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DI CARLO BERTANI

Dopo le elezioni amministrative, dopo l’accordo sindacale sul Pubblico Impiego, dopo le esternazioni di Confindustria e di Bankitalia, pare tutto un frullar di frecce per l’aria. Pronte a ricadere sui sederi degli italiani, di destra e di sinistra.

La Triplice bulgara

Bonanno, Angioletto Epifanio! Verrebbe da dire. Sì, perché proprio di una nuova era si tratta, di un’Epifania. Per i nemici dei lavoratori.
L’accordo siglato dalla Triplice sul pubblico impiego è una pagina nera del sindacalismo italiano, di quelle che lasciano il segno. Emarginati dalla “corazzata” CGIL-CISL-UIL, le voci discordanti sono state ridotte al silenzio. Eppure, i COBAS hanno sinteticamente espresso il loro disaccordo – “non c’è fine al peggio” – mentre l’UGL ha parlato di “svendita dei lavoratori”. Per come sono andate le cose, hanno ragione da vendere.
Già non si capisce perché sia solo la Triplice ad essere considerata “sindacato”: vorrei sapere con quale seguito la UIL si presenta agli incontri. Nella scuola – almeno nelle mie zone – è tanto che non si vede un sindacalista della UIL: in compenso, quando prende la parola il rappresentante dei COBAS, viene prontamente deriso e zittito. Bel modo d’intendere la democrazia sindacale. Se qualcuno scova un sindacalista della UIL batta un colpo, così lo segnaliamo al WWF per il salvataggio delle specie in estinzione: mi raccomando, accertatevi che sia un vero sindacalista e non un “bonzo” in libera uscita.
Ciò che cercano di passare sotto silenzio è che il governo di centro sinistra ha avallato una “vacanza sindacale” di 13 mesi: tutti insieme, appassionatamente.
Non si tratta di valutare l’accordo economico in sé, mentre è importante capire come ci si è giunti: 101 euro lordi (nemmeno 70 netti) non rappresentano la discriminante fra la soglia di povertà ed il benessere, sono altre le considerazioni da fare se parliamo del reddito degli italiani.
Lo stesso reddito, può significare non arrivare alla quarta settimana del mese oppure riuscire a risparmiare: dipende da una miriade di fattori.

Rimanendo all’interno delle fasce di reddito medio-basse, la prima discriminante è la casa: se è di proprietà è un conto, se è in affitto o si paga un mutuo è tutt’altra cosa. Se si vive in una grande città del Nord in affitto, 1300 euro significano la pura sopravvivenza: se, invece, si vive in un piccolo centro del Sud (sempre in affitto) si sopravvive un po’ meglio.
Nel mercato della casa e dei mutui, le variazioni sono di centinaia di euro, non di decine: a che servono 70 euro in più in busta paga se ti “ritoccano” l’affitto di 100? E se scopri che, per l’aumento del prezzo dell’energia, sborsi senza accorgertene 30 euro in più il mese? E la miriade di tasse locali che compaiono da ogni parte – dalla busta paga alla bolletta dell’ENEL – cosa si porta via?
Ancora: hai un anziano non autosufficiente in casa? Lì sì che sei veramente nei guai: ti tocca fare i salti mortali fra turni e badanti, infinite domande e certificazioni per ottenere qualche sussidio, e ritardi epocali per ottenere quei soldi.
Insomma, l’aumento salariale in sé non cambia sostanzialmente la vita degli italiani: il sentiero che è stato percorso per arrivarci, invece, sì.
La cosa abnorme, la vera e propria bestemmia è tutta in quei 13 mesi per i quali non viene riconosciuto il diritto a ricevere gli arretrati. Si potrebbe obiettare: un aumento inferiore e gli arretrati per tutto il periodo in oggetto. Perché hanno scelto un’altra strada?
Per prima cosa – dal punto di vista mediatico – 101 fa più effetto che 95: anche l’orecchio vuole la sua parte, ma non è questo il nocciolo.
Nell’accordo appena siglato, si chiude un contratto che era scaduto il 31 dicembre 2005 riconoscendo gli arretrati soltanto dal febbraio 2007: tredici mesi di “vacanza” salariale! Peccato che l’inflazione, le rate dei mutui, gli affitti e tutto il resto non vadano mai in vacanza!

Canta il Lucherino, gorgheggia il Berluschino, intona il Prodino!

In anni lontani, i contratti dei lavoratori rappresentavano un miglioramento reale: nel decennio 1980-1990 avvenne la svolta. Governi “tecnici” o “politici”, che dovevano gestire sempre nuove “emergenze” (vere o presunte tali), si diedero un gran daffare affinché gli aumenti salariali giungessero appena a coprire l’inflazione (quella che raccontano). Almeno, i contratti si chiudevano in tempi ragionevoli: se i primi sei mesi venivano considerati una sorta di “vacanza contrattuale”, nel successivo semestre si cercava di raggiungere l’accordo. Poi iniziarono a “slittare” i tempi: l’apoteosi fu raggiunta dal governo Berlusconi, che finì per dare gli arretrati ai lavoratori a gennaio 2006, quando il contratto era nuovamente scaduto! Gli autoferrotranviari dovettero giungere allo sciopero selvaggio per riuscire ad avere il contratto!
Con questo meccanismo, i lavoratori pagano sempre anticipatamente tutto, mentre lo Stato e gli imprenditori restituiscono denari svalutati: se il tasso d’inflazione è del 2,5% l’anno, perderai il 5% per il primo anno ed il 2,5% per il secondo. Se l’aumento è del 3,5% già ci perdi! Senza considerare che l’inflazione che ci comunicano è sì esatta dal punto di vista strettamente contabile, ma assurda se si considerano i reali consumi degli italiani. L’elettronica scende di prezzo e la benzina sale: pari e patta. Dimenticano (?) che un televisore si cambia ogni 10 anni, la benzina s’acquista quasi quotidianamente.
In questo quadro, creare il precedente che un periodo di tempo può “esulare” dagli aumenti salariali diventa deflagrante: non solo te li diamo tardi e svalutati, ma ci arroghiamo pure il diritto di “sospendere” gli aumenti per determinati periodi! Come ci comoda.
Non sfugge a nessuno che le saette scagliate da Montezemolo sul governo – insomma, diamoci da fare con la macelleria sociale! – hanno colto nel segno: Confindustria chiama, da Macherio si fa eco e Palazzo Chigi risponde.
Il Lucherino può tirare un sospiro di sollievo: non gli sarà difficile portare a casa un buon contratto con i metalmeccanici. Buono per lui, ovviamente.

Lavoratori senza padre

Dove nasce questa perfida spirale d’ingiustizia? Dall’assenza di una vera sinistra, intesa come una forza che difenda realmente i diritti dei lavoratori. E, attenzione, non solo gli statali ed i metalmeccanici: tutti, dai call centre alle cosiddette “Partite IVA”, la maggior parte delle quali sono soltanto dei salariati camuffati (e, spesso, facilmente ricattabili); pensiamo ai “padroncini” nell’edilizia, nei trasporti, ecc.
Se Berlusconi non è persona affidabile in questo senso – prima di salire a Palazzo Chigi, al convegno di Confindustria, dichiarò pubblicamente che “lui ed il Presidente di Confindustria avrebbero potuto scambiarsi di ruolo” e questa, per i lavoratori, non è certo una garanzia – dall’altra si blatera di meno ma si opera adeguatamente nella stessa direzione.
Un’altra assemblea di Confindustria – prima delle ultime elezioni politiche – vide Prodi e Berlusconi che cercavano di contendersi la platea: semplificando molto, parve che Prodi avesse dalla sua le grandi famiglie imprenditoriali, mentre Berlusconi era l’alfiere della piccola e media impresa.
Non dimentichiamo, inoltre, l’uomo con lo Schioppo, il ministro “tecnico” dell’Economia, che è sganciato dai partiti di governo. A chi risponde costui? Chi lo ha eletto? Se non bastavano i profondi legami di tanti politici del centro sinistra con il settore bancario, con la finanza vaticana, con le grandi banche d’affari, era addirittura necessario “blindare” il governo con un uomo delle banche – da quella Mondiale a quella Europea – ossia mettere un soldatino con lo Schioppo a guardia delle finanze italiane?
Ora, c’è da meravigliarsi se, tre miseri figuri che ancora osano chiamarsi sindacalisti, posticipano un eventuale sciopero fin quasi all’estate, per poi rimangiarselo e sottoscrivere un accordo capestro? Hanno il coraggio di sottoporre ai pubblici dipendenti l’accordo con un referendum? Non lo faranno, state certi: e poi, una volta firmato, cosa potrebbero dire? Non vi è piaciuto? Pazienza, riderete alla prossima.
Loro (i tre pallidi moschettieri) rideranno comunque, perché già sanno che, terminata la loro carriera di sindacalisti, andranno a sedersi su qualche poltrona che conta all’INPS, in qualche sconosciuta (ma ben finanziata) Fondazione, oppure troveranno loro uno scranno libero in Parlamento. Sarà per questo, Guglielmo, che ti ostinavi a rimanere in Spagna e lasciavi i tuoi colonnelli a trattare? Non nasconderti dietro ad un dito, perché lo stesso Prodi giunse ad affermare (e con ragione) che per definire l’accordo desiderava almeno guardare in faccia il segretario della CGIL! Il buon Guglielmo – dopo aver tuonato contro la riforma Maroni delle pensioni, sotto Berlusconi – da Giove tonante s’è trasformato in un tranquillo agnellino: dai, dicci cosa ti hanno promesso, non lasciarci nel dubbio!
Le giustificazioni addotte dalla CGIL ad un simile accordo capestro sono addirittura puerili: è colpa di Berlusconi che non aveva previsto specifici fondi per il 2006! Il che è verissimo – Tremonti praticò una gestione sciagurata della finanza pubblica – ma nulla vietava al successivo governo (che ha, addirittura, un surplus d’entrate) di porvi rimedio. Se passa il principio che – grazie a questo od a quel governo – è possibile varare delle “vacanze” contrattuali, si passerà dal concetto di contratto a quello di carità.
Se i lavoratori dipendenti non ridono, anche le altre categorie non avranno di che rallegrarsi: quella “vacanza” sindacale comporterà una contrazione dei consumi. In altre parole, il lavoratore dipendente posticiperà (spesso, oramai, alle calende greche) la tinteggiatura dell’appartamento o l’acquisto dell’auto.
Come si è giunti a questo punto? Un tempo, la “casa” dei lavoratori era la sinistra: oggi, anche da lì sono stati sfrattati. Perché?

Si gioca al ribasso

I motivi sono tanti, ma si possono ricondurre ad un solo filone: la sicurezza del voto oggi non passa più attraverso la comunanza ideologica, bensì si nutre di rapporti economici ben precisi. La compravendita – nemmeno poi tanto occulta – del voto.
Un tempo, l’appartenenza ideologica era cemento: se cocevi frittelle per due anni al Festival dell’Unità, potevi sperare nella casa popolare. Se friggevi per cinque anni, un posto da Vigile Urbano poteva apparire all’orizzonte: quelli che, invece, oltre che friggere sapevano anche risparmiare sull’olio, finivano in Consiglio Comunale. Beninteso, era un’abitudine consolidata: anche lucidare candelabri e spazzare le sacrestie dava di che vivere.
Con il crollo del Muro di Berlino s’aprì la diaspora: divenne inutile professarsi comunisti, ma altrettanto valse per i democristiani.
Nel libero mercato, però, le ideologie non contan nulla: e chi va ancora a cuocer frittelle? E poi, a che servono le frittelle se non esiste più il legame ideologico? L’ultima a provarci è la Chiesa Cattolica: non s’era mai vista tanta determinazione ideologica come sul caso Welby o sui PACS. E’ altrettanto vero che queste parvenze ideologiche nascondono ben altre mire politiche, ossia quella di continuare a controllare la politica del (libero) stato italiano.
In un modo o nell’altro, però, si deve pagare lo scotto: sempre meno italiani s’appassionano alla (loro) politica. Le prove?
Il centro destra ha vinto le recenti elezioni amministrative? Il centro sinistra le ha perse?
Se osserviamo i dati sui voti reali espressi dagli italiani – rispetto alle precedenti elezioni amministrative – la situazione non è proprio quella che appare: è interessante analizzare i voti reali, non le percentuali. In alcune aree il centro destra ha acquisito più voti – Verona, ad esempio – ma in molte medie cittadine del Veneto (sua roccaforte) ha addirittura perso elettori. Il centro sinistra non ha semplicemente perso voti: in alcune zone rasenta l’estinzione.
A Vicenza (provinciali) il centro destra ha vinto, ma ha perso rispetto alle precedenti elezioni circa 9.000 voti: quasi il 5% del suo elettorato! Stessa cosa a Thiene (- 3.300 circa), a Conegliano (- 2.500) ed in altri centri. Paradossale la situazione di Chioggia: vince il centro sinistra, che perde più di 6.000 elettori, ma soltanto perché il centro destra, a sua volta, ne perde 1.100!
Insomma, non si tratta di una competizione elettorale, ma di corsa al ribasso! Vince chi perde di meno! E questo è un dato essenziale, da valutare con attenzione. Come si forma il consenso elettorale?

Vacche al pascolo e vacche a rimorchio

I voti che una coalizione riceve provengono da due, diversissime fonti: quelli raggranellati sul “libero mercato” – comizi, TV, pubblicità, ecc – e quelli che derivano dalla presenza sul territorio dei partiti. Questa “presenza” è soltanto un eufemismo per mascherare la realtà: voti comprati in mille modi, dagli appalti ai posti negli apparati, dalle consulenze alle fondazioni, agli enti, ecc.
Insomma, il “parco buoi” elettorale potremmo suddividerlo in due categorie: le mucche libere al pascolo e quelle che, invece, sono saldamente legate al carro del padrone.
Le mucche libere di pascolare sono ovviamente volubili: pascolano laddove trovano la miglior erba, mentre quelle legate sopravvivono solo grazie ai sacchi di mangime che stanno sul carro.
Nell’attuale gioco politico, conta vincere, non convincere. La convinzione è merce d’altri tempi, quando imperavano le ideologie: tentano comunque di servirsene (oggi, soprattutto la Chiesa), ma è uno strumento poco affidabile.
Se s’intravedono sempre meno mucche al pascolo, quelle legate al carro assumono più importanza: vuoi vedere che, grazie ad un misero vitello in più, porto a casa il tal Comune o la tal Provincia?
Ovviamente, per avere più mucche legate al carro, si devono trovare più sacchi di mangime per nutrirle. Tutto ciò ha senso? “Incrociamo” i dati elettorali con il contratto del Pubblico Impiego.

Sembrano fessi?

Non s’era mai visto un governo che sigla un contratto il giorno dopo una consultazione elettorale! La norma, recita invece una settimana prima.
Il costo del rinnovo contrattuale, inoltre – circa 600 milioni di euro – era alla portata del governo: addirittura, hanno un surplus di bilancio valutato parecchi miliardi. Come si spiegano le incongruenze?
Quei soldi, evidentemente, servono ad altro.
Federico Novelli – nel suo bel lavoro “La Politica e il suo prezzo” (Adusbef.it – mauronovelli.it) – valuta in circa 1 miliardo di euro a legislatura il costo delle consultazioni elettorali, i famosi “rimborsi elettorali” che hanno preso il posto dei vecchi finanziamenti ai partiti, quegli emolumenti che gli italiani negarono ai politici con ben due referendum.
Siccome in una legislatura ci sono cinque consultazioni elettorali (politiche, europee e tre grandi appuntamenti amministrativi), ogni consultazione elettorale costa 200 milioni di euro: un terzo del contratto degli statali!
Sui fantasmagorici stipendi e pensioni dei rappresentanti politici è addirittura inutile ripetersi: per citare solo qualche esempio, i deputati del Parlamento siciliano costano alla collettività 400.000 euro il giorno, 146 milioni di euro l’anno! La stessa Regione Sicilia ha esteso i finanziamenti per il ripopolamento ittico ai comuni dell’entroterra: saranno i famosi “tonni delle Madonie”?
Gli esempi sarebbero tanti – dagli scandalosi e faraonici rimborsi per ogni minima spesa ai trattamenti pensionistici da nababbi – ma il peggio deve ancora arrivare.
Per mantenere l’apparato, devono garantire il consenso: ecco quindi il miliardo l’anno per il sostentamento della stampa (di “area politica” più i rimborsi per la carta). E’ garantito che i giornali non saranno mai loro nemici: qualche temporale, ma mai una bufera. Inoltre, le proprietà editoriali appartengono al Gotha dell’imprenditoria: e chi toccherà mai loro signori!

La moltiplicazione dei pani e dei pesci

Se i giornali servono soprattutto per le mucche al pascolo, per quelle legate al carro (sempre più importanti, quando si vincono o si perdono le elezioni per pochi voti!) servono sempre più risorse: è l’area del “sottobosco” politico.
La riforma del Titolo V° della Costituzione promuove il decentramento? Aumentano le responsabilità assegnate agli Enti Locali?
Benissimo: basta aumentare il numero di questi benedetti Enti! Più carri? Più mucche legate al carro! Mucche pezzate e frisone, brune alpine e Jersey. D’estrema destra e sinistra, di centro e di periferia, liberiste e stataliste: basta che siano fedeli, e non c’è di meglio che una cavezza per garantire fedeltà.
Difatti, quanti sono i progetti di nuove Province? 20, 21, 26? Province “triple” come Trani-Barletta-Andria, dove si litiga per hi avrà la Prefettura e chi il Consiglio Provinciale, Province con un territorio appena più ampio di un giardino.
Eppure, le nuove Province garantiranno un flusso di denaro ai partiti i quali, a loro volta, li distribuiranno sotto forma di posti e consulenze, che genereranno a loro volta pacchi di schede elettorali. Il cerchio è chiuso, e spiega perché ci debbano “limare” le unghie sui contratti, sulle pensioni, sulla sanità e sul welfare.
C’è chi paventa, a questo punto, una nuova “Mani Pulite”. A mio avviso, è fuori strada. La riforma del Titolo V° non ha creato nulla che assomigli al federalismo, e nemmeno l’avrebbe creata quella proposta dal centro destra e poi bocciata al referendum.
Con il decentramento delle competenze, si decentrano anche i flussi di denaro: i processi di Milano videro imputati gli stessi segretari nazionali dei partiti. Oggi, gli stessi soldi prendono mille vie – da un appalto regionale per l’immondizia alla costruzione di un ospedale – ed è praticamente impossibile, per la Magistratura, rincorrere quel gioco di “scatole cinesi”. E se ci riescono?
Niente paura: è pronta la teoria della “mela marcia”. Siccome non sono più toccati i vertici dei partiti, è facile ammettere le mele marce: oggi una mela marcia nei DS, domani in Forza Italia, dopodomani nell’UDC e nella Margherita…

L’ingannevole specchio

In un recente e bell’articolo, Massimo Fini esprime magistralmente il disgusto degli italiani per questo stato di cose: il 70% non ha più fiducia nei partiti, e così via. Sono le mucche al pascolo, che s’allontanano sempre di più dai carri.
Mi piacerebbe condividere anche l’ottimismo di fondo di Fini – ossia che gli italiani riusciranno a rompere questo perfido cerchio – ma non riesco a crederci. E per molte ragioni. Chi è il popolo italiano?
E’ un popolo di sudditi: del Papa, dei Borboni, degli Asburgo e dei Savoia, solo per citare i più importanti.
L’errore sarebbe credere che il Risorgimento sia stato una rivoluzione nazionale o nazionalista: fu semplicemente la conquista, da parte di un Re appoggiato dagli inglesi per le loro mire geopolitiche, degli altri regni. Tutto passò sopra le teste degli italiani.
Furono poi dissanguati da due guerre mondiali e sodomizzati dal Fascismo. Si risvegliarono un poco dopo la Liberazione, ma tornarono presto schiavi del “salotto buono” della finanza italiana: Mediobanca ed Enrico Cuccia che impedirono – di fatto – la nascita di un tessuto economico che non avesse il loro imprimatur. Per come sono riusciti a reggere a tante nequizie, gli italiani sono degli eroi.
Sull’altro versante, però, non hanno nel loro DNA la ribellione: generano dei Masaniello o delle Brigate Rosse, che provocano soltanto spargimento di sangue e nessun risultato.
Osserviamo la differenza con la Francia: per una legge simile (ma meno punitiva) alla Legge 30 (o Biagi) i giovani francesi hanno protestato per settimane, fino a far compiere al governo marcia indietro. In Spagna si discute animosamente per la questione dei PACS, ma li aveva varati un governo di centro destra.
La crescita economica spagnola è stata catalizzata dai sussidi europei: da dove provenivano quei fondi? Oltre a quelli che le spettavano di diritto, Madrid ha goduto per anni di quelli che l’Italia non riusciva ad elargire: giustamente, Bruxelles li “dirottava”.
Perché l’Italia non se ne servì come la Spagna? Poiché l’assegnazione dei fondi fu affidata alle Regioni le quali, a loro volta, coinvolsero le Province nella gestione. Risultato: paralisi totale, giacché, se non c’era un accordo di spartizione politica, i fondi venivano rimandati al mittente. Qualcosa del genere sta avvenendo anche per la TAV. I risultati di quella stagione di spartizione partitica sono visibili sul territorio: sono le centinaia di capannoni abbandonati, costruiti presentando piani aziendali fasulli, che non hanno creato ricchezza né occupazione. Solo qualche sacco di mangime sui vari carri.
Per quanto gli italiani siano disgustati e stufi, cosa potranno fare? Una legge elettorale medievale blocca l’accesso alla politica alle mucche libere al pascolo, e per i giochi politici bastano quelle legate al carro.
Non hanno spesso dichiarato che, nei paesi “a democrazia avanzata”, la percentuale dei votanti è bassissima?

Tanto per provarci, con un misero pannicello caldo

Premettendo che i veri rimedi sarebbero altri – ossia riflettere sullo sfrenato rincorrere sempre la crescita economica, mentre i modelli di sviluppo dovrebbero valutare la sostenibilità delle scelte economiche, energetiche, sociali e culturali nel lungo periodo – qualcosa si potrebbe fare.
Chiariamo che nessun pannicello caldo potrà curare le vetuste impostazioni del nostro pensiero: come si può ancora rincorrere “l’occupazione”, se l’industria perde ogni anno l’1% degli addetti ed aumenta, contemporaneamente, la produttività dello stesso valore? Con meno teste si produce di più? Noi non contiamo i prodotti, continuiamo a contare le teste. Scusate, le mucche.
Un “pannicello caldo” sarebbe cancellare la perfida legge elettorale che garantisce ai soli partiti l’immissione in lista dei candidati: l’elettore, senza le preferenze, non può nemmeno scegliere la mucca, soltanto il carro.
Il Parlamento – questo od un altro – non cancellerà mai l’obbrobrio: troppi sono i vantaggi che ne derivano.
Riflettiamo che questa legge elettorale vale quasi quanto un colpo di stato: quando Mussolini estromise dal Parlamento i deputati non-fascisti, si spinse appena un poco più in là.
Lanciamo una provocazione: affidare al Presidente della Repubblica il compito di preparare una nuova legge elettorale, con preventiva convalida della Corte Costituzionale, per sottoporla quindi all’approvazione definitiva del Parlamento. Non so se il percorso istituzionale è praticabile, e troverebbero probabilmente il modo di smarcarsi, ma – giungendo a negarsi alla più alta carica istituzionale – perderebbero la faccia oltre ogni limite. Forse, varrebbe almeno la pena di tentare.

Carlo Bertani
[email protected]
www.carlobertani.it
1.06.07

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