe.

Quello che va definito e raccontato però (visto che si fa così poco e in maniera del tutto settaria), non è tanto l’ennesima narrazione del mafioso con la coppola in testa e la lupara sulle spalle che riesce sempre, in modi diversi, a fronteggiare un “gigante pasticcione” che ha il brutto vizio di voler interpretare a tutti i costi un ruolo decisamente poco credibile agli occhi di un pubblico che lentamente, ma inesorabilmente, sta diventando sempre più disilluso sull’argomento. La vera storia da raccontare, è quella che riguarda chi ha giurato di servire lo Stato e ad un certo punto della sua vita, per qualche motivo, ha deciso di fare l’esatto opposto: il famoso “doppio Stato”.

Questa a grandi linee è la storia del dottor Contrada, una storia che per molti, troppi aspetti, riflette quella dello Stato italiano.

Il questore Contrada, classe 1931, è stato un funzionario di polizia ed un agente dei cosiddetti servizi segreti civili, l’apparato informativo che fino a qualche anno fa veniva chiamato Sisde (dal 2007 Aisi): struttura alle dirette dipendenze del Ministero dell’Interno. Entra in polizia nel 1958. Dal 1973 al 1976 viene messo a capo della squadra mobile di Palermo. Dal 1976 al 1982 è dirigente della Criminalpol per la Sicilia occidentale, e nel gennaio dello stesso anno entra a far parte del Sisde con il ruolo di coordinatore degli uffici sardi e siciliani del servizio. A settembre, Contrada viene assunto da Emanuele De Francesco come capo di gabinetto del primo Alto commissariato per la lotta alla mafia, ruolo che ricoprirà fino al 1985. Nel 1986 viene richiamato a Roma per il suo “ultimo” incarico che lo vedrà diventare “numero tre” del servizio con delega all’antimafia.

Una grande ascesa quella dello “sbirro” Contrada, una carriera costellata di successi, riconoscimenti ed encomi, almeno fino al dicembre del 1992, quando su ordine della Procura di Palermo viene arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa. Un paradosso non da poco, o forse no.

Il nome di Contrada come uomo vicino a Cosa Nostra viene mormorato già nel lontano 1984 da un collaboratore di giustizia al di sopra di ogni sospetto: Tommaso Buscetta. “Contrada passa informazioni a Rosario Riccobono, sulle operazioni di polizia” rivela a Giovanni Falcone, accuse che verranno poi confermate dal “pentito” Francesco Marino Mannoia, ritenuto particolarmente credibile dallo stesso giudice.

Nel febbraio del 1989 i sospetti di Falcone sull’infedeltà di Contrada trovano conferma in un interrogatorio fatto in Svizzera dal magistrato Carla Del Ponte ad Oliviero Tognoli: imprenditore coinvolto nella famosa indagine “Pizza Connection” per il riciclaggio di soldi provenienti dal traffico internazionale di droga. L’industriale bresciano, latitante fino a qualche mese prima, ammette di essere stato avvertito del blitz che avrebbe dovuto portare al suo arresto nel 1984 da qualcuno che non poteva “non essere un uomo delle istituzioni”, e a verbale chiuso e confronto finito, Falcone, che era stato presente per tutta la durata del colloquio, chiede a Tognoli se ad avvertirlo fosse stato Contrada. “Alla fine del nostro interrogatorio, firmato il verbale […] ci troviamo, Giovanni Falcone e io [Carla Del Ponte], soli con Tognoli. Si stava uscendo, Tognoli era lì, in un angolo, che aspettava che venissero a prenderlo. Ed è lì che io sento per la prima volta il nome di Contrada. […] Giovanni Falcone… chiede a Tognoli chi l’abbia avvertito che c’era un ordine di arresto nei suoi confronti, etc. Tognoli diceva «Si, è vero, sono stato avvertito, qualcuno mi ha fatto sapere». E a un certo momento Giovanni Falcone fa questo nome di Contrada e Tognoli dice di si e fa segno con la testa”(2).

Tognoli però, rinterrogato nel pomeriggio dallo stesso Falcone, rifiuterà di verbalizzare le accuse.

Destino vuole che qualche mese dopo, il 19 giugno di quello stesso anno, nei pressi di una villa sulla scogliera dell’Addaura dove erano presenti proprio Falcone, la Del Ponte e un altro magistrato, Claudio Lehmann, vengano ritrovati 58 candelotti di gelatina esplosiva. Per Luca Tescaroli, che ha svolto il ruolo di pubblico ministero nel processo per la strage di Capaci: “[s]e l’attentato all’Addaura fosse stato portato a compimento, i testimoni oculari delle accuse nei confronti dell’alto funzionario di polizia, che occupò un ruolo importante all’interno di una delle strutture dei servizi segreti del nostro paese, sarebbero stati soppressi”.

Falcone non si fece scappare questa singolare coincidenza. “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forti punti di collegamento tra i centri di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.

A fine 1991, un altro “pentito”, Gaspare Mutolo, accenna sempre al giudice palermitano la doppiezza di “u dutturi”: “Sino alla prima metà degli anni Settanta, Contrada, assieme ad altri integerrimi funzionari di polizia, Boris Giuliano, Ignazio D’Antone e Antonino De Luca, era per la mafia un nemico da eliminare. C’erano due linee all’interno di Cosa Nostra, quella morbida del boss Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate che sosteneva di «avvicinare» i poliziotti e quella dura, del clan dei corleonesi, che propendeva per un attacco frontale allo Stato. Ebbi l’incarico di pedinare Contrada per scoprire le sue abitudini. Quando fui scarcerato, nel 1981, Giuliano era stato ucciso, Rosario Riccobono mi disse che Contrada era a nostra disposizione”. Le accuse però verranno formalizzate solo nel luglio del 1992 al cospetto di Paolo Borsellino. Anche qui, con una maggiore tempestività, si andrà a ripetere (anche se in un contesto diverso come quello del 1992 e con Borsellino protagonista) il copione dell’Addaura.

Dal libro “L’agenda rossa di Paolo Borsellino”: “Il pomeriggio del 1° luglio [1992] è dunque cruciale. Mutolo annuncia rivelazioni «scottanti» […]. [M]a ha paura e fa sapere che considera Borsellino l’interlocutore principale, l’unico vero destinatario delle sue parole. Quel giorno, il pentito gli ha anticipato che farà dichiarazioni esplosive su Domenico Signorino [pm al Maxiprocesso] e Bruno Contrada […]. [M]a prima vuole tracciare la mappa aggiornata della mafia militare […]. Alle 15, nello stanzone della Dia, davanti a Paolo Borsellino e Vittorio Aliquò, al tenente colonnello Domenico Di Petrillo e al vicequestore Francesco Gratteri, entrambi della Dia e all’ispettore di polizia Danilo Amore, Mutolo comincia a declinare le proprie generalità, per aprire la verbalizzazione e iniziare il suo racconto nero sulla mafia. Ma, all’improvviso, accade qualcosa di inatteso. Una telefonata. E per «esigenze di ufficio» il verbale viene chiuso alle 17:40 e rinviato alle 19. Ecco la ricostruzione di Rita Borsellino [sorella di Paolo] sugli eventi di quel pomeriggio: «A un tratto, durante l’interrogatorio, Paolo riceve una telefonata, chiude il verbale, si precipita al Viminale, accompagnato da Aliquò e dalla scorta, poi ritorna da Mutolo. Il pentito ha raccontato successivamente che, di ritorno dal Viminale, Paolo era talmente nervoso che fumava due sigarette contemporaneamente e decise di non continuare l’interrogatorio»”.

Come testimoniato dalla sua stessa agenda grigia, Borsellino quel 1° luglio incontra il neo ministro Nicola Mancino (insediatosi in mattinata), una visita però, di cui l’ex ministro degli Interni avrebbe perso il ricordo: “Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla […]. Era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali”. Parole che si commentano da sole, anzi, che si commentano con le dichiarazioni messe a verbale dal boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca (l’uomo che azionò il telecomando nella strage di Capaci). “Mancino – ha affermato Brusca di fronte ai magistrati di Palermo – era il terminale della trattativa Stato-Mafia intavolata col papello: me lo disse Riina”. E da quelle ancor più inequivocabili del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: “La trattativa ha salvato la vita a molti ministri”.

Secondo il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, Borsellino era al corrente dell’iniziativa dell’allora colonnello Mario Mori (attualmente indagato dalla Procura di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa) e del capitano Giuseppe De Donno: “Le nostre indagini, seppure dopo tanti anni, hanno consentito di accertare inconfutabilmente che Borsellino fu informato di quella che viene definita la «trattativa». Ciò avvenne il 28 giugno ad opera della dottoressa Ferraro, all’epoca capo dell’ufficio affari penali del ministero di Grazia e Giustizia”.

Forse quel 1° luglio l’ex procuratore capo di Marsala volle approfittare dell’occasione per chiedere a chi di competenza qualche informazione in più sullo spunto investigativo del Ros. Detto con la parole dell’allora ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli: “Mi lamentai del comportamento del Ros col ministro dell’Interno dell’epoca. Ora, alla luce delle date e ricordando meglio, credo si trattasse di Mancino”.

Sempre dal libro “L’agenda rossa di Paolo Borsellino”: “Roma, giovedì 16 luglio 1992 […] Borsellino interroga Gaspare Mutolo. E’ l’ultimo interrogatorio, dura parecchie ore. Il pentito accetta di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ma oggi non si fa in tempo, se ne riparlerà lunedì prossimo. E’ tardi. Borsellino chiude il verbale senza neppure una parola, sempre più incupito. Saluta Mutolo, ed è l’ultima volta che lo vede […]. Palermo, venerdì 17 luglio 1992 […] Mutolo ha parlato, ha detto cose gravissime, ha accusato personaggi al di sopra di ogni sospetto. Paolo è sconvolto, confida ad Agnese [la moglie di Borsellino] che alla fine dell’interrogatorio era così traumatizzato da avere addirittura vomitato. «Stavo malissimo» dice”.

Il 19 luglio 1992 cade di domenica; giornata perfetta per una bella escursione in barca al largo di Palermo, tanto che Bruno Contrada, il suo delfino Lorenzo Narracci, il capitano dei carabinieri Paolo Zanaroli (proprietario della barca), Gianni Valentino (commerciante in contatto con il boss Raffaele Ganci: “capomandamento” della Noce condannato per le stragi del ’92) e amici partono per una mirabolante gita in mare. “Quel giorno l’osservatorio geosismico fissa alle 16.58 minuti e 20 secondi l’istante esatto dello scoppio della bomba [strage di via d’Amelio]. Alle 17 in punto, cento secondi dopo l’esplosione, su quella barca arrivano e partono due telefonate importantissime. La prima è della figlia di Gianni Valentino(3), Paola, che meno di un minuto dopo lo scoppio avvisa il padre che «c’è stato un attentato» [da tenere bene a mente che le prime, confuse, notizie sulla strage sono delle 17:16]. Subito dopo Contrada chiama gli uffici del centro Sisde di via Roma che inspiegabilmente a quell’ora di domenica sono aperti e in pienissima attività”(4). Perfino Contrada ammette l’incredibile sequela di eventi: “[Valentino riceve una telefonata della figlia] che lo avvertiva che a Palermo era scoppiata una bomba e comunque c’era stato un attentato. Subito dopo il Narracci, dal suo cellulare o dal mio, ha chiamato il centro Sisde di Palermo per informazioni più precise”.

“Quindi ?”, direte voi, non si può certo condannare una persona perché colpevole di essersi seduta sulla barca sbagliata o solo perché sta cercando di svolgere il proprio lavoro, giusto ? Sbagliato. Escludendo per un attimo la presunta fonte della telefonata (la figlia di un commerciante in contatto con un fedelissimo di Riina), quello che colpisce non riguarda esclusivamente la tempistica oltremodo sospetta e il soggetto che riceve la chiamata. I fatti veramente inquietanti di questa vicenda sono altri, ovvero: l’ombra di Contrada in via Mariano d’Amelio, e su un piano formale, l’inspiegabile reattività del Sisde.

Aiutandoci con un’altra ottima lettura, “Il Patto”, è possibile capire meglio la portata del caso in questione: “20 luglio 1992. Sono passate poco più di dodici ore dall’eccidio. Due agenti della Criminalpol venuti da fuori sono in via D’Amelio. La prima cosa che cercano di capire è dove si siano appostati gli attentatori con il telecomando che ha fatto esplodere l’autobomba. I due escludono subito i palazzi che si affacciano su quel tratto della strada: sono sventrati, se si fossero posizionati li, i killer si sarebbero esposti a un rischio troppo alto. Lo sguardo si posa poco più in la, oltre un muro che separa la via da un grande giardino. Gli agenti mettono a fuoco un palazzo di dodici piani appena edificato. Percorrono poco più di cinquanta metri, entrano nello stabile e salgono le scale. Si imbattono nei due costruttori del palazzo, i fratelli Graziano. Si fanno portare nel loro ufficio e abbozzano una sorta di interrogatorio […]. Poi chiedono loro i documenti per un controllo via radio: vogliono sapere se hanno precedenti. Nell’attesa, uno dei poliziotti sale fino alla terrazza, rendendosi subito conto che da li la visuale su via D’Amelio è perfetta. Per terra, nota un mucchio di cicche. Dalla centrale intanto comunicano che i costruttori sono schedati come mafiosi. Sono due dei sei fratelli Graziano, una progenie di imprenditori edili legati ai Madonia e ai Galatolo. Uno dei fratelli, Angelo, vicino a Salvatore Riina, è scomparso nel 1977 con il metodo della lupara bianca. Ce n’è abbastanza per portarli in centrale e proseguire gli accertamenti, ma sopraggiunge all’improvviso una squadra di poliziotti. «Colleghi, è tutto a posto. Ce ne occupiamo noi, adesso», dicono ai due agenti della Criminalpol. Che se ne vanno perplessi, fanno ritorno in centrale e stilano comunque un rapporto dettagliato. L’indomani ricevono un ordine di servizio: devono rientrare al comando di origine. Il loro lavoro a Palermo è concluso. Dei fratelli costruttori qualche mese dopo la strage parlano pentiti del calibro di Gaspare Mutolo e Francesco Marino Mannoia. Secondo quanto dichiara il primo, Angelo Graziano e Vincenzo Galatolo «sorvegliavano» Contrada. Poi Graziano era stato arrestato proprio da Contrada. Mutolo sostiene pure – e la sua versione ha retto fino in cassazione – che i due imprenditori avevano messo a disposizione un appartamento per Contrada e uno per il giudice Signorino, pm nel maxiprocesso. La testimonianza degli agenti della Criminalpol è finita oggi nella nuova inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla morte di Borsellino e della sua scorta. Per tutti questi anni i due poliziotti hanno creduto che qualcuno avesse vagliato il loro rapporto, che quella pista fosse stata battuta. Invece il rapporto è sparito dalla questura di Palermo. Le indagini hanno però appurato che nel palazzo, poche ore dopo che gli agenti della Criminalpol si erano allontanati, era arrivato un gruppo di carabinieri. Nella loro relazione risulta tutto a posto, tutto normale. E il palazzo della mafia su via D’Amelio sparisce. Come l’agenda rossa di Paolo Borsellino”.

Esclusa di recente dalle indagini sui “mandanti esterni” la pista che voleva il Castello Utveggio come postazione da cui sarebbe partito l’impulso che azionò l’esplosivo in via d’Amelio, il palazzo dei Graziano diventa ufficialmente il luogo più quotato per trovare una collocazione al commando stragista che pose fine alla vita di Borsellino e della sua scorta(5). Bisogna dire però (a prescindere dai riscontri giudiziari), che il castello liberty posto sul Monte Pellegrino è riuscito nel tempo a mantenere uno status di “evergreen”, e restare l’unica ragionevole spiegazione all’incomprensibile livello d’informazione e attività manifestata dal Sisde, in un giorno dove solitamente gli uffici del servizio rimanevano chiusi.
Ma da dove scaturisce l’interesse nei confronti di quest’imponente costruzione che svetta sull’intero capoluogo siciliano, e che offre un’ottima visuale su via Mariano d’Amelio ?

La sorte vuole che il primo a puntare la propria attenzione nei confronti del castello sia lo stesso Paolo Borsellino: “Palermo, poco prima del 19 luglio 1992. Borsellino è inquieto, ha paura di essere spiato. La sera, prima di andare a letto, nel suo appartamento di via Cilea, dice alla moglie Agnese: «Chiudi la serranda, perché da li ci possono osservare». Si riferisce al Castello Utveggio […]. Il castello ospita il Cerisdi [Centro ricerche e studi direzionali], un centro di eccellenza per studi economici, che nelle sue stanze avrebbe nascosto una cellula «coperta» del Sisde”. Questo passaggio tratto dal libro “L’Agenda Nera della Seconda Repubblica”, è indicativo di come Borsellino nutrisse già dei sospetti nei confronti del vecchio albergo palermitano. Sospetti che verranno confermati dall’interesse investigativo della squadra del superpoliziotto Arnaldo La Barbera e dell’ex vicequestore di Palermo Gioacchino Genchi.

Genchi, consulente informatico, è il primo a puntare gli occhi sul castello e intuire che quel luogo possa essere stato utilizzato come base dagli attentatori. E ha ragione: “Palermo, 20 luglio 1992 […]. Dopo avere esaminato la visuale su via D’Amelio dal Castello Utveggio, Genchi e La Barbera riflettono su un dato scontato ma fondamentale: per colpire in quel modo, il commando doveva controllare attentamente i movimenti di Borsellino, che frequentava la casa della madre di tanto in tanto. Prende corpo così l’ipotesi di un’intercettazione abusiva, compiuta sulla linea telefonica dei familiari del magistrato assassinato. Pochi giorni dopo, da una fonte confidenziale, Genchi apprendere che alla Elte, una società che assume commesse dalla Sip, l’azienda dei telefoni, lavora un operaio che ha un fratello con forti agganci mafiosi”(6). Quell’operaio è Pietro Scotto(7), fratello di Gaetano: boss dell’Arenella in contatto con i “servizi deviati” che verrà in seguito condannato all’ergastolo nel processo denominato “Borsellino – bis”.

Nell’agosto del 1992, arriva la svolta. Attraverso dei tabulati telefonici Genchi scopre che Gaetano Scotto risulta essere stato in contatto con il Cerisdi: “[T]ra i numeri chiamati pochi mesi prima, il 6 febbraio 1992, alle 14.30, per una conversazione durata tre minuti e nove secondi, c’è lo 091/6373422 intestato al Cerisdi, il centro di formazione per manager ospitato nel Castello Utveggio, e guidato dall’ex Alto commissario per la lotta alla mafia Pietro Verga. Un centro nelle cui stanze, ed è la sorpresa più grossa, sarebbe stata ospitata […] una postazione del Sisde con apparecchiature della Elte, la stessa azienda presso cui lavora Pietro Scotto, fratello di Gaetano”(8). Alcuni anni dopo, Genchi rievocherà il caso: “Nel castello si era installato un gruppo di persone che erano state all’Alto commissariato per la lotta alla mafia. Dopo il cambio di vertice nella struttura, con la nomina di Domenico Sica, erano stati tutti spostati al castello. C’erano ufficiali che erano stati all’Alto commissariato, dov’era pure Bruno Contrada, che era stato il capo di gabinetto dell’ex Alto commissario De Francesco, e altri soggetti sui quali abbiamo svolto indagini. Il castello era in una posizione ottimale per garantire la visuale su via D’Amelio […]. Quando hanno saputo che le indagini si stavano appuntando su quell’edificio, hanno smobilitato tutte le attrezzature e sono spariti”. Nel dicembre del 1992 però, come testimoniato dall’ex direttore del Nucleo Anticrimine per la Sicilia Occidentale, la macchina investigativa si blocca: “Alla fine del ’92 stavamo per scoprire la verità sulle stragi e forse anche sui mandanti esterni. Con uno stop improvviso, il Viminale decise di trasferire me e, dopo una settimana, anche Arnaldo La Barbera. Ci dissero che tutto doveva passare nelle mani dei carabinieri del Ros, che stavano trattando con collaboratori importantissimi per arrivare all’arresto del boss Totò Riina. Per me è la prova che la trattativa, già pochi mesi dopo la morte di Borsellino, era nota a tutti”. Cala così il sipario sul castello e sui segreti indicibili della strage Borsellino; o almeno così sembra.

Nell’estate del 2009, parlando per la prima volta con i magistrati di Caltanissetta, Totò Riina detto “u curtu” lancia un messaggio a dir poco criptico nei confronti del castello e dei suoi antichi inquilini: “Quella è roba da servizi segreti – dice Riina riferendosi alla strage di via d’Amelio – bisogna guardare nel castello, da supra”. In effetti, a distanza di anni dalle indagini del Gruppo Falcone e Borsellino capitanato da Genchi e La Barbera, si scopre che i magistrati palermitani un’occhiatina al castello ce l’avevano data: “Con certezza si può dire che il Sisde ha operato al Castello Utveggio, nonostante abbia più volte smentito la circostanza. A scoprirlo sono stati i magistrati palermitani, dieci anni dopo la strage. Il vecchio numero del Cerisidi, 091/345429, è rimasto in funzione almeno fino al 2003, nonostante la Telecom insistesse che fosse cancellato. A rispondere era il dirigente del Sisde di Palermo”(9).

Appurata la presenza del Sisde sul Monte Pellegrino, torniamo a porre l’attenzione sull’utenza del Cerisdi collegata col mafioso Scotto. Secondo il gip di Caltanissetta Giovanbattista Tona, lo 091/6373422 è “assiduamente chiamato” da un numero “in costante contatto con la GUS di Roma, società di copertura del Sisde”. La GUS, Gestione unificata servizi, balza all’onore delle cronache giudiziarie nel momento in cui la squadra di Genchi e La Barbera, rinviene tre giorni dopo la strage di Capaci, uno strano bigliettino proprio sulla collinetta dove erano appostati i boia di Falcone, Francesca Morvillo e della loro scorta. Secondo l’attuale sostituto procuratore di Roma Luca Tescaroli, questo biglietto confermerebbe “l’ipotesi di una convergenza di interessi di settori deviati dei servizi segreti” con Cosa Nostra per l’organizzazione della strage.

Ma cosa c’è scritto su quel pezzo di carta ?

“Guasto numero 2 portare assistenza settore numero 2. Gus, via Selci numero 26, via Pacinotti 0337-806133”. “Guasto numero 2” è il codice che segnala una probabile clonazione in atto; la GUS, come abbiamo già avuto modo di vedere, è una società di copertura del Sisde; “via [in] Selci” è dove a Roma (proprio alle spalle del Sisde) ha sede la GUS; mentre via Pacinotti è la sede della Telecom a Palermo. Resta così il numero di cellulare. L’utenza telefonica risulterà in uso a Lorenzo Narracci: l’altro agente dei Servizi presente sulla barca più pazza del mondo. Narracci, ex vice capo della struttura informativa di Palermo, legatissimo a Bruno Contrada, viene ascoltato anni dopo dalla procura di Caltanissetta: “Era un appunto sulla riparazione di un cellulare Nec P300 che qualcuno dei miei uomini deve avere perso durante il sopralluogo.”. Destino vuole che cellulari clonati dello stesso modello vengano usati anche da Gioacchino La Barbera (il mafioso che teneva informato il gruppo di fuoco appostato nei pressi di Capaci sugli spostamenti del giudice palermitano il giorno della strage) e Nino Gioè(10) (“uomo d’onore” della “famiglia” di Altofonte in contatto con l’enigmatico Paolo Bellini(11)); ma non finisce qui: i rinomati Nec P300 vengono sequestrati anche nel covo utilizzato dai killer di Falcone in via Ughetti a Palermo.

Insomma, barca sbagliata e cellulare modello strage, un autentico “sventurateddu” l’ex ufficiale in forza al Sisde. D’altronde si sa, quando ci si mette d’impegno la sorte può tirare dei brutti scherzi. E infatti, l’odissea Narracci non intende esaurirsi con l’annus horribilis 1992.

Il 14 maggio 1993, a Roma, esplode in via Fauro un’autobomba che ha come obiettivo Maurizio Costanzo. In via Ruggero Fauro però, al civico 94, abita il dottor Narracci, e a pochi metri dal luogo dell’attentato si trova la sua Y10 (gravemente danneggiata dall’esplosione), rigorosamente intestata ad una società di copertura del servizio segreto civile (la Gattel srl) il cui amministratore, Maurizio Broccoletti, verrà condannato in via definitiva per lo scandalo dei fondi neri del Sisde. Gli irriducibili difensori di Narracci hanno sostenuto che il bersaglio di quell’attentato fosse proprio il funzionario in questione. Peccato però che la motivazione della sentenza per la strage di via dei Georgofili abbia smentito categoricamente quest’ipotesi definendola “peregrina e insostenibile”.

Ci risiamo, Narracci ci ricasca e ci lascia pure la macchina. Un sfiga senza fine. Si, senza fine perché nell’estate del 2010, come anticipato dalla relazione del presidente della Commissione parlamentare antimafia Giuseppe Pisanu, trapela la notizia che l’agente del servizio segreto civile è stato reinserito(12) dalla procura di Caltanissetta nel filone dei cosiddetti “mandanti occulti”.

L’iscrizione nel registro degli indagati scatta anche grazie alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, e dal riconoscimento parziale fatto dall’ex appartenente alla cosca di Brancaccio Gaspare Spatuzza: “Il 20 maggio 2010, una nuova rivelazione. I media nazionali rilanciano la notizia che Gaspare Spatuzza avrebbe riconosciuto nella foto di un agente dei servizi l’uomo presente nel garage di Orofino mentre la Fiat 126 [l’autobomba utilizzata in via d’Amelio] veniva imbottita di esplosivo. Una settimana dopo «Il Fatto Quotidiano» pubblica il nome dell’agente segreto. L’uomo riconosciuto da Spatuzza sarebbe Lorenzo Narracci. E con tutta probabilità sarebbe già iscritto nel registro degli indagati per concorso in strage. In realtà il riconoscimento non avviene in maniera così definitiva. Troppi anni sono trascorsi. Agli inquirenti Gaspare Spatuzza dichiara che non conoscendo la persona vista nel garage, nel momento in cui gli aveva rivolto lo sguardo si era limitato a un’occhiata veloce. Spatuzza quindi non manifesta una certezza assoluta sul riconoscimento della fotografia dell’agente 007, lasciando così aperte anche altre piste. Di fatto la questione sarebbe potuta finire li se non fosse per il fatto che anche Massimo Ciancimino, seppur con qualche titubanza, avrebbe identificato Narracci nell’uomo vicino al misterioso «signor Franco o Carlo»(13) che avrebbe seguito assiduamente l’ex sindaco di Palermo [Vito Ciancimino] nel corso della «trattativa» tra Stato e Cosa Nostra. Dal canto suo Narracci nega ogni coinvolgimento nella strage di via D’Amelio e soprattutto nega di avere mai visto Massimo Ciancimino e suo padre. Mesi dopo, in un confronto all’americana, Gaspare Spatuzza stenta ancora a riconoscere con sicurezza Lorenzo Narracci nell’uomo sconosciuto visto nel garage”(14).

“Sono sfortunato, sì” dichiara l’ex vice capocentro del Sisde al Giornale. Ma torniamo a Contrada.

Il 24 dicembre 1992, accusato da quattro pentiti (Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese(15), Tommaso Buscetta e Rosario Spatola) “di essere stato avvicinato da Cosa Nostra nel 1976 quando era funzionario della Questura di Palermo”(16), Bruno Contrada viene arrestato e messo in regime di carcere preventivo fino al luglio del 1995. Secondo Rosario Spatola, ex imprenditore edile che venne inquisito da Giovanni Falcone: “Contrada era un massone a disposizione di Cosa Nostra, così mi venne riferito da Rosario Caro, l’uomo d’onore di Campobello di Mazara, anch’egli massone”. Ma nonostante tutto, “[q]uando Contrada è arrestato, il capo della Polizia Vincenzo Parisi prende la sua difesa giudicandolo un funzionario irreprensibile e così fanno altri uomini delle istituzioni come il prefetto Finocchiaro [ex direttore del Sisde] e il generale Mori”(17).

Dopo quasi tredici anni di processi, il 10 maggio del 2007, la VI sezione penale della Corte di Cassazione condanna a dieci anni di reclusione l’ex dirigente di polizia.

Giustizia è fatta ? Giustizia è fatta per un anno e poco più, visto che il 24 luglio del 2008 vengono concessi a Contrada gli arresti domiciliari.

E qui torniamo alla domanda iniziale: perché Contrada è stato scarcerato ? Siamo sicuri che sia davvero per motivi di salute legati alla sua incompatibilità col regime carcerario ? Non si è necessariamente incompatibili se si smette volutamente di mangiare. Forse Contrada è fuori perché un tempo “solo a fare il nome di quell’uomo si [poteva] morire”(18) ? O forse perché i domiciliari vengono concessi con più serenità quando il ministro della Giustizia è un signore che si sbaciucchiava coi boss ?

Malizia ? Forse, ma quando tutte le precedenti richieste di scarcerazione(19) vengono respinte per “le non gravissime condizioni di salute” qualche dubbio può sempre venire.

No, forse c’era già un disegno, un progetto per tirare fuori dal carcere l’incorruttibile poliziotto nel caso venisse condannato. Qui, la parola passa all’ex Guardasigilli Clemente Mastella: “Mi sembrava un atto dovuto [l’avvio dell’istruttoria per la concessione della grazia], visto anche l’allarme destato dalle condizioni di salute [di Bruno Contrada] […]. Normalmente per l’attivazione di questi strumenti si impiegano sei mesi. Io mi auguro che si faccia molto, molto prima”. E certo, il prima possibile. Ma perché ? Il perché ce lo spiega il libro di Alfio Caruso, “Milano ordina uccidete Borsellino”: “Sempre quotatissimo a livello accademico, il professore [Alessandro Musco, vicepresidente del Cerisdi nel 1992, prescritto in appello per riciclaggio] è salito di nuovo alla ribalta nel 2005 consegnando a Mastella, segretario dell’Udeur, la lettera di spiegazioni e scuse di Francesco Campanella(20), massone e presidente del consiglio comunale di Villabate. Campanella, infatti, era stato politicamente sponsorizzato da Mastella – fra i testimoni al suo matrimonio assieme a Totò Cuffaro, uno dei big siciliani, presidente della Regione dal 2001 al 2008 – e dunque la sua condanna a cinque anni per favoreggiamento di personaggi mafiosi ha fatto intendere la capacità penetrativa di Cosa Nostra. Nella realtà Campanella operava agli ordini di Provenzano: è risultato fra gli organizzatori del suo viaggio in Cosa Azzurra nel 2003 per l’operazione alla prostata. Scoperto dalle ammissioni di un collaboratore di giustizia, pure Campanella si è immediatamente arruolato sotto le bandiere dello Stato per evitare una lunga detenzione. Ecco il motivo della missiva fatta pervenire a Mastella, futuro ministro della Giustizia”.

No, forse queste sono solo delle banalissime ipotesi di complotto, forse, come pubblicizzano alcuni siti internet, Contrada è un perseguitato e “non si può pensare che […] un servitore dello Stato, possa essere dimenticato e trattato in questo modo. E’ qualcosa che francamente non si può accettare”.

Parola di chi ha”intrattenuto rapporti non meramente episodici con soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato”(21).

Note

^1 – Dalla motivazione della sentenza di primo grado che ha portato alla condanna per concorso esterno in associazione mafiosa Bruno Contrada.

^2 – Tescaroli Luca, Obiettivo Falcone, Rubbettino.

^3 – Per inciso, come riferito da Calogero Ganci (“uomo d’onore” e figlio del boss sopracitato): “All’imprenditore [Valentino], in più occasioni, si sono rivolti esponenti della cosca del quartiere Noce per accedere a favori del personale di polizia”.

^4 – Bongiovanni Giorgio e Baldo Lorenzo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, Aliberti.

^5 – Secondo le ultime indiscrezioni giornalistiche l’uomo che avrebbe materialmente azionato l’autobomba in via Mariano d’Amelio sarebbe nientepopodimeno che il famigerato boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, il capomandamento indicato dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza in trattativa con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nel periodo delle stragi in continente (1993). Nella motivazione della condanna di primo grado a Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, i contatti tra i fratelli Graviano e l’ex dirigente di Publitalia vengono descritti in questo modo: “Nell’ambito degli accertati rapporti e contatti, diretti o mediati da terze persone, tra Marcello Dell’Utri ed esponenti di primo piano di alcune potenti «famiglie» mafiose palermitane, un posto particolare meritano i fratelli Graviano Giuseppe e Graviano Filippo, responsabili della consorteria mafiosa operante in Brancaccio, quartiere alla periferia di Palermo”.

^6 – Lo Bianco Giuseppe e Rizza Sandra, L’Agenda Nera della Seconda Repubblica, Chiarelettere.

^7 – Dal libro di Maurizio Torrealta “La Trattativa”: “I componenti della famiglia Fiore-Borsellino raccontano agli investigatori di aver visto un operaio intento ad armeggiare nella cassetta dei fili telefonici […] e raccontano anche che già da un paio di mesi prima della strage notavano strane anomalie nel funzionamento del telefono. Gli investigatori decidono allora di analizzare la rete telefonica del condominio di via D’Amelio 19 per vedere se è rimasta traccia di intercettazioni sulla linea della famiglia Fiore-Borsellino. Questa analisi mette in evidenza che le anomalie di funzionamento possono derivare da una intercettazione abusiva realizzata in modo rudimentale attraverso un circuito di derivazione poi rimosso. Questa ipotesi investigativa viene confermata [dalle] dichiarazioni di Cecilia, figlia di Rita Borsellino e nipote del magistrato assassinato, e dal fidanzato Emilio Corrao, che raccontano di avere notato, pochi giorni prima dell’attentato, un operaio intento a lavorare sulla cassetta dove passano anche i cavi telefonici sul pianerottolo dell’abitazione, e di aver visto una Panda azzurra parcheggiata sotto il palazzo con la scritta Elte. Forniscono poi una descrizione precisa dell’operaio e lo riconoscono, sia fotograficamente che di presenza nel corso del dibattimento, come Pietro Scotto, che lavora come dipendente della ditta Elte Spa presso la zona del «Centro lavori falde» in cui ricade anche via D’Amelio dove è stata realizzata la strage.”

^8 – Lo Bianco Giuseppe e Rizza Sandra, L’Agenda Nera della Seconda Repubblica, Chiarelettere.

^9 – Biondo Nicola e Ranucci Sigfrido, Il Patto, Chiarelettere.

^10 – Antonino Gioè ha svolto un ruolo centrale nell’esecuzione della strage di Capaci. Cugino del boss Francesco Di Carlo, il 29 luglio 1993 viene trovato morto impiccato nella sua cella a Rebibbia. Il suicidio di Gioè ha destato non pochi sospetti per le sue zone d’ombra e per i fatti che in seguito sono venuti alla luce. Dal saggio di Luca Tescaroli “Obiettivo Falcone”: “[…] Di Carlo, nel corso del dibattimento inerente al fallito attentato dell’Addaura, ha riferito di aver ricevuto, intono al 1990, quindi dopo il fallito attentato, due visite all’interno dell’istituto penitenziario di Full Sutton [Inghilterra], da parte di soggetti appartenenti ai servizi segreti. Di Carlo ha correlato questi colloqui al proposito di eliminazione di Giovanni Falcone. Più in particolare, ha riferito che, nell’istituto penitenziario […] si è trovato a condividere, dall’86, il regime carcerario con Nezzar Hindawi, soggetto di origine palestinese, che aveva lavorato per i servizi segreti siriani, coinvolto nell’attentato all’aereo di linea caduto in Scozia che provocò la morte di circa 300 persone […]. Nezzar Hindawi era riuscito a procurargli un incontro con soggetti provenienti da Roma, uno dei quali verosimilmente di nazionalità italiana, mentre gli altri tre provenienti da altri Paesi […]. Questi appartenenti alle strutture dei servizi segreti, gli hanno richiesto un supporto per un progetto di eliminazione di Giovanni Falcone al quale, in Italia, alcuni personaggi già stavano lavorando. Gli chiesero se poteva fornire loro un’indicazione di individui in grado di agevolare l’esecuzione di un attentato. Francesco Di Carlo, avendo motivi di rancore personale nei confronti di Falcone, che lo «aveva fatto condannare», forniva loro il nominativo di suo cugino Antonino Gioè, il quale, poi, veniva effettivamente contattato. Lo stesso Di Carlo, successivamente, avvertiva Gioè di essere cauto con tali personaggi […]. Di Carlo ha riferito anche di un secondo incontro, svoltosi a distanza di 4-6 mesi dal primo, una sera intorno alle 20, con quattro personaggi dall’accento americano o inglese, che, mostrando di essere a conoscenza del precedente incontro, lo invitavano a collaborare con la giustizia, chiedendogli informazioni sull’omicidio del banchiere Roberto Calvi [di cui Di Carlo è il probabile killer] e minacciandolo di morte. Di Carlo ha aggiunto, inoltre, di aver fatto avere a Salvatore Riina, tramite suo fratello Giulio […] e […] Antonino Gioè, una lettera con la quale spiegava quanto era accaduto e di aver avuto, in seguito, nel corso di un colloquio telefonico, assicurazioni da parte di Riina, che lo ha tranquillizzato con la promessa che si sarebbe occupato della situazione e avrebbe risolto il problema.”

^11 – Bellini è un pluripregiudicato con trascorsi nella destra eversiva. Collaboratore del Sismi nei primi anni ottanta, viene successivamente coinvolto nelle indagini sulla strage alla stazione di Bologna. E’ il protagonista di una delle “trattative” intavolate dallo Stato con la mafia per conto del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dei Carabinieri nel periodo in cui Cosa Nostra prepara la strage di Capaci. La “trattativa” ha come scopo il recupero di opere d’arte rubate in cambio di benefici carcerari per alcuni boss mafiosi. Bellini inoltre è anche il suggeritore di quella che poi, curiosamente, sarà la strategia messa in atto da Cosa Nostra nella campagna stragista del 1993 a Roma, Firenze e Milano, con obiettivo beni appartenenti al patrimonio nazionale.

^12 – Narracci era già stato indagato a Caltanissetta insieme a Bruno Contrada. La loro posizione è stata archiviata nel 2002.

^13 – L’agente dei servizi che per 30 anni avrebbe fatto da collegamento tra mafia e pezzi delle istituzioni.

^14 – Bongiovanni Giorgio e Baldo Lorenzo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, Aliberti.

^15 – Marchese, cognato del temuto e sanguinario boss Leoluca Bagarella (a sua volta cognato di Riina), è stato il primo “pentito” tra le fila dei cosiddetti corleonesi. Secondo una sua testimonianza resa attendibile dal giudice di primo grado, nel 1981, una soffiata di Contrada avrebbe permesso a Totò Riina di evitare una perquisizione nella villa dove svolgeva la sua latitanza. “Mio zio Filippo [Marchese] mi tirò da parte e mi disse di andare ad avvisare, dice, ‘u zu Totuccio e ci dici: «Fici sapiri ‘u dottor Contrada che hanno individuato la località dov’è che praticamente lui stava [Riina]; dice nelle mattinate dovrebbero fare qualche diciamo perquisizione…». Sono andato là a trovarlo, in questa villa e gli dissi: «Che li sapere me zio, che ci fici sapere ‘u dottor Contrada che dice cà ci avissi a essire una perquisizione…».”

^16 – Torrealta Maurizio, La Trattativa, Biblioteca Univ. Rizzoli.

^17 – Torrealta Maurizio, La Trattativa, Biblioteca Univ. Rizzoli.

^18 – Frase di Paolo Borsellino resa nota da suo fratello Salvatore in una lettera aperta, scritta poche ore dopo la scarcerazione di Contrada.

^19 – Nelle motivazioni della scarcerazione, i giudici Angelica Di Giovanni e Daniela Della Pietra spiegano di non aver concesso la sospensione della pena a Contrada (richiesta dai suoi legali) e di aver disposto gli arresti domiciliari a causa della “pericolosità sociale dello stesso” e della “entità della pena sino a oggi sofferta e di quella residua”.

^20 – Campanella, nominato nel 2000 segretario nazionale dei giovani dell’Udeur, ha indicato (nel 2006) come organico alla cosca di Villabate l’attuale ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali Francesco Saverio Romano.

^21 – Dal decreto di archiviazione per concorso in strage del gip di Firenze nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri: “[Si sono acquisiti] risultati significativi in ordine all’avere Cosa Nostra agito in seguito ad input esterni, a conferma di quanto già valutato sul piano strettamente logico; all’avere i soggetti di cui si tratta [Berlusconi e Dell’Utri] intrattenuto rapporti non meramente episodici con soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato; all’essere tali rapporti compatibili con il fine perseguito dal progetto. […] [Va] rilevato come l’ipotesi iniziale [l’accusa di concorso in strage] abbia mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità […].”

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