COME LE CORPORAZIONI HANNO PRESO IL CONTROLLO DELL'AMERICA

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DI NAOMI KLEIN
commondreams.org

Dieci anni dopo la pubblicazione di “No Logo”, Naomi Klein sposta la sua attenzione dal centro commerciale a Barack Obama, e scopre che la cultura delle corporazioni ha preso il controllo del governo statunitense.

Nel Maggio 2009, la Absolute Vodka ha lanciato una linea a tiratura limitata chiamata “Absolut No ­Label” [letteralmente “assolutamente nessuna etichetta”, ndt]. La direttrice delle pubbliche relazioni della compagnia, Kristina Hagbard, ha spiegato che “per la prima volta osiamo affrontare il mondo completamente nudi. Lanciamo una bottiglia priva di etichetta, per esprimere il concetto che non importa l’aspetto esteriore, ciò che conta davvero è quello che c’è all’interno”.

Pochi mesi dopo, Starbucks ha aperto il suo primo locale privo di marchio a Seattle, chiamato 15th Avenue E Coffee and Tea. Questo “Starbucks segreto” (come è stato immediatamente nominato l’anomalo punto vendita) era decorato con installazioni uniche nel loro genere, e i clienti erano invitati a portare la musica da casa, così come a proporre le loro personali cause sociali – tutto questo per aiutare a sviluppare quello che la compagnia chiamava “una comunità con personalità”.
I clienti dovevano forzare lo sguardo per trovare la scritta a piccoli caratteri sul menu: “ispirato a Starbuck”. Tim Pfeiffer, un vicepresidente senior della Starbucks, ha spiegato che, a differenza dei normali negozi, che si ritagliano uno spazio di vendita al dettaglio, “questo è decisamente un piccolo caffè di quartiere”. Dopo aver passato due decadi facendo brillare il proprio logo in 16.000 negozi sparsi in tutto il mondo, Starbuck stava cercando di fuggire dal suo stesso marchio.

È chiaro che le tecniche delle grandi marche si sono sviluppate in modo rigoglioso e si sono adattate al mercato da quando ho pubblicato No Logo . Ma negli ultimi 10 anni ho scritto molto poco su questi sviluppi. Mi sono resa conto del perché mentre leggevo il romanzo di William Gibson del 2003 “Pattern Recognition” [uscito in Italia con il titolo “L’accademia dei sogni”, ndt]. La protagonista del libro, Cayce Pollard, è allergica alle marche, in modo particolare a Tommy Hilfiger e all’omino della Michelin. Al punto che “le sue reazioni sono a volte così morbose e violente alla semeiotica del mercato” che ha consumato i bottoni dei suoi jeans Levi’s in modo che non si veda alcun marchio. Quando ho letto queste parole, ho immediatamente realizzato di essere afflitta dagli stessi sintomi. Quando ero bambina e adolescente, ero attratta dagli oggetti di marca in maniera quasi ossessiva. Ma la scrittura di No Logo ha richiesto quattro anni di immersione totale nella cultura della pubblicità – quattro anni passati a guardare e riguardare gli spot che passano durante il Super Bowl, a condurre analisi approfondite sull’Era delle Pubblicità in cerca delle ultime innovazioni delle sinergie corporative, a leggere libri di economia umanamente devastanti su come entrare in contatto con i valori del proprio “personal brand”, a fare escursioni nei punti vendita della Nike, in mostruosi centri commerciali e negozi di varie marche.

In parte è stato divertente. Ma verso la fine era come se avessi oltrepassato una qualche soglia e, come Cayce, avessi sviluppato qualcosa di molto simile ad un’allergia alle marche. Gli oggetti di marca avevano perso gran parte del loro fascino, cosa molto utile poiché, dopo che No Logo è diventato un bestseller, anche bere una Coca Diet in pubblico poteva portarmi nella sezione gossip del giornale locale.

L’avversione si estendeva anche al marchio che avevo creato io stessa in modo accidentale: No Logo. Dagli studi condotti su Nike e Starbucks ero al corrente del dogma base per la gestione di un marchio: trova il tuo messaggio, depositalo, proteggilo e diffondilo fino alla nausea sul maggior numero di piattaforme possibile. Sono partita con l’idea di rompere queste regole non appena me ne fosse capitata la possibilità. Ho respinto tutte le offerte per progetti correlati a No Logo (lungometraggi, serie tv, linee d’abbigliamento…). Così come quelle provenienti da grandi firme e agenzie pubblicitarie all’avanguardia, che volevano io tenessi seminari nei quali avrei spiegato loro come mai erano tanto odiate (stavo imparando così che c’era da costruire una carriera per diventare una specie di leader anti-corporazioni, e che dovevo far sentire meglio i dirigenti superpagati dicendogli quanto erano cattivi). E, andando contro ogni ragionevole consiglio, sono rimasta dell’idea di non depositare il titolo (il che significa nessun diritto d’autore sui prodotti alimentari italiani “No Logo”, sebbene mi abbiano spedito un po’ di ottimo olio d’oliva).

Come passo fondamentale del mio programma di disintossicazione, ho cambiato argomento. Meno di un anno dopo l’uscita di No Logo, ho bandito dalle mie conversazioni i loghi aziendali. Nelle interviste e nelle apparizioni pubbliche deviavo la discussione dall’ultima innovazione nelle tecniche di marketing e il nuovo megastore di Prada, spostandola sul movimento in rapida crescita contro le regole corporative, quello che aveva attirato l’attenzione del mondo con la protesta militante contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio [in seguito OMC, ndt] a Seattle. “Ma non sei forse il logo di te stessa?”, mi chiedevano senza sosta gli astuti intervistatori. “È probabile”, rispondevo. “Ma cerco di essere un pessimo logo”.

Cambiare argomento dalle marche alla politica non è stato un grande sacrificio, anche perché la politica è stata ciò che mi ha spinto verso il marketing. I primi articoli che ho pubblicato come giornalista riguardavano le limitate possibilità di lavoro per me e per i miei colleghi – l’aumento di contratti a breve termine e dei “McJob” [termine che indica lavori di basso profilo e con magri stipendi, ndt], così come la creazione di lavori ad alto tasso di sfruttamento per produrre gli oggetti di marca che noi possiamo poi comprare. Da perfetta “giovane cronista”, mi sono occupata anche di come la cultura del marketing, sempre più vorace, stava invadendo anche gli spazi fino ad allora protetti – come scuole, musei e parchi – mentre concetti che io e i miei amici consideravamo radicali venivano quasi istantaneamente assorbiti dalle ultime campagne pubblicitarie di compagnie come Nike, Benetton e Apple.

Ho deciso di scrivere No Logo quando mi sono resa conto che queste tendenze, apparentemente scollegate tra loro, erano in realtà connesse da un’unica idea, ovvero che le corporazioni dovessero generare marchi, non prodotti. Era il periodo in cui le aziende si manifestavano attraverso l’apparizione di amministratori delegati come lampi luminosi dal cielo: la Nike non è una compagnia che produce scarpe da corsa, si occupa del concetto di trascendenza attraverso la pratica sportiva, Starbucks non è una catena di caffetterie, ma riguarda l’idea di comunità. Alla base di queste manifestazioni c’era il fatto che molte compagnie, che fino a quel momento avevano confezionato prodotti nelle loro industrie, mantenendo una forza lavoro solida e ampia, stavano abbracciando il modello proposto dalla Nike: chiudere le fabbriche, continuare a produrre attraverso un’intricata rete di appaltatori e subappaltatori, e riversare tutte le risorse nel progetto di marketing necessario per pianificare la propria grande idea. Oppure si affidavano al modello della Microsoft: mantenere un centro altamente controllato di impiegati/azionisti che adempiono alle “competenze di base” della compagnia ed esternalizzare ogni altra attività a personale temporaneo, dalla gestione della posta alla scrittura di codice. Qualcuno ha battezzato questi tipi di compagnie con il termine “corporazioni vuote”, poiché il loro scopo sembrava quello di trascendere il mondo concreto in modo da poter diventare un marchio completamente libero. Come ha detto il guru delle corporazioni Tom Peters: “Sei un folle se lo ammetti!”.

Per me, l’interesse principale nello studio dettagliato dei marchi come Nike e Starbucks era che dopo poco si parlava di qualunque cosa tranne che di marketing – a partire da come venivano realizzati i prodotti nella catena di produzione globale deregolamentata fino all’agricoltura industriale e i prezzi delle materie prime. Subito dopo sapevi che si sarebbe parlato dei legami della politica con i soldi provenienti dagli accordi tra uno sfrenato libero mercato e l’OMC, facendo in modo che seguissero il presupposto di ricevere prestiti importanti dal Fondo Monetario Internazionale [in seguito FMI, ndt]. In sostanza, si parlava di come funziona il mondo.

Quando è stato pubblicato No Logo, il movimento era già alle porte delle più grandi istituzioni che diffondevano la cultura delle corporazioni in tutto il mondo. Decine e poi centinaia di migliaia di dimostranti sostenevano le proprie argomentazioni in occasione di incontri tra i vertici commerciali e riunioni del G8, da Seattle a Nuova Delhi, riuscendo a bloccare in molti casi i nuovi accordi. Ciò che i grandi media insistevano a chiamare il “movimento anti-globalizzazione” non era nulla di simile. Il suo lato riformista era anti-corporativo, quello più radicale era anti-capitalista. Ma quello che lo rendeva unico era il suo profondo internazionalismo. Tutti quegli sviluppi significavano che quando mi trovavo in giro per promuovere il libro c’erano molti argomenti interessanti di cui parlare che non riguardavano le grandi marche, come ad esempio da dove venisse quel movimento, cosa volesse, e se ci fossero valide alternative alla tendenza corporativa che aveva assunto l’innocuo pseudonimo di “globalizzazione”.

In tempi recenti, ad ogni modo, mi sono ritrovata a fare qualcosa che avevo giurato a me stessa non avrei più fatto: rileggere i guru delle grandi marche citati nel libro. Questa volta, tuttavia, non era per cercare di capire cosa stesse succedendo nei centri commerciali, ma piuttosto alla Casa Bianca – prima sotto la presidenza di George W. Bush e poi ora sotto Barack Obama, il primo presidente statunitense che è anche un logo di se stesso.

Ci sono molti gesti distruttivi per i quali gli anni di Bush vengono giustamente accusati – le invasioni illegali, le insolenti difese della tortura, il ringraziamento dell’economia globale. Ma l’eredità più duratura dell’amministrazione è sicuramente l’aver fatto in maniera sistematica al governo statunitense ciò che gli amministratori delegati avevano fatto alle loro compagnie una decade prima: lo ha svuotato, consegnando al settore privato molte delle funzioni essenziali del governo, dalla protezione dei confini, alla responsabilità in caso di calamità, all’allestimento dei servizi segreti. Questo svuotamento non era un progetto collaterale del periodo Bush, si trattava di una missione fondamentale, che raggiungeva ogni campo del governo. E anche se la cricca di Bush è stata spesso ridicolizzata per la sua incompetenza, il processo di svendita dello stato, lasciandosi dietro solo un guscio – o un marchio – è stata affrontata con grande impegno e precisione.

Una compagnia che ha preso il controllo di molti servizi è stata la Lockheed Martin, il più grande appaltatore della difesa del mondo. “La Lockheed Martin non gestisce gli Stati Uniti”, hanno constatato in un servizio del New York Times del 2004. “Ma contribuisce a gestirne un’immensa parte… Smista la vostra posta e calcola le vostre tasse. Taglia gli assegni per la sicurezza sociale ed esegue il censimento per gli Stati Uniti. Gestisce i voli spaziali e monitora il traffico aereo. Per rendere possibile tutto questo, la Lockheed scrive più codice informatico della stessa Microsoft.”

Nessuno ha affrontato il compito di svuotamento dello stato con maggiore zelo del pluridiffamato segretario alla difesa di Bush, Donald Rumsfeld. Avendo passato oltre 20 anni nel settore privato, Rumsfeld era immerso nella cultura corporativa dei loghi e dell’esternalizzazione. Il marchio d’identità del suo ministero era chiaro: la dominazione globale. La competenza principale era il conflitto. Per qualunque altra cosa, ha detto (ricordando molto Bill Gates), “dobbiamo ricorrere a fornitori che possano occuparsi di queste attività con efficienza ed efficacia”.

Il laboratorio di questa visione radicale è stato l’Iraq durante l’occupazione statunitense. Fin dall’inizio Rumsfeld ha pianificato lo schieramento delle truppe come un vicepresidente della Wal-Mart che cerca di tagliare qualche ora in più dal libro paga. I generali volevano una truppa di 500.000 soldati, lui gliene ha dati 200.000, con appaltatori e riservisti a coprire le lacune in caso di necessità – un’invasione “giusto in tempo”. In pratica, questa strategia significava che qualora l’Iraq fosse uscito improvvisamente dal controllo degli Stati Uniti, un’industria di guerra privatizzata e ancor più sviluppata avrebbe preso forma per sostenere l’esercito di base. Blackwater, il cui compito originario era di fornire guardie del corpo per l’inviato statunitense Paul Bremer, assunse presto altre funzioni, incluso l’ingaggio nella battaglia con l’esercito del Mahdi nel 2004. Nel frattempo, la Zona Verde era in espansione e veniva gestita come una città-stato, dove qualunque cosa, dal cibo all’intrattenimento al controllo dei pesticidi, era nelle mani della Halliburton. Così come compagnie quali Nike e Microsoft avevano aperto la strada alle corporazioni “svuotate”, per molti aspetti questa era una guerra “svuotata”. E quando uno degli appaltatori ha rovinato tutto – quando ad esempio gli agenti della Blackwater hanno aperto il fuoco su piazza Nisour a Baghdad nel 2007 uccidendo 17 persone, o quando la Halliburton ha fornito acqua contaminata ai soldati – l’amministrazione Bush era in grado di scaricare ogni responsabilità. La Blackwater, che si è vantata di essere la Disney delle compagnie mercenarie, con tanto di una linea di abbigliamento e orsacchiotti firmati, ha risposto agli scandali – e come altrimenti? – assumendo un nuovo aspetto. Ora si chiama Xe Services.

La decisione dell’amministrazione Bush di imitare il metodo utilizzato dalle corporazioni si è esteso al modo di gestire la rabbia ispirata dalle proprie azioni in giro per il mondo. Anziché cambiare qualcosa o adattare le sue linee d’azione ha avviato una serie di campagne sfortunate per “dare un nuovo aspetto all’America” agli occhi di un mondo sempre più ostile. Osservando questi tentativi, ero convinta che Price Floyd, ex direttore dell’ufficio stampa del Dipartimento di Stato, avesse ragione. Dopo aver rassegnato le dimissioni con frustrazione, ha dichiarato che gli Stati Uniti stavano affrontando una rabbia crescente non a causa del fallimento comunicativo, ma di quella delle sue politiche. “Ho partecipato ad incontri con altri funzionari degli affari pubblici dello Stato e della Casa Bianca”, ha detto Floyd al periodico Slate. “Loro affermavano: ‘Abbiamo bisogno di portare la nostra gente su più media’. E io rispondevo: ‘Non è tanto un problema di forma, è la sostanza che ci sta creando problemi'”. Un paese potente ed imperialista non è come un hamburger o un paio di scarpe da corsa. L’America non aveva un problema di marchio, ma di prodotto.

Lo pensavo da tempo, ma potevo sbagliarmi. Quando Obama si è insediato come presidente, il marchio americano difficilmente poteva essere in condizioni più malridotte – Bush è stato per questo paese quello che la New Coke è stata per la Coca Cola, quello che il cianuro è stato per il Tylenol. Tuttavia Obama, in quella che probabilmente è stata la campagna più riuscita di tutti i tempi, è riuscito ad invertire la tendenza. Kevin Roberts, amministratore delegato della Saatchi & Saatchi, si è proposto di ridipingere l’immagine che doveva assumere il nuovo presidente. Con un’immagine a tutta pagina, commissionata dal ricercato Paper Magazine, ha mostrato la Statua della Libertà con le gambe aperte, mentre partoriva Barack Obama. L’America rinata.

Così sembrò che il governo degli Stati Uniti potesse risolvere i suoi problemi di reputazione con una soluzione di facciata – aveva solo bisogno di una campagna mediatica e di un portavoce sufficientemente alla moda, giovane ed entusiasmante per competere con il difficile mercato moderno. La nazione ha trovato tutto questo in Obama, un uomo che ha senza dubbio una naturale propensione all’esposizione mediatica e che si è circondato con un team di uomini di marketing di altissimo livello. L’esperto di social network a cui si affida, ad esempio, è Chris Hughes, uno dei giovani fondatori di Facebook. La sua segretaria è Desirée Rogers, affascinante laureata in amministrazione generale ad Harvard, ed ex direttrice di marketing. E David Axelrod, tra i maggiori consiglieri di Obama, è stato un partner della ASK Public Strategies, una società di pubbliche relazioni che, stando a quanto scritto sul Business Week, “ha diretto le campagne” da Cable­vision alla AT&T. Insieme, il team ha raccolto ogni strumento disponibile nell’arsenale del moderno marketing e ha sostenuto il marchio di Obama: un logo perfettamente calibrato (il sorgere del sole su stelle e strisce); esperti di marketing virale (suonerie di Obama); la collocazione del prodotto (gli spot di Obama nei video game sportivi); uno spot televisivo da 30 minuti (che poteva risultare dozzinale, ma che è stato annunciato universalmente come “autentico”); e la scelta dell’alleanza con marchi strategici (Oprah per raggiungere il maggior numero di persone, i Kennedy per la solennità, e un gran numero di star dell’hip-hop per la credibilità tra la gente di strada).

La prima volta che ho visto il video di “Yes We Can”, quello prodotto da will.i.am, il leader dei Black Eyed Peas, in cui una serie di persone famose parlavano e cantavano su un discorso di Obama in stile Martin Luther King, ho pensato: finalmente, un politico con spot pubblicitari fighi come quelli della Nike. L’industria pubblicitaria è stata del mio stesso parere. Qualche settimana prima che vincesse le elezioni presidenziali, Obama ha battuto Nike, Apple, Coors e Zappos nella corsa al premio bandito dall’Associazione Nazionale degli Inserzionisti come miglior Promoter dell’Anno. È stato senza dubbio un cambiamento. Negli anni ’90 le grandi marche avevano completamente oscurato la politica. In quel momento le corporazioni si precipitavano a cavalcare il messaggio di Obama (si vedano: la campagna “scegli il cambiamento” della Pepsi, “accogli il cambiamento ’09” di Ikea e l’offerta della Southern Airlines con i biglietti “Yes You Can”).

Di fatto, qualunque cosa toccassero Obama e la sua famiglia diventava oro sul mercato. La J Crew ha visto crescere il suo valore sul mercato del 200% nei primi sei mesi della presidenza di Obama, in parte grazie alla passione di Michelle per quel marchio. Analogamente, l’attaccamento molto diattuto di Obama al proprio BlackBerry è stato un’ottima notizia per la Research In Motion. Il modo più sicuro per vendere riviste e giornali, in questo difficile periodo, è di avere un Obama in copertina, dovete solo ordinare tre once di vodka e qualche succo di frutta per un Obamapolitan o un Barackatini, e chiedete 15 $ a drink, facile. A Febbraio 2009 la rivista Portfolio ha stimato le dimensioni dell'”affare Obama” – il turismo che produce e i gadget che ispira – attorno al valore di 2.5 miliardi di dollari. Niente male in un periodo di crisi economica. La Rogers ha avuto qualche problema con alcune sue colleghe quando ha fatto dichiarazioni troppo sincere al Wall Street Journal. “Abbiamo il miglior logo sulla terra: quello di Obama”, ha detto. “Le nostre possibilità sono infinite”.

L’esplorazione di queste possibilità non è finita, né rallentata, dopo la vittoria elettorale. Bush ha usato il suo ranch a Crawford, in Texas, come sfondo per la sua migliore interpretazione dell’uomo Marlboro, che raccoglie sterpaglie, mangia all’aperto e indossa stivali da cowboy. Obama si è spinto molto oltre, trasformando la Casa Bianca in una specie di reality show senza fine che ha come interpreti l’adorabile clan Obama. Anche questo si può far risalire alla mania di metà anni ’90, quando i pubblicitari si sono stufati delle limitazioni dei mezzi tradizionali e hanno cominciato a dar vita ad “esperienze” tridimensionali – tempi firmati, dove i consumatori potessero insinuarsi nella personalità del loro marchio preferito. Il problema non è tanto che Obama usi gli stessi trucchi e strumenti delle grandi marche, dato che, oggi come oggi, chiunque speri di ottenere uno spazio nel mondo deve farlo. Il problema è che, esattamente come è successo con molti altri loghi legati a stili di vita prima di lui, le sue azioni non sono minimamente all’altezza delle speranze che ha suscitato.

Sebbene sia troppo presto per emettere un verdetto sulla presidenza di Obama, sappiamo che preferisce i gesti grandiosi e simbolici ai cambiamenti strutturali. Quindi farà un drammatico annuncio di chiusura della nota prigione di Guantanamo, e intanto andrà avanti con l’espansione della prigione di più basso profilo, ma spaventosamente fuorilegge, di Bagram in Afghanistan, opponendosi all’attribuzione di responsabilità per gli ufficiali di Bush che avevano autorizzato le torture. Nominerà sfrontatamente la prima Latinoamericana alla Corte Suprema, mentre intensifica le misure costrittive dell’era Bush in un nuovo divieto all’immigrazione. Farà investimenti nell’energia pulita, mentre sostiene la fantasia del “carbone pulito” e si rifiuta di tassare le emissioni, l’unico modo sicuro per ridurre in modo sostanziale il consumo di combustibili fossili. E, cosa ancor più importante, dichiarerà di porre fine alla guerra in Iraq, e ritirerà l’orrenda espressione “guerra al terrorismo”, proprio mentre i conflitti condotti da quella logica fatale si aggravano in Afghanistan e Pakistan.

Questa predilezione per i simboli, anziché la sostanza, e questa riluttanza ad attenersi ad una moralità chiara se con conseguenze impopolari, sono le occasioni in cui Obama si allontana di più dai movimenti politici progressisti, dai quali ha preso così tanto (i poster di pop-art dal Che, la sua cadenza da King, il suo slogan “Yes We Can!” dagli agricoltori emigranti – si se puede). Questi movimenti hanno fatto richieste inequivocabili per strutture di potere reali, quali la distribuzione di terra, l’aumento dei salari, o programmi sociali ambiziosi. Grazie a tali richieste, questi movimenti non solo hanno seguaci impegnati, ma anche importanti nemici. Obama, in netto contrasto sia con i movimenti sociali che con i presidenti progressisti come FDR [Franklin Delano Roosevelt, ndr], segue la logica del marketing: creare un canovaccio allettante, sul quale tutti possano proiettare i propri desideri più profondi, ma rimanendo abbastanza vago da non perdere il consenso di nessuno, a parte il branco dei politicamente impegnati (che, garantito, è costituito da un numero non irrilevante di persone, negli Stati Uniti). L’era pubblicitaria ha ottenuto un grande risultato quando è uscito che il marchio di Obama è: “grande abbastanza per essere qualunque cosa per chiunque, pur mantenendo una sensibilità sufficientemente profonda da ispirare protezione”. E poi il loro maggior complimento: “il signor Obama in qualche modo è riuscito ad essere sia Coca Cola che Honest Tea [linea di bevande naturali, ndt], sia una megafirma con una consapevolezza globale e una rete di distribuzione che l’outsider di nicchia che si è fatto da solo”.

Un altro modo di vederla è che Obama ha interpretato il ruolo del pacifista e dell’intruso anti-Wall Street davanti alla gente comune, che ha quindi immaginato se stessa alla guida di un’insurrezione contro il monopolio dei due partiti, attraverso organizzazioni tenaci e donazioni ricavate dalla vendita di limonata o trovate nelle pieghe del divano. Nel frattempo, ha ottenuto più soldi da Wall Street di qualunque altro candidato presidenziale, ha inghiottito in un solo boccone la classe dirigente del Partito Democratico, dopo aver sbaragliato Hillary Clinton, per poi perseguire tentativi di “compromesso” con i pazzi Repubblicani una volta finito alla Casa Bianca.

Il fallimento di Obama, che si è rivelato non essere all’altezza del suo nobile marchio, potrà costargli caro? All’inizio non è stato così. Uno studio internazionale del Pew Global Attitudes Project [uno dei progetti portati avanti dal Pew Research Center, think tank statunitense, ndt], condotto cinque mesi dopo l’inizio del suo mandato, ha chiesto alle persone se fossero fiduciosi che Obama “avrebbe fatto la cosa giusta nel mondo degli affari”. Nonostante ci fossero già molte prove del fatto che Obama stesse perseguendo lo stesso tipo di politiche internazionali di Bush (sebbene con uno stile molto meno arrogante), la maggior parte degli intervistati ha detto che approvava Obama – presente in Giordania e in Egitto quattro volte tanto rispetto all’era Bush. In Europa il cambiamento di opinione può darvi un quadro chiaro: Obama aveva il consenso del 91% degli interpellati e l’86% dei Britannici – da confrontare con il 13% e il 16% rispettivamente per quanto riguarda Bush. Il sondaggio è stato la prova che “la presidenza di Obama ha di fatto cancellato la battuta d’arresto subita dall’immagine degli Stati Uniti durante gli otto anni dell’amministrazione Bush”, secondo USA Today. Axelrod si è espresso come segue: “È successo che l’antiamericanismo non è più di moda”.

Questo è certamente vero, e ha avuto conseguenze reali. L’elezione di Obama e la storia d’amore che ne è conseguita tra un’America rinnovata e il resto del mondo sono arrivate in un momento cruciale. Nei due mesi precedenti all’elezione, la crisi finanziaria scuoteva i mercati del mondo, ed era stata giustamente accusata non solo del contagio con le pessime scommesse di Wall Street, ma anche per l’intero modello economico di deregolamentazione e privatizzazione, che era stato osannato dalle istituzioni prevalentemente statunitensi come il FMI e l’OMC. Se gli Stati Uniti non fossero stati guidati da una superstar mondiale, il prestigio statunitense avrebbe continuato a precipitare e la collera nei confronti del modello economico alla base del disastro globale si sarebbe molto probabilmente trasformata in richieste chiare e forti affinché fossero inserite nuove regole (e tassazioni serie) alla finanza speculativa.

Quelle regole dovevano essere all’ordine del giorno durante l’incontro dei leader del G20 che ha avuto luogo a Londra nell’Aprile 2009, nel pieno della crisi economica. Invece la stampa si è concentrata sugli avvistamenti dell’elegante coppia Obama, mentre i leader mondiali si accordavano per ridare vita al morente FMI – uno dei maggiori colpevoli di questo disastro – con una cifra di circa un bilione di dollari in nuovi finanziamenti. In breve, Obama non ha soltanto ridato un nuovo volto all’America, ma ha resuscitato il progetto economico neoliberista quando questo aveva un piede nella fossa. Nessuno tranne Obama, erroneamente percepito come un nuovo FDR, sarebbe riuscito ad ottenere un risultato come questo.

Rileggere No Logo dopo 10 anni fornisce molti suggerimenti su come il successo delle grandi marche possa essere transitorio, e che nulla è più transitorio del fatto di essere di moda. Molte delle grandi firme e delle celebrità che sembravano intoccabili fino a poco tempo fa, sono oggi appassite, oppure in profonda crisi. Il marchio di Obama potrebbe subire un destino simile. Sicuramente gran parte delle persone lo ha sostenuto per ragioni strategiche: non volevano che vincessero i Repubblicani e lui era il miglior candidato. Ma cosa succederà quando le folle di seguaci di Obama capiranno che non hanno consegnato i loro cuori ad un movimento che condivideva i loro valori più profondi, ma ad un partito politico devotamente corporativista, che mette i profitti delle compagnie farmaceutiche prima della necessità di un sistema sanitario accessibile a tutti, o l’inclinazione di Wall Street alle bolle finanziarie prima delle necessità di milioni di persone, le cui case e posti di lavoro potevano essere salvate da manovre finanziarie migliori?

Il rischio – assolutamente reale – è che la risposta sia un’ondata di profondo cinismo, particolarmente tra i più giovani, per i quali la campagna elettorale di Obama è stata il primo impatto con la politica. La maggior parte non si limiterebbe a cambiare partito, ma farebbe quello che erano soliti fare i giovani durante le elezioni: rimanere a casa e fregarsene. Un’altra possibilità, più auspicabile, è che l’obamamania finisca per essere quello che i consiglieri del presidente americano chiamano “un’occasione per imparare qualcosa”. Obama è un politico di talento, con una profonda intelligenza e un’inclinazione verso la giustizia sociale maggiore di qualunque altro leader di partito nella storia recente. Se lui non è in grado di cambiare il sistema per mantenere le sue promesse elettorali, è perché il sistema stesso è totalmente corrotto.

C’era un dibattito in corso riguardo al cambiamento del sistema, che aveva preso piede durante il breve periodo tra le proteste anti-OMC di Seattle nel Novembre 1999 e l’inizio della cosiddetta “guerra al terrorismo”. Il mondo dei media insisteva a chiamarlo il movimento “anti-globalizzazione”, e non contava molto quale partito politico fosse al potere nei rispettivi paesi. Eravamo attentamente concentrati a studiare le regole del gioco, e come fossero state distorte a favore degli interessi delle corporazioni a qualunque livello governativo – dagli accordi internazionali di libero mercato, a quelli locali sulla privatizzazione dell’acqua.

Guardandomi indietro, quello che ho apprezzato di più è stato l’impegno intensivo che ruotava attorno al movimento. Nei due anni successivi all’uscita di No Logo ho partecipato a dozzine di incontri e conferenze, alcuni dei quali seguiti da migliaia di persone, dedicati esclusivamente alla divulgazione dei meccanismi più profondi della finanza e del mercato globali. Era come se le persone avessero capito tutto d’un colpo che raccogliere informazioni su questi argomenti era cruciale alla sopravvivenza non solo della democrazia, ma dell’intero pianeta. Certo, si trattava di argomenti complicati, ma ci siamo dedicati a quella complessità perché ci stavamo finalmente occupando dei sistemi nel loro insieme, non soltanto dei simboli.

In alcune parti del mondo, in particolare in America Latina, quell’ondata di resistenza si era diffusa e rafforzata. In alcuni paesi i movimenti sociali erano cresciuti abbastanza da affiancare i partiti politici, vincendo elezioni nazionali ed iniziando a forgiare un nuovo sistema regionale di accordi commerciali a tutela della concorrenza. Ma altrove l’11 Settembre ha di fatto cancellato l’esistenza di questi movimenti. Ciò che sapevamo sulla sofisticazione del corporativismo globale – ovvero che tutta l’ingiustizia mondiale non poteva ricadere su un solo partito politico, o una nazione, non importa quanto potente – sembrò dissolversi.

Se c’è un momento per ricordare le lezioni che abbiamo imparato nel corso del cambio di millennio, questo momento è ora. Un beneficio del fallimento internazionale a regolamentare il settore finanziario, anche dopo il suo catastrofico collasso, è che il modello economico dominante si è rivelato essere non tanto un “libero mercato” quanto un “vecchio capitalista” – con i politici che consegnano i beni pubblici nelle mani di entità private in cambio di sostegno. Quello che di solito veniva elegantemente nascosto, ora si trova in bella vista. Analogamente, la rabbia del pubblico nei confronti dell’avidità delle corporazioni è al suo punto più alto, non solo nell’arco della mia vita, ma anche in quella dei miei genitori. Molti degli argomenti apparentemente marginali di cui parlavano gli attivisti nelle strade 10 anni fa sono oggi concetti accettati, di cui si parla nei talk show e nelle pagine dei quotidiani principali.

Tuttavia, in questo momento populista, manca quello che stava cominciando ad emergere una decina di anni fa: un movimento che non risponda soltanto alle indignazioni individuali, ma che abbia anche una serie di richieste concrete per un modello economico più giusto e sostenibile. Negli Stati Uniti e in molte parti dell’Europa sono i partiti di estrema destra, o addirittura neofascisti, che stanno dando maggiore voce alla collera anti-corporativista.

Personalmente, niente di tutto questo mi fa sentire tradita da Barack Obama. Percepisco piuttosto una familiare ambiguità, esattamente come quando marche come la Nike o la Apple avevano iniziato ad usare immagini rivoluzionare nelle loro campagne pubblicitarie. Le loro costose ricerche di mercato avevano evidenziato nelle persone una bramosia per qualcosa che andasse oltre lo shopping, qualcosa come il cambiamento sociale, gli spazi pubblici, maggiore uguaglianza e diritto alla diversità. Ovviamente le grandi marche hanno cercato di approfittare di quella bramosia per vendere più cappuccini e computer portatili. A me è sembrato che il mercato dovesse riconoscerci un debito di gratitudine: le nostre idee non erano così antiquate come ci avevano detto. E dal momento che le grandi società non erano riuscite a realizzare i propri desideri più profondi, si stavano svegliando, regalando ai movimenti sociali un nuovo slancio.

Forse Obama dovrebbe essere visto allo stesso modo. Ancora una volta le ricerche di mercato sono andate a nostro vantaggio. Le elezioni e il sostegno globale ad Obama ci hanno dimostrato in maniera decisiva che c’è un enorme desiderio di cambiamento progressista, che molte, moltissime persone non vogliono vedere mercati aperti sotto intimidazione, sono disgustate dalla tortura, credono in modo appassionato alle libertà civili, vogliono le corporazioni fuori dalla politica, vedono il riscaldamento globale come la lotta dei nostri tempi, e vogliono con tutte le forze prendere parte ad un progetto politico più grande di loro.

Questo tipo di obiettivi, votati alla trasformazione, potranno essere ottenuti soltanto quando i movimenti sociali indipendenti avranno i numeri e il potere per fare richieste forti alle proprie élite. Obama ha vinto perché ha saputo trarre vantaggio dalla nostra profonda nostalgia per quel tipo di movimenti sociali. Ma si è trattato soltanto di un’eco, un ricordo. Il prossimo scopo è quello di costruire movimenti che siano – prendendo in prestito un vecchio slogan della Coca Cola – “quello che ci vuole” [nel testo originale “the real thing”, letteralmente “la cosa vera”, ndt]. Come era solito dire Studs Terkel, il grande storico: “la speranza non è mai stata smorzata, ma anzi è sempre cresciuta”.

Naomi Klein
Fonte: www.commondreams.org
Link: http://www.commondreams.org/view/2010/01/16-7
16.01.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ELISA NICHELLI

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