Non si può lasciar morire un popolo
Nell’est della Repubblica Democratica del Congo l’emergenza continua, come del resto fin dal 1996. Quello che sta accadendo da anni nella Regione dei Grandi Laghi, nella RD Congo in particolare, è assai grave. Alla “grande guerra africana” partecipano diversi contendenti e gruppi d’interesse, che si affrontano sul campo attraverso eserciti regolari e formazioni armate di rivoltosi.
Il conflitto, esploso nel 1997, dopo la salita al potere di Laurent Desiré Kabila (che ha posto fine all’ultratrentennale dittatura di Mobutu), ha provocato in tre anni decine di migliaia di morti ed ingenti devastazioni. Ma nel 1998, ribelli Tutsi, organizzati in gruppi armati come il Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD), fiancheggiato dai soldati ruandesi, e il Movimento di Liberazione del Congo (MLC), appoggiato invece dalle forze armate ugandesi, hanno iniziato una dura lotta contro le fazioni fedeli al presidente Kabila, spalleggiato a sua volta dagli eserciti di Angola, Namibia e Zimbabwe.
Una “Guerra Mondiale Africana. Tra i diversi motivi che contribuiscono ad alimentare il conflitto si possono individuare complessi interessi strategici (rafforzare il proprio ruolo regionale, assumere il controllo di fragili aree di frontiera), politici (lotta a bande ribelli sconfinate, rispetto di alleanze storiche) e di prestigio; senza dimenticare i vantaggi economici che diversi gruppi d’interesse (vicini e lontani) traggono dalle enormi risorse (forestali, petrolifere ma soprattutto minerarie, il controllo dei ricchi giacimenti di diamanti, oro e coltan del Congo orientale) del paese. Ad uno stato di guerra civile interna, che di fatto ha tagliato in due il paese, si sono aggiunti una serie di altri complessi fattori; questi vanno dal coinvolgimento dei paesi limitrofi (che ha dato alla guerra una chiara dimensione internazionale), all’esplosione di scontri di natura etnica. I risvolti più drammatici del conflitto si sono quindi riscontrati nella crudeltà delle tecniche di guerra, che hanno particolarmente colpito la popolazione civile e le fasce più deboli della società. La guerra si è segnalata anche per l’alto numero di “bambini-soldato” (dai 12 ai 16 anni) coinvolti, sia tra le forze governative che nelle file opposte.
Il Congo si è così ritrovato diviso in una parte orientale controllata dai ribelli e una occidentale ancora in mano alle truppe di Kabila.
Almeno 350mila le vittime dirette di questo conflitto, 2 milioni e mezzo contando anche i morti per carestie e malattie causate dal conflitto.
Il processo di pace è stato avviato nel luglio del 1999 con la firma dell’accordo internazionale di Lusaka, ma sul campo i combattimenti non sono mai cessati. nemmeno dopo che le nazioni coinvolte nel conflitto hanno iniziato a ritirare i propri eserciti regolari nel febbraio 2001 e i caschi blu del contingente MONUC (Missione ONU in Congo) sono arrivati per sorvegliare la tregua.
A combattersi ora sono, da una parte, una mutevole schiera di gruppi ribelli tutsi appoggiati dagli eserciti di Ruanda e Uganda (MLC e RCD), e dall’altra le milizie tribali che prima combattevano in appoggio alle truppe governative congolesi, guerrieri come i Mai Mai, i Donos e i Kamajors (federati nelle FDD: Forze per la Difesa della Democrazia) e i miliziani hutu Interahamwe ruandesi, rifugiatisi nelle foreste del Congo orientale nel 1994 dopo aver compiuto il tremendo genocidio di oltre mezzo milione (forse 800mila) di tutsi ruandesi..
Cambiamenti di fronte e di alleanze sono la costante: star dietro al continuo nascere e morire di nuove sigle di gruppi combattenti è davvero un’impresa.
Soprattutto dalla parte dei ribelli tutsi filo-ruandesi/ugandesi, che ultimamente si combattono anche tra di loro.
Strettamente collegato alla ribellione congolese è il conflitto etnico tra gli Hema e i Lendu, che si combattono (con migliaia i vittime) dal giugno del 1999 nella regione dell’Ituri, nel nord-est del Paese, territorio affidato al controllo dell’esercito ugandese.
Leggi la genesi dettagliata del conflitto anche qua.
Il terrore e i massacri continuano a provocare un esodo di massa, dai villaggi non protetti dalla Forza multinazionale d’intervento rapido “Artemide” verso la città di Bunia e altre destinazioni giudicate meno pericolose. Numerose persone provenienti da Medu, Lipri e Zumbe, tre località situate nelle vicinanze di Bunia, attualmente ospitate nel campo profughi allestito presso l’aeroporto della città, hanno paura di ritornare a casa per il timore di venire uccise nottetempo; gli aiuti umanitari distribuiti nei quartieri non hanno ancora convinto gli abitanti di Bunia a lasciare i campi di fortuna e ritornare alle proprie abitazioni.
La città di Bogoro, un tempo fiorente centro turistico ed economico del territorio dell’Irumu, sulla strada per Kasenyi-Tchomia, oggi non esiste più. In un mese di cieca violenza, è stata quasi cancellata dalla mappa del Congo senza che alcuna forza abbia potuto proteggere la sua popolazione. La stessa Tchomia appare svuotata di quasi tutti i suoi abitanti e la metà dei territori di Jugu e Irumu sono stati decimati, saccheggiati e incendiati dai gruppi armati di ogni parte. Aru e i suoi dintorni subiscono le atrocità degli appartenenti alle Forze armate per il Congo del comandante Jèrôme Kakwavu, ancora sostenuto dall’Uganda malgrado l’insediamento del governo di transizione a Kinshasa.
“Per risolvere il problema della sicurezza a Bunia e in generale nella regione dell’Ituri, la nuova forza della Monuc deve innanzitutto guadagnarsi la fiducia della popolazione che vive nell’incertezza del domani e che è disperatamente in cerca di protezione e di giustizia.
Reagire alla crisi in atto nella Repubblica Democratica del Congo è indispensabile per proteggere la popolazione civile, ma a questo deve accompagnarsi un processo politico che miri a creare un contesto duraturo per il dialogo nazionale e soprattutto per l’istituzione di meccanismi giudiziari nazionali per i crimini comuni e di giustizia internazionale per i crimini di guerra e gli altri crimini contro l’umanità.”, sostiene Amnesty International
Alcuni dati diffusi dall ‘UNICEF relativi al Congo:
Nel Congo orientale la situazione umanitaria risulta ancor più grave: una famiglia su 8 ha sofferto la perdita di un proprio membro a causa della guerra, migliaia di bambini sono arruolati forzatamente nelle varie milizie, costretti a combattere e ad uccidere, a commettere o ad assistere ad atrocità efferate; donne e bambine sono vittime dello stupro sistematico, usato come arma di guerra, mentre molte altre sono costrette a prostituirsi in cambio semplicemente di cibo o “protezione”.
Dal maggio 2003, il numero degli sfollati nell’est del paese è passato da 2,8 a 3,3 milioni di persone. A metà giugno, i dati a disposizione dell’UNICEF indicavano oltre 300.000 sfollati in Ituri, tra cui 20.000 bambini.
* 3,3 milioni di morti in 5 anni di guerra: 30.000 i bambini soldato coinvolti, 8.000 solo in Ituri. Crisi nelle regioni orientali: 3,3 milioni gli sfollati.
* Mortalità infantile in aumento: 1 bambino su 5 muore prima del 5° anno.
* 1.900.000 bambini affetti da malnutrizione acuta
* Nel 2003 assistenza a 5.000 tra bambini e donne vittime di abusi sessuali e ad altri 550 a rischio, molti dei quali affetti da HIV/AIDS: in Congo il 20% della popolazione è sieropositiva (oltre 170.000 bambini con meno di 14 anni risultano contagiati, mentre 927.000 sono quelli resi orfani dall’AIDS. ).
* Oltre 10.000 bambini di strada nella sola capitale
* Il 51% dei bambini non ha accesso alla scuola, tra i 3 e i 3,5 milioni non hanno alcuna istruzione
* Con oltre il 70% della popolazione che non ha accesso all’assistenza sanitaria di base.
* Il tasso di mortalità materna registra in media 950 gestanti morte ogni 100.000 parti, per complicazioni insorte durante la gravidanza o il parto.
* Appena il 45% e il 21% della popolazione congolese ha, rispettivamente, accesso ad acqua potabile e a servizi igienico-sanitari.
Un dramma che i giornali raramente restituiscono, per comprendere e per agire. Perché adesso si può ancora togliere giorni all’oppressione, salvare vite, ridare dignità ai popoli. Non parliamo di aiuti umanitari, parliamo di scelte di informazione, di politica, di economia. Parliamo della questione “giustizia”, che vuol dire non accettare di costruire il nostro benessere di Paesi del nord su piani equivoci fatti sulle teste di quelli del sud.
Non si può non sapere: invece siamo costretti a soffermarci sugli amorazzi dei vari principi/ini europei o altre amenità.
Anche questa è censura!