DI ELSA FAYNER
Gli stati membri dell’Unione Europea potranno continuare a sviluppare le loro politiche di salute pubblica, in particolare per quanto riguarda la lotta anti-tabacco? Il Trattato transatlantico, attualmente negoziato con gli Stati Uniti, preoccupa: esso permetterebbe alle imprese di perseguire un Paese, se ritenessero che i loro scambi commerciali fossero bistrattati da una normativa. Questa prospettiva interessa particolarmente le industrie del tabacco, che raddoppiano le pressioni e non esitano a sporgere denunce presso tribunali privati, in nome della libertà di commercio.
Le confezioni di un verde olivastro scuro sono ricoperte di foto e di avvertenze: «Non fate respirare ai i vostri figli il vostro fumo», «Fumare rende ciechi».
Tutti i pacchetti di sigarette australiane si assomigliano dal 2012. Unico elemento distintivo: la marca e il nome del prodotto, scritti con gli stessi caratteri per evitare un design attraente e l’effetto marketing. Facendo fronte comune, i ‘sigarettieri’ – tra cui British American Tobacco, Japan Tobacco International, Imperial Tobacco (che possiede in Francia l’ex-SEITA) et Philip Morris – hanno denunciato un attentato alla proprietà intellettuale e alla libertà di commercio, oltre il rischio di contraffazione poiché i pacchetti sarebbero più facilmente imitabili.
Essi hanno sporto denuncia presso l’Alta Corte Australiana per ottenere la sospensione della legge e risarcimenti per diversi miliardi di dollari [1]. La denuncia è stata respinta. Il leader mondiale del settore con la marca Marlboro, Philip Morris, ha allora avuto un’altra idea. Il produttore, attraverso la sua filiale di Hong-Kong, ha attaccato il governo australiano; questa volta adducendo il pretesto che la legislazione viola il contratto bilaterale stipulato tra l’Australia e Hong Kong. Non è dunque la giustizia australiana che deve pronunciarsi, ma un tribunale privato arbitrale internazionale. La sentenza dovrebbe arrivare agli inizi del 2015.
Quando le multinazionali praticano il treaty shopping
[Mezzo utilizzato in particolare da grandi gruppi societari per alleggerire il carico fiscale. N.d.T.]
Non è la prima volta che il ’sigarettiere’ americano con sede in Svizzera utilizza questo meccanismo arbitrale tra uno Stato e una impresa. Nel 2009, l’Uruguay decide che l’80% della superficie dei pacchetti di sigarette dovrà essere impiegato per le avvertenze contro i danni del tabacco. Sconfitto da un tribunale uruguayano, Philip Morris International ricorre immediatamente a un tribunale arbitrale della Banca mondiale, che dovrebbe pronunciarsi alla fine del 2014. Il produttore questa volta basa la sua denuncia su un trattato di promozione e protezione degli investimenti, in vigore tra la Svizzera e l’Uruguay. Problema: l’Uruguay ha pochi mezzi per difendersi. Questo genere di procedure costa in media 8 milioni di dollari in spese giudiziarie! per fortuna, si fa avanti uno strano salvatore: l’ex sindaco di New-York, Michael Bloomberg, che attraverso la sua fondazione (che interviene in particolare in materia di salute pubblica), si assume le spese. In altre parole, la minaccia di dover sborsare tali cifre è dissuasiva per numerosi Paesi.
Questo meccanismo di regolamentazione delle controversie tra gli investitori e gli Stati – investor-state dispute settlement in inglese, o ISDS – non è nuovo. Esso è incluso in trattati bilaterali dagli anni ‘50. Ma è dopo gli anni ‘90 che è impiegato massicciamente. Oggi, secondo il Times, si contano 3. 000 accordi che lo propongono, Le imprese come Philip Morris si servono ormai del treaty shopping: esse fanno il loro mercato per trovare il trattato di libero-scambio che gli permetta di perseguire il Paese preso di mira. E per questo shopping delle multinazionali, l’Unione Europea costituisce un vero supermercato!
Garanzie agli investitori
E’ questo il genere di dispositivo che l’Unione Europea organizza su larga scala. Il mandato di negoziazione del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP), emesso nel giugno 2013 dai ministri europei del commercio alla Commissione, stipula che «L’accordo dovrebbe mirare a includere un meccanismo di regolamentazione delle controversie investitore-Stato efficace e all’avanguardia; assicurando la trasparenza, l’indipendenza degli arbitri e la prevedibilità dell’accordo, anche attraverso la possibilità una interpretazione costringente dell’accordo per le Parti. » Si tratta, per attirare gli investitori, come in tutti gli accordi del genere, di offrire certe garanzie: essi non possono essere espropriati, non possono essere trattati in maniera discriminatoria, etc. Queste clausole portano a dei ricorsi presso un tribunale arbitrale internazionale, e non presso i tribunali nazionali o presso quello europeo.
All’inizio del 2014, la ministra delegata al Commercio Estero, Nicole Bricq, ripete che la Francia non è favorevole «non favorevole all’inclusione di un tale meccanismo», prima di passare la mano a Fleur Pellerin in aprile. Anche la Germania vi si oppone. Parlamentari europei e nazionali, Universitari e ONG si preoccupano. E investitori speculativi reclamano più di 1,7 miliardi di euro di risarcimenti a Grecia, Spagna e Cipro, presso tribunali arbitrali; per le misure prese da questi Paesi in risposta alla crisi economica, spiega un rapporto pubblicato il 10 marzo dalle ONG Transnational Institute (TNI) et Corporate Europe Observatory (CEO) [2]. Secondo gli autori, queste azioni legali costituiscono «un avvertimento salutare contro i costi potenzialmente elevati dell’accordo commerciale proposto tra gli USA e l’UE».
Il tabacco, un prodotto come gli altri?
Per stemperare queste inquietudini, la Commissione Europea ha lanciato una consultazione pubblica in rete – chiusa il 6 luglio – per «inquadrare» i «diritti contestati». Ma, dal 24 giugno, il Commissario Europeo per il commercio, Karel de Gucht, giustifica l’interesse di includere un dispositivo di protezione degli investimenti nel futuro trattato: « Se sappiamo che le decisioni d’investimento delle imprese sono complesse, sappiamo anche che la certezza per quanto concerne la sicurezza contro una espropriazione della loro nuova fabbrica , ufficio, o centrale elettrica è un’esigenza davvero basilare », dichiara davanti ai membri dell’organizzazione British American Business a Londra [3]. Ritornando sulla nozione giuridica di espropriazione, che «non riguarda soltanto la confisca pura e semplice dei diritti di proprietà dell’investitore da parte dello Stato» ma anche «di altre misure prese dal governo che avrebbero un effetto equivalente», il Commissario Europeo sottolinea che bisogna «preoccuparsi di fissare dei limiti molto chiari al fine di proteggere pienamente il diritto dei governi a regolamentare nel pubblico interesse». Bandire ogni marketing dai pacchetti di sigarette costituirebbe, agli occhi degli investitori, una «espropriazione indiretta»?
In attesa di una maggiore «chiarezza giuridica», le grandi imprese premono da una parte e dall’altra dell’Atlantico. In una lettera indirizzata ai negoziatori americani, Chevron, il gigante dell’energia, ricorda che «la protezione degli investimenti» è «una delle [loro] principali problematiche a livello internazionale» [4]. Dal canto suo, Philip Morris International ha incaricato uno studio legale, Akin Gump Strauss Hauer & Feld LLP, per influenzare le negoziazioni dei due grandi trattati commerciali in cui gli Stati Uniti sono attualmente impegnati: il Partenariato transatlantico del commercio e degli investimenti (TTIP), con l’Unione Europea, e l’Accordo di Partenariato transpacifico (TPP), con la regione Asia-Pacifico.
Proteggere gli industriali del tabacco o la salute?
I ‘sigarettieri’ difendono la stessa cosa nelle due negoziazioni in corso: che il tabacco sia considerato come qualunque altro prodotto, e che il meccanismo di risoluzione delle controversie tra gli investitori e gli Stati sia mantenuto. Perché per l’industria del tabacco il 2013 è stato caldissimo. L’ufficio del Rappresentante degli Stati Uniti per il commercio estero si era allora mostrato coraggioso. Per proteggere la salute dei cittadini aveva proposto che certi prodotti potessero essere esclusi dall’Accordo di Partenariato trans-pacifico. A partire dal tabacco.
Chiedeva anche che il meccanismo di regolamentazione delle controversie tra gli investitori e gli Stati venisse adattato al tabacco: prima di avviare una procedura presso un tribunale arbitrale, le autorità sanitarie dovevano potersi riunire per discutere e tentare di risolvere la questione. I difensori degli interessi delle grandi imprese non avevano apprezzato molto, come dimostrano le email e i documenti che l’ONG FairWarning si è procurata (vedere qui, in inglese). La proposta era stata ritirata.
La lista di Philip Morris
In Europa, il quotidiano britannico Guardian rivelava dal suo canto l’esistenza di documenti confidenziali provenienti da Philip Morris International. In vista dell’allora imminente valutazione della direttiva europea anti-tabacco, il ’sigarettiere’ aveva classificato i deputati europei secondo la loro sensibilità verso gli argomenti della lobby del tabacco, con un’annotazione per ciascuno: «un incontro urgente», «seguire da vicino le sue eventuali iniziative anti-tabacco» etc. In un comunicato stampa, Philip Morris qualificava come erronei questi attacchi.
I risultati non sono stati quelli attesi. La direttiva adottata il 3 aprile scorso obbliga in particolare i produttori a ricoprire il 65 % della superficie dei pacchetti con messaggi del tipo «il tabacco uccide» o con immagini scoraggianti. La menzione «slim» (sigarette sottili) resta invece autorizzata, e la sigaretta elettronica è stata risparmiata. Gli Stati membri dovranno applicare queste misure entro il 2016.
Certi Paesi, come l’Irlanda o il Regno Unito, intendono spingersi oltre, introducendo nelle loro legislazioni nazionali il pacchetto neutro senza logo né colore della marca del produttore. Scontento della direttiva, Philip Morris afferma, alla fine di giugno, di avere sottoposto il caso ai tribunali inglesi, che si sono rivelati «un forum rapido e efficace per i querelanti privati», secondo le informazioni del giornale Les Echos. La Corte di giustizia dell’Unione Europea può essere adita solo da giurisdizioni nazionali degli Stati membri e non direttamente da cittadini di questi Stati.
Sospetti di corruzione
Lobbysti del tabacco perderebbero terreno a Bruxelles? L’Unione Europea è firmataria della Convenzione dell’Organizzazione mondiale della Sanità per la lotta anti-tabacco. Essa obbliga le istituzioni a limitare le interazioni con l’industria del tabacco e assicurare la trasparenza dei suoi incontri. Il Parlamento europeo si dimostra particolarmente incline a seguirla, da quando il Commissario Europeo per la sanità John Dalli fu spinto alle dimissioni nel 2012, per il sospetto di corruzione da parte dei lobbysti del tabacco che avrebbe incontrato segretamente. Il relatore europeo della recente direttiva sul tabacco, Linda McAvan, ha pertanto pubblicato la lista delle sue riunioni con gli industriali, le ONG et le agenzie governative (vedere qui).
Per le lobby del tabacco, questo nuovo ostacolo non è tuttavia insormontabile. Essi sono riusciti a partecipare alla «semplificazione» regolamentare auspicata da Bruxelles, incoraggiando soprattutto la realizzazione di studi d’impatto a livello della Commissione, prima della loro trasmissione al Parlamento [5]. Un mezzo per l’industria di sistemarsi a monte del voto degli eurodeputati. Così come i tribunali arbitrali permetterebbero loro di sostituirvisi.
Dei tribunali sotto l’egida della Banca mondiale
Fini a oggi, il meccanismo di risoluzione delle controversie tra uno Stato e un’impresa straniera si riferisce grosso modo a due convenzioni. Una emana dal Cirdi, il Centro internazionale per la risoluzione delle controversie relative agli investimenti, con sede a Washington. Sotto l’egida della Banca mondiale, questo tribunale si compone di tre avocati. L’impresa e lo Stato ne designano uno ciascuno. Il terzo deve raggiungere un consenso. Questo organo tratta il 62 % dei conflitti. L’altra convenzione di riferimento è quella della Cnudci, la Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale.
Da un punto di vista statistico, gli Stati cantano vittoria leggermente più spesso (43 % dei casi) degli investitori (31 %), secondo un computo delle Nazioni Unite per il 2013. Ma il «27% dei casi sono stati oggetto di una soluzione informale, che può anche implicare indennità o altre concessioni in favore dell’investitore», precisa un rapporto pubblicato il 6 marzo da organizzazioni europee (leggere nostro articolo). Bisogna dire che i giuristi americani, europei e canadesi sono in primo piano. Un rapporto pubblicato in novembre 2012 da Corporate Europe Osservatori, analizzando l’anno 2011, mostra che, relativamente al numero delle controversie di cui si occupa, lo studio legale inglese Freshfields Bruckhaus Deringer è di gran lunga il più attivo. Seguono White & Case et de King & Spalding, entrambi americani.
Far fumare gli Africani con qualunque mezzo
E questo che prevede esattamente il Trattato transatlantico? Concretamente, l’azione di Philip Morris contro l’Australia, passando da Hong-Kong, sarà possibile? Alla domanda, posta dalla RTBF il 5 giugno, Karel de Gucht ha risposto in maniera ambigua: «Con ciò che noi proponiamo, non sarebbe più possibile, perché si può soltanto avviare una pratica da un luogo in cui si hanno le proprie attività principali». Il commissario non chiude dunque la porta alle cause, se queste partono dal posto giusto. Il testo del Trattato è per il momento in corso di negoziazione. E solamente dopo aver trovato un accordo il suo contenuto sarà sottoposto al dibattito e poi al voto del Parlamento Europeo.
Intanto, gli industriali del tabacco non mollano l’affare. In maggio, hanno minacciato di fare causa al Bahrein, che intende triplicare le tasse sul tabacco. In Africa, almeno quattro Paesi – la Namibia, il Gabon, il Togo e l’Uganda – hanno ricevuto degli ammonimenti dai produttori per leggi che violerebbero i trattati internazionali, spiega Patricia Lambert, di Tobacco Free Kids, una ONG americana che promuove le politiche di lotta contro il tabagismo, citata dal New York Times. Cinque Paesi hanno attaccato da parte loro l’Australia presso l’OMC (Organizzazione mondiale del commercio): Cuba, la Repubblica dominicana e l’Honduras, in quanto grandi produttori di sigari; l’Indonesia e l’Ucraina in quanto grandi esportatori di sigarette. British American Tobacco ha riconosciuto di aiutare l’Ucraina a pagare le spese giudiziarie [6].
In Australia, Philip Morris ha annunciato, agli inizi di aprile, la chiusura della sua fabbrica, che produceva sigarette da 60 anni, e la sua delocalizzazione in Corea del Sud. Il consumo di tabacco e di sigarette non è mai stato così basso nel Paese. Restano 16% di fumatori adulti quotidiani. L’industria del tabacco ha ingaggiato un braccio di ferro mondiale per evitare che questo cattivo esempio non si diffonda.
Elsa Fayner
Fonte: www.bastamag.net
Link: http://www.bastamag.net/Comment-l-industrie-du-tabac
10.07.2014
Traduzione di M.A.. CARTA KARROUM per www.comedonchisciotte.org
Per approfondire:
Tobacco Tactics, sito di vigilanza sulla lobbying degli industriali del tabacco.
Mapping the tobacco lobby in Brussels, articolo di Corporate Europe Observatory.
Profiting from injustice, rapporto sull’arbitraggio di Corporate Europe Observatory.
Note
[1] Leggere qui, in inglese.
[2] Scaricare il rapporto.
[3] Leggere qui, in inglese.
[4] Secondo l’ONG CEO, che si è procurata la posta (vedere in video, al 5min33).
[5] Secondo il rapporto di SmokeFree Partnership, che raggruppa l’Istituto nazionale del cancro (Francia), Cancer research nel Regno Unito e la Società respiratoria europea.
[6] Secondo Reuters.