DI CARLO BERTANI
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scopri che non t’ha lasciato molto, neanche una risata.
Come ogni giocatore, stava cercando quella carta così alta e da sballo,
da non dover più giocare un’altra mano.”
Leonard Cohen – The stranger song – 1967.
Basta gettare un’occhiata alla prima pagina del giornale per capirlo, per comprendere che la tua morte è stata un grido di dolore: inascoltato, lanciato a ferire il cielo come l’urlo nella notte.
Eppure oggi è mattina, i fantasmi della notte trascorsa quasi insonne a filtrare il buio della stanza sono scomparsi, annichiliti da poche ore di sonno prima dell’alba. Non so perché succede: capita e basta, e non me ne curo.
Oggi è mattina e quattro studenti svogliati traducono qualcosa di Fedro o di Esopo…tanto per riempire qualche foglio vergine, e tacitare i sensi di colpa di chi li conduce fin qui, in quest’aula fresca di fine Estate, per pagare dazio e mostrare che, almeno, si rispetta l’istituzione. Poi verrà lo scrutinio, e tanti saluti: se a Giugno si saltava tranquillamente dal 5 al 6, a Settembre si volerà dal 4 al 7. Tutti saranno soddisfatti.
Capisco subito, appena leggo il trafiletto che richiama al servizio nelle pagine interne, che la tua morte ha colto nel segno, più di Eluana. Almeno, qui nella Repubblica di Genova, sulle colonne del vecchio giornale che ci rammenta nel nome i fasti di, oramai, due secoli or sono.
E non si venga a dire che questo è sapor di giornalista, voyeurismo di provincia: quando si muore impiccati alla testiera del letto, nella grande Genova, con accanto il figlio strangolato d’appena venti giorni, fa bene il giornalista a spiattellarlo ai quattro venti. Si potrà affermare che lo fa per vendere qualche copia in più, ma non importa: i soldi – di fronte a quei due cadaveri lasciati in un appartamento lindo e sobrio, come afferma sorpreso il funzionario di Polizia – non contano niente.
Perché la tragedia ha in sé qualcosa di epico e terribile, di fatale e sconvolgente, che ti serra il fiato in gola, come se fosse scaturita dalla penna di Victor Hugo o di Fjodor Dostoevskij. Oppure dal sogno ad occhi aperti di Leonard Cohen, che prese forma in Beautiful losers. E’ una storia semplice, di carne e sangue, tradita nell’angoscia che non ha risalito la gola e l’ha serrata, perché anche i simboli celano qualcosa di terribile.
Tu – Sabrina – non ti sei impiccata alla testiera del letto: tu, ti sei lasciata scivolare via la vita di dosso, che è altra cosa. Non ci si può impiccare alla testiera di un letto, non è possibile darsi l’abbrivio e poi lasciare che sia il nostro corpo a combattere la battaglia per la sopravvivenza, già sapendo che non troverà appigli, che il destino sarà inevitabile.
No: la stanza da letto ha troppi appigli, il piede può trovare appoggio, le mani – disperate – possono arrancare per avvinghiare la presa. Tu, Sabrina, hai lasciato che le Parche recidessero con calma il tuo filo, con tutta la pazienza del caso.
Prima, avevi reciso tu stessa il filo di quel pezzo di carne che avevi generato solo poche settimane prima – e che curavi amorevolmente, così afferma il pediatra, con attenzione e cura – e che, nella caligine disperata, non hai saputo separare dal tuo Fato avverso.
E lo hai fatto con il cavo del telefonino: metaforicamente, hai reciso quella vita – che ritenevi parte di te, inseparabile – con l’oggetto che forse più ti tratteneva al mondo, l’unico appiglio dal quale – probabilmente – potevi ricevere conforto, ascoltare una diversa canzone. Così non è stato.
E’ già iniziata la cascata del discreto sciacallaggio, come chi afferma che sei cresciuta senza madre…poiché un giorno la mamma ti lasciò per lanciarsi nel vuoto, nel cortile di una casa di periferia.
Nel girone degli ignavi, si cercano ragioni e certezze per placare la propria ansia, non per cercare – anche se non serve più a niente – di capire la tua: se la madre, allora…similis similia solvitur…accarezzano gli strizzacervelli, ed a loro basta. Calmatevi, buona gente – già cantano ai quattro venti – è successo a Sabrina perché la madre le mostrò la via della rinuncia, della fuga: voi, che non avete avuto genitori suicidi, siete in una botte di ferro. Anche Attilio Regolo fu in una botte di ferro, ma non trascorse attimi sereni.
Poi c’è la sorella acquisita, dopo il secondo matrimonio del padre, che era “così brava”, laureata e compiuta come un fiore di serra, assicurata contro le intemperie da protettivi vetri. Tu, invece – fiore di campo – cercavi di mettere a frutto la sapienza delle tue mani fra i capelli della gente, per abbellire altri fiori di campo.
Ecco la seconda trappola: non siate incompiuti! Assicuratevi, legatevi con forza al carro che vi sostiene, non cercate la bellezza selvaggia della prateria, poiché nel gelo della notte potrete evocare fantasmi e farvi sciogliere dalla paura, contaminare da effluvi palustri che vi paralizzeranno, e diverrete polvere!
Alzo gli occhi sui pochi allievi che scrivono, consultano il vocabolario, si grattano la testa pensierosi ed il ricordo non può che correre ad anni lontani, al banco vuoto, improvvisamente vuoto. Di chi la colpa? Del padre che lasciò inavvertitamente la pistola carica in un cassetto agibile? Della cocaina che – si disse – t’aveva strappato le emozioni? Del mal di vivere di pavesiana memoria, del semplice mal di vivere che t’aveva corroso? Solo il banco vuoto rimase, e quanto tempo è trascorso.
Poi c’è il girone degli idioti, di coloro i quali ritengono che sia la “forza” dell’individuo a preservarlo dalla spalliera del letto, dalla fine, solinga, fra le moltitudini.
“Tutti sono grandi yogi, quando la tigre è lontana”: è la sola massima che possiamo loro rammentare, mentre – fugaci, solide rocce che offrono il petto ai marosi – si beano d’esser baluardo che tutto arresta con la sola forza del pensiero.
Nessuno più rammenta Pascal, la piccola canna – seppur ricca d’intelletto – che s’agita e si piega al vento: meglio rifugiarsi nelle corazze delle certezze, che hanno condotto al naufragio fior d’armate di temprato acciaio.
E pochi rammentano che nemmeno gli Dei avevano potere sul Fato, che può chiamarti all’improvviso un mattino, e presentarti il conto più salato che tu possa immaginare. Starà a te scegliere, se combattere i marosi oppure lasciarti scivolare a fondo: molto dipenderà, anche, dai tuoi compagni di naufragio.
La mattina volge al termine, è ora di ritirare le versioni: addio – Sabrina – tu che sei vissuta nella grande Genova, e che oggi hai invaso, senza chiedere permesso, il suo impettito giornale.
Non c’è articolo che regga il confronto; in prima pagina, un pallido trafiletto rammenta un platonico scontro sul testamento biologico: tu, Sabrina, il tuo ce lo hai lasciato su quel letto, con il silenzio con il quale hai accolto chi ancora ti cercava.
Per un giorno, sul grande giornale della grande Genova, ci sei solo tu – ed è giusto che così sia – per rammentarci la nostra mancanza di mezzi, la privazione dei sentimenti in questo pallido conato del nostro tempo, nel quale tutto ciò che si offre è sempre un’offerta speciale, ed ogni “specialità” è sempre uguale a quella del giorno precedente, poiché è sempre un offrire senza amore, uno scambio di vuoti simulacri, senz’anima.
E troppe Sabrine, oramai, avrebbero dovuto aprirci gli occhi ma così non è stato, poiché questo non è solo il tempo dell’ignavia e dell’idiozia, ma anche quello dell’ignoranza.
Così, stemperiamo la nostra angoscia del non saper più riconoscere nell’altro il semplice essere umano, il calore empatico che potrebbe regalarci e, sempre di più, c’incaselliamo da soli nel cubicolo che, alla fine, c’accoglierà. Tutti. Sabrina, è solo un poco avanti.
I ragazzi hanno consegnato le versioni, i verbali sono stati firmati e sono r
imasto solo, nella classe vuota, ad ascoltare lo sbattere delle sedie che i bidelli rimettono a posto. Addio, Sabrina: anche tu sei vissuta un solo giorno, come le rose.
Carlo Bertani
Fonte: http://carlobertani.blogspot.com/
Link: http://carlobertani.blogspot.com/2009/08/come-le-rose.html
28.08.2009