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COMMOZIONE INDOTTA

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A cura di Davide
Il 17 Gennaio 2010
63 Views

DI MASSIMO FINI
antefatto.ilcannocchiale.it

Un paio di anni fa, a Roma, nel popoloso quartiere di Porta Pia, un portinaio che stava pulendo delle vetrate al quarto piano di un palazzo perse l’equilibrio e precipitò sul selciato, morto. La gente che passava aggirava il cadavere oppure disinvoltamente lo scavalcava, badando bene a non inzaccherarsi le scarpe. La settimana scorsa passavo per via Fabio Filzi, a Milano, una strada piena di negozi e di gente. Un uomo era riverso per terra, la testa fra il basello del marciapiede e la strada. La gente passava, guardava e tirava dritto. Lo feci anch’io. Avevo fretta. Ma dopo cinquanta metri mi bloccai. “Ma sono diventato pazzo, indifferente a tutto, disumano, solo perché potrei mancare un appuntamento che mi preme?”. Ritornai sui miei passi e mi chinai sull’uomo. Era un ubriaco in coma etilico.
Poiché era caduto proprio davanti a un grande magazzino, una Upim mi pare, chiesi alla guardia giurata che vi stazionava davanti se aveva chiamato l’ambulanza. “No” rispose. “La chiami”. “Non è affar mio”. “Come non è affar suo? È affare di tutti”. “È solo ubriaco”. “Ma non vede che sta male?”. Intanto poiché io mi ero fermato ed ero chino sull’uomo si era formata una piccola folla di curiosi. Ma non faceva nulla, era lì solo per godersi lo spettacolino fuori ordinanza.

Quando succedono tragedie come quella dell’Aquila o di Haiti gli italiani sono prontissimi a metter mano al portafoglio. Vespa raccontava l’altra sera che solo attraverso il suo programma aveva raccolto quattro milioni di euro. E anche questa volta, per la ben più lontana Haiti, gli italiani si sono mossi con rapida generosità. C’è un legame fra questi comportamenti apparentemente così contraddittori? Sì. L’uomo ha una capacità limitata di emozionarsi, di soffrire per gli altri, di solidarizzare. Non può farlo per il mondo intero. Invece la Tv globalizzata lo costringe a questo esercizio. Un tempo, poiché non vedevamo nulla, ci importava assai poco di un terremoto ad Haiti, per quanto terrificante.

In una bella commedia anni ’50, “Buonanotte Bettina”, Walter Chiari si chiedeva: “Se schiaccio un bottone e muore un cinese in Cina ho veramente ucciso qualcuno?”. La distanza contava. Oggi la Tv ha abolito questa distanza. Ma a noi di un terremoto ad Haiti continua a non importarci nulla. Però, poiché, diversamente da Walter Chiari, che non vedeva il cinese ucciso in Cina, ci sentiamo in colpa per questa indifferenza, ci precipitiamo a mandare denaro. Ma questa mitridatizzazione delle emozioni, cui ci costringe la continua sollecitazione dei media, finisce per colpire anche il nostro vicino, colui che potremmo veramente e concretamente aiutare o per il quale potremmo provare un’autentica compassione. Ho vissuto per una decina di anni fra Italia e Svizzera (avevo una fidanzata che abitava a Lugano) e ho potuto notare che gli svizzeri sono instancabili, ancor più degli italiani, nello staccare assegni per qualsiasi calamità che capiti in qualsiasi posto del mondo.

Nel periodo in cui ero lì un immigrato italiano, un giorno, prese un kalashnikov e fece fuori, d’un colpo, sei svizzeri (con la sotterranea soddisfazione della comunità italiana di Lugano). Quale il movente? Viveva da vent’anni nella Confederazione e non era riuscito a farsi un solo amico svizzero. La Modernità ha abolito le distanze. Noi siamo in contatto, via Tv o Internet, con il mondo intero. Con tutti e con nessuno. Conosciamo tutti ma non il vicino della porta accanto. Spargiamo la nostra emotività per tutto l’orbe terracqueo ma, al momento del dunque, non siamo in grado di riservarla al vicino, al vero “prossimo”, che è colui che possiamo toccare e che, come nota lo psicologo junghiano Luigi Zoja in uno splendido libro, è scomparso dalla nostra vita (“La morte del prossimo”, Einaudi).

Massimo Fini
Fonte: http://antefatto.ilcannocchiale.it
Link; http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2419910&yy=2010&mm=01&dd=16&title=la_stecca_di_indro
16.01.2010

da Il Fatto Quotidiano del 16 gennaio 2010

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