COME SARAJEVO NEL 1914?

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L’indipendenza del Kosovo è la miccia di un barile di polvere da sparo.

DI JURGEN ELSASSER
Reseau Voltaire

Gli Stati Uniti hanno messo a punto un processo per la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, il 17 febbraio prossimo, seguita dal suo riconoscimento da parte di un centinaio di Stati. Ciò facendo, non solo ammetterebbero che l’operazione della NATO nel 1999 era una guerra di conquista, ma aprirebbero anche la porta a qualsiasi rivendicazione separatista nel mondo. Ed è questo lo scopo, dato che per loro si tratta di provocare la disintegrazione della Federazione Russa, tramite ondate di choc. Un gioco pericoloso, denuncia Jürgen Elsässer, che per sua natura destabilizzerebbe tutta l’Europa.

Willy Wimmer, deputato della CDU al Parlamento tedesco (Bundestag) ha scritto recentemente:

Quando nel 1918, il mondo di ieri era ridotto in cenere e si preparavano con molta perfidia le fondamenta del prossimo grande conflitto, non si volle perdere tempo a cercare le cause della guerra. Si dichiarò che erano i colpi di pistola di Sarajevo che erano costati la vita alla coppia di eredi del trono austriaco. Tutti ricordavano l’evento e non c’era bisogno di fare domande sui fattori interni e esterni, che erano molto più determinanti rispetto all’attentato di Sarajevo.

Finora non c’è stato alcuno scambio di colpi durante i negoziati sull’avvenire del Kosovo, ma alcune firme su alcuni documenti potrebbero avere lo stesso effetto dei colpi di pistola. Gli stoppini sono qui, e vanno dall’Irlanda del Nord al Tibet e a Taiwan, passando per i paesi baschi, Gibilterra e il Caucaso”.

La situazione attuale nei Balcani ricorda in modo inquietante quella che portò alla Prima Guerra Mondiale. Dopo anni di dispute, la Germania e le altre potenze avevano trovato nel 1878, alla Conferenza di Berlino, un compromesso sul nuovo ordine dell’Europa del Sud-Est: la provincia ottomana di Bosnia doveva rimanere turca de jure ma doveva simultaneamente essere amministrata de facto dall’Austria. Nel 1908 Vienna infranse il trattato e annesse la provincia anche de jure. Nel 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando fu ucciso a Sarajevo.

Dopo un centinaio di anni, le potenze della NATO hanno tentato un compromesso simile: dopo la loro guerra di aggressione contro la Iugoslavia nel 1999, hanno imposto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU la Risoluzione 1244 che mantiene de jure il Kosovo nella Serbia, ma lo pone de facto sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite. In seguito, le potenze occidentali si sono dimostrate favorevoli alla secessione totale della provincia e alla sua consegna, controllata dalla UE, alla maggioranza albanese: questo è il progetto del negoziatore dell’ONU Martti Ahtisaari. Dal punto di vista del diritto internazionale, ciò sarebbe possibile se Belgrado fosse d’accordo o se, per lo meno, il Consiglio di Sicurezza approvasse questa soluzione. In assenza di tali condizioni, il Kosovo può dichiarare la sua indipendenza solo unilateralmente, tramite un atto arbitrario illegale. Ed è esattamente ciò che accadrà nelle prossime settimane.

Come un secolo fa, gli interessi degli Stati dell’Europa centrale, della Russia e del mondo musulmano si contrappongono sempre nei Balcani. Qualsiasi cambiamento violento in questo fragile equilibrio può avere delle conseguenze per tutto il continente.

[In questa celebre foto, cinque personalità giurano, nell’ottobre 1999, di portare il Kosovo all’indipendenza. A sinistra si riconosce Hachim Tachi (allora capo del gruppo terrorista UCK, attuale primo ministro del governo regionale del Kosovo), poi Bernard Kouchner (allora amministratore dell’ONU in Kosovo, oggi ministro degli esteri francesi), Sir Mike Jackson (prima comandante delle truppe britanniche al tempo del massacro della Domenica di Sangue in Irlanda [Bloody Sunday], poi comandante delle forze di occupazione della NATO, oggi consulente per un’impresa di mercenari), Agim Ceku (capo militare dell’UCK accusato di crimini di guerra dall’esercito canadese) e a destra il generale Wesley Clarck (allora comandante supremo della NATO, oggi consigliere militare di Hillary Clinton)].

Abbiamo sfiorato la guerra

Nei giorni che seguirono il 10 giugno 1999, si vide come l’Europa del Sud-Est avrebbe potuto essere all’origine di un importante conflitto internazionale.

Dopo 78 giorni di bombardamenti della NATO, l’armata iugoslava era già pronta a ritirarsi dal Kosovo; l’accordo militare a tale proposito tra Belgrado e l’Alleanza atlantica era stato firmato e la Risoluzione 1244 adottata. Tuttavia, mentre le truppe di Milosevic si ritiravano, alcune unità russe stanziate in Bosnia, avanzarono in maniera del tutto inattesa verso Pristina. Sui loro carri armati, i soldati avevano trasformato l’iscrizione SFOR – che indicava la loro appartenenza alla truppa di stabilizzazione nello Stato vicino, sotto mandato ONU – in KFOR, sigla della forza di occupazione del Kosovo che era stata appena decisa. Il presidente russo Boris Eltsin aveva dato il suo assenso perché fosse costituita sotto l’alto comando della NATO ma i suoi generali volevano che la Russia ottenesse almeno una testa di ponte strategica.

Il ministro tedesco degli Affari esteri dell’epoca, Joschka Fischer, ricorda nelle sue memorie quanto fosse drammatica la situazione:

Qualche paracadutista russo non poteva realmente sfidare la NATO dopo la sua entrata in Kosovo perché erano troppo poco numerosi e i loro armamenti troppo leggeri. L’occupazione dell’aeroporto poteva significare solo una cosa: aspettavano i rinforzi aerei. Ciò poteva condurre rapidamente a un pericoloso confronto diretto con gli Stati Uniti e con la NATO. (…) La situazione divenne ancora più pericolosa quando fu confermata la notizia seconda la quale il governo russo aveva chiesto ai governi ungherese, rumeno e bulgaro un’autorizzazione di sorvolo per i propri aerei Antonov di trasporto truppe. Avevano l’intenzione di trasportare 10.000 soldati, in parte per via aerea verso il Kosovo e in parte verso la Bosnia per incamminarli successivamente per via terrestre. L’Ucraina aveva già accordato il permesso ma gli altri paesi mantennero irrevocabilmente il loro veto. Ma cosa sarebbe successo se gli aerei russi fossero passati oltre tale interdizione? Gli USA e la NATO avrebbero impedito loro di atterrare o di sbarcare i propri carichi una volta a terra o sarebbero arrivati fino ad abbatterli in volo? Sembrava qui delinearsi l’eventualità di una tragedia dalle conseguenze imprevedibili”.

Parallelamente alla guerra di nervi a proposito degli aerei russi, la crisi si avvelenò all’aeroporto di Pristina. Le truppe del contingente britannico del KFOR erano arrivate rapidamente e avevano puntato i loro cannoni sugli occupanti non sottomessi dell’aeroporto. L’alto comandante della NATO, Wesley Clark, ordinò di dare l’assalto, ma Michael Jackson, alto comandante britannico della KFOR, mantenne il suo sangue freddo e rifiutò di eseguire l’ordine. Chiamò Wesley Clark al telefono e urlò : “Non rischierò di provocare la Terza Guerra mondiale per voi!

Si ignora come l’Occidente portò il presidente russo a bloccare gli Antonov. In ogni caso, il combattimento all’aeroporto di Pristina fu impedito unicamente perché Jackson rimase rigido. Clark accettò questo atto di disobbedienza. A dire il vero, avrebbe dovuto fare arrestare Jackson dalla polizia militare. In seguito un generale tedesco criticò questo comportamento. “L’indietreggiare dei Britannici e degli Americani era una cattiva risposta in una situazione che non avrebbe mai condotto a un conflitto serio tra la NATO e la Russia”, ha scritto Klaus Naumann, all’epoca presidente del Comitato militare della NATO e di conseguenza l’ufficiale di più alto grado dell’Alleanza.

Missili su Bondsteel

Una situazione così pericolosa può riprodursi nelle prossime settimane?

Già nel 2006, la Fondazione Scienza e Politica (Stiftung Wissenschaft und Politik, SWP), uno dei più importanti think tanks tedeschi, si preoccupava a proposito di una soluzione della questione del Kosovo imposta dall’esterno: “Queste missioni richiederanno un impegno diplomatico durevole e risorse politiche, militari e finanziarie della UE”. Con “risorse militari”, gli autori intendono il KFOR, che comprende attualmente 17.000 soldati di cui circa 2.500 tedeschi.

Un intervento potrebbe avere come bersaglio non solo il Kosovo ma anche la Serbia propriamente detta. La Fondazione prevedeva una situazione “che ricordava la crisi del 1999”, vale a dire i bombardamenti. Eventuali agitazioni nel Kosovo potrebbero estendersi alle province serbe di Vojvodine e di Sandzak, oltre che alla valle di Presevo. Si può leggere più avanti: “manifestazioni di massa implicanti scontri tra forze moderate e forze radicali o con la polizia potrebbero condurre alla dissoluzione delle strutture statali”. Se le strutture statali della Serbia esplodono, l’UE, conformemente alla sua concezione politica, potrebbe assumersi il ruolo di stabilizzatore e apportare una “assistenza fraterna”. I “battle groups” non servono ad altro.

Esaminiamo gli eventi prevedibili nella primavera del 2008.

Tanto la NATO quanto gli Albanesi del Kosovo hanno escluso categoricamente nuovi negoziati, come chiedevano Belgrado e Mosca.

Il 24 gennaio, Hashim Thaci, ex capo dell’organizzazione terrorista UCK e da poco Primo ministro della provincia del Kosovo, ha annunciato che la dichiarazione formale di indipendenza avrebbe avuto luogo “da qui a quattro-cinque settimane”. Il giorno dopo, si poteva leggere nell’International Herald Tribune – che si basava su fonti diplomatiche – che “la Germania e gli USA (si erano) trovati d’accordo per riconoscere l’indipendenza del Kosovo” e ciò “dopo il secondo turno delle elezioni presidenziali serbe del 3 febbraio”. E’ ciò che Angela Merkel e George Bush avevano concordato. Possiamo supporre che la Cancelliera CDU abbia chiesto consiglio al suo compagno di partito Willy Wimmer che fu per molti anni Segretario di Stato al Ministero della Difesa sotto Helmut Kohl.

Dopo la proclamazione ufficiale della “Republika kosova”, i comuni serbi a nord del fiume Ibar affermeranno senza dubbio la loro fedeltà alla Serbia, dunque la loro non appartenenza al nuovo Stato.

Possiamo allora immaginare che truppe armate degli Albanesi del Kosovo penetrino nelle enclave della minoranza, in particolare nel bastione che si trova nel nord di Mitrovica e reprimano brutalmente la resistenza.

Al momento di una tale pulizia etnica a metà marzo 2004, i terroristi skipetari [albanesi del sud; in lingua nazionale albanese skip significa montagna] riuscirono a mobilitare una folla di 50.000 persone. La violenza di questo attacco non venne frenata nonostante i soldati del KFOR si opponessero, almeno parzialmente, agli estremisti. Ne uccisero otto.

Nella situazione attuale, ci si dovrebbe piuttosto aspettare che il KFOR si comporti nel suo insieme come non molto tempo fa il contingente tedesco presso il KFOR: si chiudono gli occhi e si lasciano agire i terroristi.

Nel 2004, nel settore di occupazione tedesco intorno a Prizren, tutte le chiese e tutti i conventi serbi furono incendiati. Certo, da allora, i Serbi del Kosovo hanno costituito delle formazioni di autodifesa di cui la più chiassosa è la Guardia Zar-Lazar, che deve il suo nome ad un eroe della storica battaglia di Amselfeld nel 1389. Questi paramilitari hanno annunciato che, in caso di dichiarazione di indipendenza del Kosovo, lanceranno missili sulla base militare americana di Camp Bondsteel. E’ difficile sapere se si tratta qui di una spavalderia o di un progetto serio. Secondo esperti della regione, è possibile che dietro l’etichetta Zar Lazar si nasconda una banda di provocatori dei servizi segreti occidentali.

Nell’interesse dei paesi membri della NATO, la secessione della provincia deve in ogni caso fare meno rumore possibile ed effettuarsi senza conflitti militari. Ci si adatta alla proteste diplomatiche della Russia e anche di quelle di piccoli paesi della UE come la Slovacchia, la Romania e Cipro. In uno studio di dicembre 2007 la Fondazione Bertelsmann, vicina al governo, ha citato l’esempio di Taiwan: si sa che questa repubblica insulare è stata riconosciuta solo da un piccolo numero di Stati e che non ha un seggio alle Nazioni Unite ma gode da 60 anni di una certa stabilità e persino di una certa prosperità. L’auspicio degli stati membri della NATO sarebbe probabilmente che gli Albanesi del Kosovo, dopo la proclamazione di indipendenza, rinuncino alla violenza contro la minoranza serba e non modifichino, in un primo tempo, le loro strutture di auto-amministrazione nel Nord. Se la NATO bloccasse simultaneamente ogni legame con la Serbia, i Serbi di Mitrovica non avrebbero, alla lunga, altra scelta se non quella di adattarsi ai nuovi autocrati attorno a Hashim Thaci.

Questa strategia di vittoria soft dei secessionisti potrebbe tuttavia essere controbilanciata abbastanza facilmente. La Frankfurter Allgemeine (FAZ) esprimeva i suoi timori alla fine del 2007:

I Serbi potrebbero chiudere il lago della diga di Gazivodsko Jezero, situato nella parte del Kosovo controllata dai serbi e privare così di acqua numerose regioni del Kosovo. Ciò avrebbe delle conseguenze per l’approvvigionamento elettrico, già insufficiente, del Kosovo perché l’acqua di questo lago serve a raffreddare le installazioni della centrale a carbone, non lontana da Pristina.” La NATO reagirebbe rapidamente con la forza contro questa operazione relativamente facile da realizzare: una truppa paramilitare basterebbe per occupare la diga. “Si pensa già”, precisa la FAZ “a fare intervenire la KFOR per impedire ciò, ma allora il livello di confronto militare che l’Occidente vorrebbe giustamente evitare sarebbe raggiunto”.

La Serbia può rispondere

Come reagirebbe il governo di Belgrado se gli Albanesi e i soldati della NATO sparassero sui Serbi?

Proseguirebbero la loro attuale politica consistente nel non intervento militare?

E’ la tendenza in primo luogo del partito governativo più forte, quello dei democratici (DS) attorno al presidente Boris Tadic e al ministro della Difesa Dragan Sutanovac.

Il piccolo partito della coalizione, il Partito democratico di Serbia (DSS) del Primo ministro Vojslav Kostunica è un po’ più audace. Il suo consigliere Aleksandar Simic ha dichiarato espressamente che ogni Stato ha il diritto di ricorrere alla forza delle armi per proteggere la propria integrità territoriale. Ma in caso di crisi, sono il Consiglio della Difesa e il Presidente che hanno l’ultima parola sull’Esercito, vale a dire, nei fatti, Tadic. Di conseguenza, l’Occidente non si sarebbe dovuto preoccupare… se non ci fossero state le elezioni presidenziali.

Il candidato del Partito radicale (RS) Tomislav Nikolic aveva serie possibilità di essere eletto. Già nel 2004 aveva portato Tadic al ballottaggio ed era stato battuto di poco. Indignata da un’imminente dissidenza del Kosovo, una maggioranza di cittadini avrebbero potuto eleggerlo questa volta. L’Esercito serbo sarebbe allora stata piazzato sotto l’alto comando di un uomo politico che si dichiara a favore dello stabilimento di una base militare russa nel paese e il cui partito possedeva la propria milizia al momento delle guerre degli anni 1990.

Questa prospettiva ha sconvolto il calendario dei secessionisti.

Il Consiglio europeo voleva infatti decidere il 28 gennaio l’invio in Kosovo di una truppa di circa 2000 poliziotti – contro la volontà di Belgrado e dunque contro il diritto internazionale, ma necessaria per rendere sicura la secessione. Ma dato che il 28 gennaio precedeva di poco il secondo turno dell’elezione presidenziale decisiva del 3 febbraio, ciò avrebbe costituito una provocazione favorevole a Nikolic. La questione è stata dunque rimandata. Il giorno stesso Bruxelles ha offerto un accordo di associazione all’ex Stato canaglia e ha rinunciato con chiaroveggenza alla condizione posta fino ad allora, vale a dire l’estradizione dei “criminali di guerra” Radovan Karadzic e Ratko Mladic. La UE sperava così di apportare a Tadic i voti di cui aveva bisogno. E’ stato finalmente eletto per un pelo.

Belgrado ha attualmente il sostegno di Madrid.

Secondo il quotidiano serbo Express dell’11 gennaio, il primo ministro José Zapatero avrebbe ottenuto l’assicurazione da parte di altri governi della UE sul fatto che il Kosovo non avrebbe proclamato la sua indipendenza prima del 10 marzo – dunque quattro settimane dopo la data annunciata da Tadic – perché in quella data deve essere eletto il nuovo Parlamento spagnolo. Il governo socialista vuole impedire così che i movimenti separatisti spagnoli utilizzino il precedente balcanico come argomento nella campagna, i Baschi avendo già cominciato a farlo. Come reazione, la maggioranza degli Spagnoli potrebbe allora essere tentata di sanzionare i socialisti, che l’opposizione conservatrice accusa di essere troppo indulgenti nei confronti delle regioni desiderose di realizzare la secessione.

Questi ritardi nel calendario mettono tuttavia a dura prova la pazienza degli Albanesi del Kosovo. Si può temere che essi tentino di spingere la decisione diplomatica attraverso qualche azione violenta spettacolare. Ci si chiede come reagirebbero in questo caso le potenze della NATO… e i Russi. Questi ultimi eleggono ugualmente questa primavera un nuovo presidente e qualsiasi candidato che abbandonerà il fratello slavo dovrebbe aspettarsi di perdere voti.

Jurgen Elsasser
Fonte: www.voltairenet.org
Link: http://www.voltairenet.org/article155095.html
9.02.08

Traduzione per www.comedonchisciotte.org di CHIARA GALLUCCIO

VEDI ANCHE: Kosovo, bubbone internazionale

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