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DI JOSEPH HALEVI
Il Manifesto

L’attuale crisi economica si presenta come una malattia a lunga gestazione che, come vedremo, ha circa due decenni di incubazione e il cui decorso è incerto. L’unica cosa certa è l’aggravamento della deflazione salariale, quindi del vero fattore alla base della crisi. Questa viene imputata agli Usa, ma è un errore. Gli Stati uniti d’America sono il perno del capitalismo mondiale. Ma quando sono iniziate alla grande le esportazioni cinesi?

Negli anni ’80, quando gli Usa concessero a Pechino lo status di «nazione più favorita», dando così il via al fenomeno dell’outsourcing su scala mondiale, ma localizzata soprattutto in Cina. Anche per le regole riguardanti la liberalizzazione dei movimenti di capitale, le iniziative sono partite dagli Stati uniti per ragioni connesse alla fragilità in cui era incorso il sistema bancario Usa in seguito al suo coinvolgimento nell’indebitamento dell’America Latina e del Messico in particolare. Ne sono scaturite le regole di Basilea, valide per tutti, che hanno creato più problemi che soluzioni; tanto come concausa della crisi asiatica del 1997 che, nella versione Basilea II, come importante fattore di opacità nel caso dei subprime. Si vedano le «legali» operazioni di off balance sheet (fuori bilancio) effettuate da varie banche nelle condotte che «investivano» in cartacce (proprio per aggirare Basilea II).

Dal 1919 gli Usa definiscono il sistema capitalistico mondiale e dal 1945 ne determinano le regole istituzionali in forma diretta ed autoritaria. Dalla fine dei cambi fissi, operata da Nixon nel 1971, lo fanno in maniera non cooperativa con gli altri paesi occidentali. La centralità degli Usa riflette la strutturazione del capitalismo mondiale e il fatto che gli altri poli capitalistici – come Germania e Giappone – non siano mai riusciti a sviluppare un approccio operativamente diverso, ne è una concreta conferma. Non si tratta quindi di crisi americana, bensì della crisi del sistema finanziario capitalistico odierno, che va dalla Bear Stearns alle Landesbanken pubbliche tedesche, al Crédit Suisse.

Oggi, intenzionalmente presentata come un’esuberanza, l’ondata di finanziarizzazione speculativa – fino all’anno scorso decantata come una serie di «innovazioni» – è stata invece la risposta alla stagnazione della seconda metà degli anni ’70, quando negli Usa inizia la caduta dei salari reali. L’impoverimento della popolazione e la disarticolazione dell’industria, che apre la voragine del deficit con l’estero, impediscono una ripresa dei profitti basati sulle vendite. Società automobilistiche, elettrodomestici e elettronica di consumo fanno soldi grazie agli interessi percepiti attraverso le loro finanziarie che offrono credito ai consumatori. E’ l’indebitamento delle famiglie a rendere. In questo frangente si toccano con mano le conseguenze del violento spostamento effettuato da Reagan verso il settore militare e finanziario.

Negli anni ’80 la spesa pubblica tiene in piedi l’economia, ma i guadagni provengono da attività finanziarie. Come ha mostrato Luciano Gallino (L’impresa irresponsabile), l’ipertrofia finanziaria resa possibile dagli alti tassi praticati da Volcker sposta la composizione del capitale in favore di investitori istituzionali, detentori di titoli ed obbligazioni. La nuova composizione del capitale permette di elaborare economicamente e legalmente strategie di recupero dei profitti che diventono in realtà delle plusvalenze. Gli investitori istituzionali intendono massimizzare il valore delle azioni in borsa. Le ristrutturazioni e le decurtazioni salariali servono a mostrare che tutto viene fatto per rendere disponibile un maggior surplus per il pagamento dei dividendi. La pubblicizzazione di tali operazioni dovrebbe far aumentare rapidamente il valore delle azioni in borsa. Nei fatti si mira ad effettuare operazioni di ristrutturazione e di scorporo per ottenere delle plusvalenze indipendentemente dai guadagni nella vendita di merci e servizi.

Lo iato crescente tra valori borsistici e guadagni effettivi può sostenersi solo se si ricorre ad un indebitamento crescente. Nascono quindi i noti schemi che portano alla creazione di «cartacce», inizialmente solo all’interno del sistema finanziario e borsistico. La girandola si sarebbe fermata da sola, con fallimenti di vasta portata. Tuttavia, proprio per la loro dimensione, i crolli hanno imposto alle autorità monetarie di alimentare il «rischio morale», regalando soldi agli organismi fallimentari. Che altro era il salvataggio di 50 miliardi di dollari operato da Clinton nel 1995, se non il trasferimento di liquidi alle finanziarie Usa che erano andate a cercare elevate rendite in Messico, esattamente come stavano facendo quelle europee in Argentina? Senza tali politiche la stagnazione latente sarebbe riapparsa negli Usa quanto meno nella maniera in cui si è manifestata in Europa. Queste politiche hanno permesso l’espansione della domanda finale, avvolta in una bolla speculativa, mantenendo la deflazione. Ottimo! Anche l’indebitamento estero del paese ha aiutato a tenere in piedi la baracca. Infatti gli Usa chiudono il circuito della domanda effettiva estera, sia nipponica che cinese; questi due paesi sono perciò interessati a riciclare le eccedenze nel sistema finanziario statunitense malgrado i costi connessi all’investimento in buoni Usa in via di svalutazione. Quando però le plusvalenze non hanno alcun rapporto con i guadagni effettivi, ulteriori plusvalenze possono ottenersi solo allargando la spirale finanziaria e coinvolgendo anche chi è pienamente coinvolto nella deflazione salariale; si fa balenare la possibilità di acquistare un bancomat, cioè una casa che dovrebbe rivalutarsi in permanenza e permettere nuovi debiti. E’ tutto conseguenziale e sistemico, non un’«ubriacatura speculativa», come sostengono gli editorialisti.

Con il terminale formato dal reddito reale in panne, il sistema è entrato in crisi e il rilancio della girandola è impossibile. Senza grandi spese pubbliche reali – e con la deflazione salariale e delle pensioni destinata ad accentuarsi per via della debolezza degli Usa, dell’Europa e del ruolo di esercito industriale di riserva operato dalla Cina e dall’India – lo scenario è quello di una grande e prolungata stagnazione americano-europea.

Joseph Halevi
Fonte: www.ilmanifesto.it
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20.03.2008

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