L’apparato bellico iraniano pronto allo scontro
DI KAVEH L. AFRASIABI
Secondo alcuni mezzi d’informazione, gli Stati Uniti e Israele starebbero prendendo in considerazione l’ipotesi di operazioni militari contro l’Iran, e l’Iran non sta perdendo tempo nell’organizzare le sue contromosse nel caso in cui l’attacco si verifichi.
Si sono appena concluse, in cinque delle province sudoccidentali dell’Iran, esercitazioni combinate aria-terra durate una settimana. Queste manovre hanno in qualche modo affascinato gli osservatori stranieri, i quali hanno descritto come “spettacolare” l’enorme spiegamento di alta tecnologia, e le operazioni di spostamento, inclusi rapidi spiegamenti di forze, impiegando squadriglie di elicotteri, decollo di aerei, lancio di missili, così come centinaia di carri armati e decine di migliaia di soldati ben addestrati che usavano munizioni vere. Contemporaneamente, qualcosa come 25.000 volontari si sono finora iscritti alle nuove liste per “attacchi suicidi” contro qualsiasi potenziale invasore, in quella che viene ormai comunemente definita “guerra asimmetrica”.
Dietro la strategia di fronteggiare un’ipotetica invasione degli USA, è probabile che l’Iran voglia ricreare lo scenario iracheno di schiacciante superiorità, soprattutto da parte dell’aviazione americana, rivolta ad una rapida vittoria su uno schieramento molto più debole. Facendo tesoro sia della guerra in Iraq del 2003 che della sua stessa preziosa esperienza nella guerra contro l’Iraq del 1980-88, nonchè dello scontro con le forze americane nel Golfo Persico nel 1987-88, gli iraniani si sono concentrati sui vantaggi di una fluida e complessa strategia di difesa, che trae profitto da alcune debolezze nella superpotenza militare americana, mentre massimizza quelle poche preziose aree in cui potrebbe avere il sopravvento, come ad esempio la superiorità numerica nelle forze di terra, le tattiche di guerriglia, il territorio, etc.
Secondo un articolo molto pubblicizzato sui “Giochi di Guerra dell’Iran” apparso sulla rivista americana Atlantic Monthly, un attacco all’Iran avrebbe un costo irrisorio, stimato in poche decine di milioni di dollari. Questa previsione è basata su un repentino “attacco chirurgico”, combinando lancio di missili, bombardamenti a tappeto e covert operations, senza preoccuparsi della strategia iraniana, che ha il preciso obiettivo di “estendere il teatro delle operazioni” al fine di ottenere il massimo delle perdite fra gli invasori, mirando anche alle strutture di comando americane nel Golfo Persico.
Con questa versione iraniana della “controstrategia di rincalzo”, le previsioni americane di una guerra localizzata che miri a paralizzare il sistema di comando iraniano, come preludio ad un attacco sistematico ad obiettivi militari chiave, potrebbe essere contrastata dalla tattica di “portare la guerra da loro”, come dice testualmente uno stratega militare iraniano, che sottolinea una certa debolezza delle strutture americane nella parte meridionale del Golfo Persico. (Nei mesi precedenti, caccia americani hanno ripetutamente violato lo spazio aereo iraniano sopra la provincia del Khuzestan, mettendo alla prova il sistema di difesa aerea dell’Iran, secondo alcuni ufficiali iraniani.)
La proliferazione di sistemi missilistici mobili altamente sofisticati, gioca un ruolo cruciale nella strategia dell’Iran, che una volta di più si basa sull’esperienza delle due guerre in Iraq del 1991 e del 2003. Nella guerra contro il Kuwait i missili iracheni furono fondamentali per estendere lo scontro fino in Israele, anche tenendo conto del fallimento dei missili Patriot americani nel deviare la maggior parte dei missili iracheni piovuti su Israele e, in misura minore, sulle forze americane in Arabia Saudita. Inoltre, per stessa ammissione del comandante in capo statunitense durante il conflitto, il generale Norman Schwarzkopf, la caccia alle postazioni mobili Scud irachene impegnò un’enorme quantità di risorse aeree della coalizione, e fu difficile come cercare “un ago in un pagliaio”.
Oggi, nell’evoluzione della dottrina militare iraniana, il paese conta molto su missili a lungo raggio sempre più precisi, come gli Shahab-3 e i Fateh-110, in grado di “colpire obiettivi a Tel Aviv”, per citare il ministro degli esteri iraniano Kemal Kharrazi.
Cronologicamente parlando, l’Iran ha prodotto i missili Oghab con un raggio di 50 km nel 1985, poi i missili Mushak da 120 e da 160 km rispettivamente nell’86-87 e nell’88. Sempre nell’88 ha iniziato ad assemblare gli Scud-Bs (Variante degli Scud a raggio più corto NdT), e nel 91, con la consulenza tecnica della Corea del Nord, ha iniziato a convertire gli impianti di manutenzione dei missili, in impianti di fabbricazione. Non sembra tuttavia che l’Iran abbia intrapreso la produzione di Scud,
. Sembra piuttosto che abbia cercato di costruire Shahab-3 e Shahab-4, missili rispettivamente con un raggio di 1.300 km e testata da 730 kg, e raggio di 220 km con testata da 100 kg. Lo Shahab-3 ha effettuato dei test nel luglio del 1998, e la sua gittata potrebbe presto essere aumentata fino a 2000 km, diventando dunque capace di raggiungere il cuore dell’Europa.
Grazie alle enormi entrate ricavate dal sempre più alto prezzo del petrolio, che costituisce più dell’80% del bilancio annuale del governo, l’Iran non si trova più ad avere le restrizioni di budget dell’inizio e della metà degli anni 90, quando le sue spese militari erano circa un decimo di quelle dei vicini paesi arabi nel Golfo Persico appartenenti al Gulf Cooperation Council; quasi tutti gli stati arabi possiedono almeno un sistema missilistico avanzato (l’Arabia Saudita i CSS-2/DF, lo Yemen gli SS-21 e gli Scud-B, l’Iraq i Frog-7).
Per l’Iran, i vantaggi di avere un arsenale balistico sono molteplici: primo, è relativamente economico e può essere costruito in casa senza dipendere troppo da appoggi esterni e dalla relativa pressione nei “controlli sull’esportazione di missili” esercitata dagli americani. Secondo, i missili sono mobili e possono essere nascosti al nemico, al contrario dei jet da caccia che richiedono basi fisse. Terzo, i missili sono armi molto efficaci e possono essere lanciati senza che il bersaglio abbia il minimo preavviso, in particolare i Fatah-110 “a combustibile solido”, che richiedono solo pochi minuti di installazione prima di essere lanciati. Quarto, sono armi di confusione e con uno straordinario potenziale di attacco, capaci di mandare all’aria qualsiasi piano militare; basti pensare a come l’attacco dei missili iracheni, nel marzo 2003, alle truppe americane schierate al confine col Kuwait costrinse gli americani ad un radicale cambiamento di strategia, perdendo così di vista il piano iniziale, che prevedeva attacchi dell’aviazione prima degli scontri fra le forza di terra, come infatti era successo durante la prima Guerra del Golfo, quando l’esercito era entrato in azione dopo 21 giorni di pesanti raid aerei all’interno sia dell’Iraq che del Kuwait.
Di conseguenza, probabilmente ogni attacco americano all’Iran si troverà a fronteggiare innanzitutto contrattacchi missilistici che coinvolgeranno anche quegli stati nel sud del Golfo Persico che ospitano forze armate americane, così come tutti quei paesi, come Azerbaigian, Iraq o Turchia, che consentono l’uso del loro territorio o dello spazio aereo per attacchi contro l’Iran. La logica dietro questa strategia è proprio quella di mettere in guardia i paesi vicini sulle terribili conseguenze, e sul disastroso impatto che per lunghissimo tempo avrebbe sulle loro economie, il fatto di rendersi complici di invasori stranieri dell’Iran.
Un altro elemento chiave della strategia iraniana è “ampliare l’arco della crisi” in paesi come l’Afghanistan e l’Iraq, sui quali ha una notevole influenza, per minare alla base gli appoggi americani nella regione, sperando di creare un contro-effetto domino in cui invece di avanzare in Iran, in realtà gli americani perderebbero terreno a causa della dispersione di forze e della “sovraestensione” militare.
Ulteriore componente di questa strategia è la guerra psicologica, un’area attualmente molto considerata dagli analisti militari del paese, memori delle “lezioni in Iraq” e di come la guerra psicologica pre-invasione da parte degli Stati Uniti riuscì a causare una notevole frattura fra i più alti gradi dell’esercito Ba’ath, così come fra il regime e il popolo. La guerra psicologica americana in Iraq ebbe anche una dimensione politica, visto come riuscirono a portare dalla loro parte i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riguardo alle misure anti-Iraq, spacciandole come reazione alle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
D’altra parte, la contro-guerra psicologica dell’Iran sembra trarre vantaggio dai “timorosi” soldati americani, i quali se sono chiamati a combattere in guerre non strettamente legate alla difesa della loro patria, mancano di forti motivazioni. Una guerra contro l’Iran sicuramente richiederebbe l’introduzione in America della coscrizione obbligatoria, senza la quale non sarebbe possibile supportare le truppe sia in Afghanistan che in Iraq; imporre la leva significherebbe arruolare molti giovani soldati insoddisfatti, soggetti facilmente influenzabili da una guerra psicologica che verterebbe sulla mancanza di motivazioni e sulla “dissonanza cognitiva” di soldati indottrinati dalla “politica preventiva” del presidente George W. Bush, per non parlare di una guerra per procura combattuta per il bene di Israele.
Da parte loro, gli iraniani oggi si considerano a loro volta vittime di una guerra psicologica dello stesso tipo, con la quale gli americani, per fare un esempio, cercano astutamente di trarre vantaggio dallo scontento dei giovani disoccupati, versando per loro pubblicamente lacrime di coccodrillo, come si può notare in una recente intervista al Segretario di Stato uscente Colin Powell. Come al solito, la disinformazione sistematica riveste un ruolo chiave nella guerra psicologica, e gli USA hanno triplicato il numero dei loro programmi radiofonici trasmessi in Iran e, secondo recenti rapporti del Congresso, hanno incrementato in modo sostanziale il loro supporto economico verso programmi anti-regime televisivi e via Internet, mentre al contempo esaltano pubblicamente l’ideale dell’ “intelligenza umana” in un futuro scenario di conflitto basato per lo più su operazioni coperte.
Di conseguenza, in questo momento l’Iran ha la sensazione di essere assediato, alla luce della “fascia di sicurezza” che gli americani stanno stringendo intorno al paese, approfittando delle loro basi militari in Iraq, Turchia, Azerbaigian, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, così come in Kuwait, Arabia Saudita, Qatar, Bahrain, Oman e sull’isola-guarnigione Diego Garcia.
Dal punto di vista dell’Iran, gli Stati Uniti dopo aver vinto la Guerra Fredda, si sono trasformati in un “leviatano folle”, capace di manipolare e sovvertire impunemente le regole del diritto internazionale e delle Nazioni Unite; a causa di ciò, da parte dell’Iran c’è bisogno di una sofisticata strategia di deterrenza che, secondo alcuni esperti iraniani, comprenderebbe perfino l’uso di armi atomiche.
Opinioni come questa sono senza dubbio in minoranza, e nel complesso esiste un generale dissenso nei confronti della costruzione di ordigni nucleari, che deriva dalla convinzione che, a parte il fatto di crearsi una “second-strike capability” (capacità di un contro-attacco – cioè la possibilità da parte di un paese di effettuare una rappresaglia devastante contro il territorio e la popolazione avversari anche dopo aver subito il primo attacco nucleare, NdT), nessun deterrente nucleare sarebbe efficace contro un paese che possiede migliaia di “armi nucleari tattiche”.
Oltretutto, pensando alla disparità nucleare fra India e Pakistan, la possibilità da parte di quest’ultimo di colpire per primo costituisce un deterrente nei confronti della maggiore potenza nucleare dell’India, una lezione preziosa che l’Iran ha ben presente.
Quindi, mentre l’Iran ha totalmente sottoposto il suo programma nucleare alle ispezioni internazionali, e ha sospeso i progetti di arricchimento dell’uranio in seguito ai recenti accordi Iran-Unione Europea firmati in novembre a Parigi, c’è tuttavia la preoccupazione assillante che l’Iran possa aver indebolito la sua strategia di deterrenza verso gli Stati Uniti, che non hanno sottoscritto gli accordi di Parigi, riservandosi il diritto di rinviare la questione nucleare iraniana al Consiglio di Sicurezza, e al contempo di ricorrere ad occasionali azioni militare contro l’Iran.
Allo stesso tempo, nonostante una campagna stampa, in particolare da parte del New York Times, con articoli dai titoli provocatori come “Gli USA contro l’Iran nucleare”, gli Stati Uniti continuano la loro poderosa propaganda contro l’Iran violento, alimentando a loro volta le preoccupazioni per la sicurezza nazionale di quella parte di iraniani che considerano la deterrenza nucleare come un mezzo per la sopravvivenza nazionale.
Per quanto riguarda questi ultimi, vi è il crescente convincimento che, indipendentemente da quanto l’Iran possa essere conciliante verso le richieste dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica dell’ONU (come fu per l’Iraq nel 2002-03), gli USA, che hanno incluso l’Iran nel loro presunto “asse del male”, stiano astutamente gettando le basi della loro prossima guerra in Medio Oriente, anche rilanciando vecchie accuse di terrorismo e di complicità iraniana nel bombardamento di Ghobar, in Arabia Saudita, del 1996, senza tenere conto del rifiuto ufficiale saudita di tale ricostruzione, totalmente dimenticato in un recente libro sull’Iran di Kenneth M. Pollack,
The Persian Puzzle (vedere Asia Times Online, The Persian puzzle, or the CIA’s?, del 3 dicembre).
Esiste dunque una emergente “deterrenza proto-nucleare”, secondo la quale la capacità iraniana di utilizzare il ciclo di combustione nucleare renderebbe “disponibili armi atomiche” in un periodo di tempo relativamente breve, una sorta di “soglia di capacità” di pre-produzione delle armi che deve essere presa in considerazione dai nemici dell’Iran che avessero in mente di attaccare le sue installazioni nucleari. Tali attacchi incontrerebbero una dura resistenza, considerati lo storico nazionalismo e patriottismo dell’Iran, e darebbero il via ad una corsa agli armamenti basati sulla tecnologia nucleare. Perciò, più a lungo gli Usa e Israele mantengono tale minaccia militare, più potente e attraente potrà apparire all’Iran la prospettiva di una “deterrenza proto-nucleare”.
Infatti, la minaccia militare si è dimostrata molto negativa per l’economia iraniana, facendo fuggire investitori stranieri e causando una considerevole fuga di capitali, una situazione insostenibile che ha portato alcuni economisti perfino a chiedere che gli Usa vengano citati in tribunali internazionali per ottenere dei risarcimenti. Naturalmente è un paradosso, e gli iraniani dovrebbero stabilire un nuovo precedente legale per vincere la loro causa davanti ad una corte internazionale. L’Iran non può più permettere che, a causa delle minacce militari, gli investimenti nel paese continuino a calare, e replicare con una estesa strategia di deterrenza che aumenti il valore dei rischi per gli alleati degli americani nella regione potrebbe contribuire a risolvere questa drammatica situazione.
Apriamo una parentesi. Ironicamente alcuni amici di Israele negli Stati Uniti, tra cui Alan Derhowitz, professore di diritto ad Harvard, un accanito sostenitore della necessità di “torturare i terroristi”, ha recentemente, su un sito filo-israeliano, firmato un editoriale in cui chiede una revisione del diritto internazionale, per consentire un attacco militare israeliano e americano contro l’Iran. Dershowitz ha chiaramente calpestato i principi del diritto, mettendo in ridicolo un’istituzione apprezzata e considerata fondamentale negli Usa; le stesse università della Ivy League sono teatri di discorsi pieni di odio sullo “scontro di civiltà”, un’altra decorazione per la sua amata teoria. Perfino il direttore della Harvard’s Kennedy School, Joseph Nyde, una pseudo colomba, ha replicato all’ossessione americana per il potere, scrivendo libri e articoli sul “soft power” che permea ogni aspetto della vita americana, inclusa la cultura e l’industria dell’intrattenimento, un’appendice o un “complemento” dell’”hard power” statunitense, come se la reificazione del potere in quello che Jurgen Habermas chiama “mondo vitale” (Lebenswelt) fosse la conditio sine qua non della Pax Americana.
L’inganno del potere, tuttavia, è di essere spesso cieco davanti all’opposizione che genera, come è stato il caso della cinquantennale resistenza del popolo cubano contro un duro embargo economico, o la lotta dei nazionalisti algerini conto il colonialismo francese negli anni cinquanta e sessanta; attualmente, il popolo iraniano si trova nella poco invidiabile situazione di cercare di sopravvivere all’imminente attacco del potere americano, totalmente manovrato dai falchi della politica con la maschera del multilateralismo riguardo al programma nucleare iraniano. Inoltre, pochi in Iran credono davvero che questo sia poco più che uno pseudo-multilateralismo volto a soddisfare il militarismo unilaterale statunitense. Si spera che questo percorso si interrompa in un prossimo futuro, ma nel caso non succedesse, il “Terzo Mondo” iraniano sta facendo quello che può per prepararsi a tale scenario da incubo.
Tutta questa situazione richiede una prudente gestione della crisi e una maggiore fiducia reciproca sui problemi della sicurezza. È auspicabile inoltre, che l’orribile storia delle continue guerre nei paesi ricchi di petrolio possa essa stessa agire come deterrente.
Kaveh L. Afrasiab, è l’autore di After Khomeini: New Directions in Iran’s Foreign Policy (Westview Press) e di “Iran’s Foreign Policy Since 9/11” (Brown’s Journal of World Affaire) scritto insieme all’ex ministro degli Esteri Abbas Maleki. Insegna scienze politiche all’Università di Teheran.
Fonte: www.atimes.com/atimes
Link: http://www.atimes.com/atimes/Middle_East/FL16Ak01.html
16.12.05
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GIUSEPPE SCHIAVONI