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DI VALERIO LO MONACO
ilribelle.com

Una delle domande ricorrenti alle quali abbiamo tentato di dare delle prime risposte nel corso dei mesi passati – e in particolare nel mensile di maggio – riguarda cercare di capire il motivo per il quale una vera e propria rivoluzione, in Italia ma in senso lato in larghissima parte del mondo occidentale, tarda a innescarsi.È una domanda che del resto ci viene posta spesso, sia via email sia nei commenti al sito del Ribelle, ed è un quesito che torna di attualità proprio adesso dove l’ultima tornata elettorale in Grecia, ovvero il paese che più di ogni altro sta patendo gli effetti dell’evidenza di questa crisi e dei sistemi sbagliati messi in atto per risolverla, abbia visto l’affermazione (sebbene con appena il 62% dei votanti rispetto agli aventi diritto) ancora una volta di un partito conservatore e in definitiva perfettamente aderente ai diktat della trojka che hanno sprofondato il popolo greco nella situazione quale versa. Come dire, malgrado l’evidenza, si continua a perseverare nell’errore e a concedere fiducia in chi di fatto ci ha messo in questa situazione. E dunque: se persino in Grecia ancora una vera e propria rivoluzione non nasce, come è possibile che ciò avvenga altrove? È necessario tornare sull’argomento.

I motivi a nostro avviso sono principalmente due. Il secondo molto più importante e profondo, ormai antropologico, diremmo, del primo. 

Intanto, evidentemente, i popoli del cosiddetto occidente non sono ancora alla fame. Sebbene privati di molto – soprattutto del futuro, cosa della quale non si sono resi bene conto – sebbene in condizioni certamente e nettamente peggiori di qualche anno addietro, non si è arrivati – ancora – a una situazione insopportabile. I più hanno ancora denaro da mettere nelle ricariche telefoniche dei cellulari e per pagare l’abbonamento alla pay per wiew. E accettano anche di rinunciare a qualcosa di essenziale pur di acquistare l’ultimo elettrodomestico uscito o di andare a mangiare sushi in un ristorante gestito da cinesi con degli egiziani in cucina o, ancora, farsi taglieggiare dalle tariffe dei traghetti per raggiungere quella sudatissima e ingorgatissima settimana di ferie in Sardegna.

Fuori di ironia, se di ironia si tratta, e fuori da qualsiasi discorso semplicistico eppure terribilmente realistico, questo fatto, l’avere ancora denaro in tasca, non rappresenta l’ostacolo più grande al fine di una rivoluzione di cui c’è un disperato bisogno. E per un motivo molto semplice: tale situazione è destinata fatalmente a peggiorare. Già la recessione morde forte in Europa e nel nostro Paese, e senza bisogno di scomodare super tecnici o calcoli troppo difficili, è realistico pensare che sia destinata ad aumentare.

Ma l’altro motivo, come dicevamo molto più profondo, è al momento, invece, di forza praticamente insuperabile. Ci vorranno generazioni, forse. Difficilmente un cambiamento si potrà vedere nel corso di questi anni che stiamo vivendo. 

Il punto risiede in questo: è nella natura di tutta l’impalcatura giuridica, culturale ed economica occidentale proveniente dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, cioè a Seconda Guerra Mondiale appena conclusa – se non da prima, ovvero dall’avvento del Cristianesimo in Europa, e quindi del Calvinismo – che insiste il processo, ancora in corso, dello sfaldamento delle identità collettive. Collettività, comunità, sentire comune, sentirsi parte di una società, insomma cittadinanza a qualcosa, sono le sole precondizioni affinché un moto del singolo possa essere sentito da più persone e diventi, appunto, moto di popolo. La chiave di lettura è che non esiste più un popolo, o meglio, non esistono più i popoli, ma solo masse di individui soli.

Se, del resto, a guidare i processi sociali mediante l’imposizione delle regole economiche, finanziarie e in ultima analisi prettamente materialistiche sono in fin dei conti poche persone, pochi centri di potere che però di fatto si organizzano, o comunque si ritrovano organizzati attorno a degli obiettivi comuni, nei confronti di tutti gli altri che invece sono soli e dispersi, si evince con tutta chiarezza che saranno sempre e solo i primi a prevalere sui secondi. Anche se il rapporto di teste in campo è di 1 a un milione, saranno sempre quelle 600 famiglie a far valere i propri diritti personali, ma corrispondenti in un sentire comune – arricchimento della superclasse mediante la speculazione sui popoli – rispetto ai miliardi di altre persone che hanno inculcate in testa i vacui diritti dell’uomo, cioè del singolo, ma che hanno perso del tutto la possibilità di avvertire un diritto comune, cioè dei popoli.

In realtà, come qualsiasi tipo di diritto, i “diritti dell’uomo” hanno fondamento unicamente all’interno delle vicende storiche da cui sono emersi, e siccome la “dichiarazione universale” è una concezione essenzialmente occidentale o meglio, diciamola tutta, essenzialmente statunitense e anglosassone, è evidente che sia impregnata della filosofia politica dell’individualismo. I documenti successivi alla Dichiarazione, peraltro, sono sulla stessa falsariga. Sia il Patto sui Diritti Civili e politici sia il Patto sui diritti economici, sociali e culturali (entrambi approvati nel 1966) si basano sullo stesso concetto originario. 

Ora, il carattere universale che si è voluto dare a tali diritti è un puro postulato razionalistico che non solo non ha conferme dal punto di vista teorico, non solo è storicamente contestato da tutta una serie di culture differenti da quella occidentale, ma osta in modo diretto al riconoscimento intanto dei diritti collettivi, e in secondo luogo anche dei doveri collettivi. “Nella classica visione individualistica e liberale dell’Occidente”, scrive Danilo Zolo, “i “diritti dell’uomo” sono delle protesi normative a tutela della libertà personale, dei beni individuali e della privacy contro le interferenze di altri soggetti”. 

Il primo soggetto a essere escluso dai diritti è pertanto la collettività, tanto che, e questa è la prova del nove, questo concetto è del tutto estraneo a culture anche non integraliste – per quanto possa significare il termine “integralista” quando pronunciato da un soggetto appartenente a una cultura differente – alle quali, puntualmente, facciamo la guerra. In altri tempi vi era un senso superiore di appartenenza alla comunità, nel quale l’individuo si identificava non tanto rivendicando diritti ma soprattutto adempiendo a doveri, e cioè seguendo scrupolosamente delle regole collettive di comportamento. 

Il processo del progetto cosmopolitico al quale siamo stati e siamo sottoposti ha l’effetto implicito di investire le civiltà e le culture, cioè i popoli e gli Stati, privandoli della loro identità e della loro dignità. Confutare questo, semplicemente vedendo lo stato attuale delle cose, è impossibile. Una società, una collettività privata dello spirito comune è semplicemente una massa di individualità che non si sente legata a nulla se non a ogni proprio particolare. Estranei uno all’altro. Sperare che possano unirsi per una causa comune che necessita di mettere in campo tutto se stessi (non si penserà mica che ci lascino fare una rivoluzione pacata e democratica, vero?) è una speranza vana se prima non ci si riprenderà – o rifonderà – lo spirito della collettività. 

Ma esiste infine anche un terzo motivo ad ostacolare la nascita di una rivoluzione: nessuno, o quasi, è disposto a rinunciare a nulla di ciò che aveva sino a qualche tempo addietro. Anche se nel profondo di sé, e sono i casi migliori, quelli più lucidi, si ha la consapevolezza che quel mondo, quel modo di vivere, sia profondamente sbagliato e soprattutto non sopportabile né a livello psicologico né a livello delle risorse del pianeta, a livello pratico nessuno o quasi è veramente convinto di accettare volontariamente delle rinunce, in termini di confort moderno, per tornare a un tipo di vita sostenibile per se stessi, per le altre popolazioni sfruttate, e per la terra sulla quale vive. Questi puntano, e si battono nei modi che ritengono comodamente opportuni, affinché si torni a come si stava qualche anno addietro.

Certamente sperano intimamente che si torni alla situazione ante-crisi. Situazione già disastrosa, eppure considerata ipocritamente percorribile. Malgrado le storture che tale modello creava (e crea) nel mondo, la parte grassa del pianeta era egoisticamente convinta che fosse la sola percorribile: che il resto, in estrema sintesi, potesse andare solo in quel modo. Se stavamo distruggendo la terra e sfruttando altri popoli, nei salotti radical chic era cosa deprecabile, ma non tanto da fare in modo di cambiare la situazione se questo avesse comportato anche un impercettibile peggioramento della propria situazione.

Il termine italiano per definire tale comportamento esiste: ipocrisia. Che affiancata all’egoismo di non voler rinunciare a una situazione dal punto di vista materiale certamente più agiata rispetto a quella vissuta dagli altri quattro quinti della popolazione mondiale, forma una catena impossibile da spezzare. Stavamo distruggendo il mondo e affamando i popoli ma non si era disposti a nulla per cambiare la situazione.

 

A questo punto è evidente che sino a che non si riscoprirà un sentire comune, privo di pocrisia ed egoismi, non vi potrà mai essere anche una sollevazione comune, che in questo caso dovrebbe necessariamente prendere le forme di una rivoluzione comune. Alcuni sostengono che tale sentire debba inscriversi – o rifondarsi – nello spazio geografico dello Stato Nazione, altri ancora più in piccolo, in seno cioè a delle comunità locali geograficamente organizzate in un territorio comune, riconoscibile in quanto visibile a occhio nudo, cioè raggiungibile mediante prossimità. 

Sono probabilmente necessari entrambi gli scenari e spazi. Se  oggi non si riconosce neanche una solidarietà con i propri condomini, con i residenti nella propria via, nel proprio quartiere o nel proprio paese per quanto piccolo esso sia, sarà impossibile riconoscersi in uno spazio più grande come quello nazionale. Ma oggi c’è bisogno di un sentire comune più grande, continentale nel senso schmittiano di impero. È insomma l’Europa che deve reagire all’ondata mercantilista e utilitarista della forma-capitale proveniente dagli Usa e dilagata poi anche in parte dell’Oriente. Ma l’Europa di oggi dal punto di vista politico non esiste, e quella che esiste è in mano a tecnocrati e banchieri che hanno i medesimi interessi di chi dovrebbe invece ostacolare. L’Europa oggi non riconosce neanche il proprio nemico principale. Per dirla alla de Benoist, o l’Europa si farà in chiave anti-Usa e tutto ciò che gli Stati Uniti nel mondo rappresentano economicamente e culturalmente, oppure non si farà.

Valerio Lo Monaco
www.ilribelle.com
Giugno 2012

Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle”

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