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La Redazione

 

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COME HARVARD HA INSABBIATO IL SUO SCANDALO RUSSO

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A cura di Davide
Il 10 Maggio 2011
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DI DAVID WARSH
counterpunch.org

L’ostruzionismo funziona e Larry Summers ne è ben consapevole

Mi incuriosisco sempre quando vedo un nuovo libro sulla transizione dell’economia russa dalla pianificazione centralizzata all’odierna oligarchia dei siloviki basata sul petrolio. “No Precedent, No Plan” di Martin Gilman rivendica il diritto di aver scritto le parole definitive su alcuni di questi eventi. Gilman dice che l’impatto del crollo dell’agosto del ’98 deve essere compreso se si vuole capire la Russia contemporanea. L’edizione inglese è una versione più sintetica del libro rispetto a quella russa.

Gilman dovrebbe saperlo. Nel 1993 era stato nominato membro anziano della delegazione russa del Fondo Monetario Internazionale, poco dopo l’insediamento dell’amministrazione Clinton. Si trasferì a Mosca nel novembre del ’96 e vi rimase fino al 2002. Lungo il percorso si è sposato con un’importante giornalista politica russa, Tatiana Malkina, guadagnandosi così un insolito accesso ai massimi livelli del governo russo e, in questo modo, “un intuito speciale nel capire il modo in cui i russi vedono davvero il loro mondo”.
Oggi è docente presso la Scuola Superiore di Economia dell’Università Statale di Mosca.

Ed è da questo punto di vista che Gilman cerca di chiarire i vari “stereotipi pericolosi” e di mettere a tacere il continuo “sospetto di corruzione che ha accompagnato la discussione sulle questioni finanziarie russe” nella seconda metà degli anni novanta.

No Precedent, No Plan” attribuisce i vari scandali del 1999 a menzogne create ad arte per screditare gli avversari, una tattica alquanto ricorrente nelle campagne politiche russe. Quindi è abbastanza strano che il libro non faccia alcuna menzione del ben documentato scandalo di Mosca, che preparò il terreno per vari sospetti che seguirono alla rinegoziazione del debito estero russo sotto la supervisione del Fondo Monetario Internazionale nell’agosto 1998.

Nel 1997 l’Agenzia americana per lo Sviluppo Internazionale (USAID) licenziò il team dell’Università di Harvard al quale quattro anni prima aveva assegnato il compito di consigliare il governo di Boris Eltsin. Erano emerse le prove che il leader del team, il professore di Harvard Andrei Shleifer, sua moglie, il suo vice e la fidanzata del suo vice avessero spodestato le imprese autorizzate per ottenere per loro stessi la prima licenza per la distribuzione di quote di fondi comuni in vista di un’ampia privatizzazione su incarico dei russi che avrebbero dovuto consigliare.

L’economista ad Harvard Lawrence Summers, mentore e buon amico di Shleifer, che ha partecipato innanzitutto alla selezione dei membri del team in qualità di membro del Dipartimento di Stato, rimase al Dipartimento del Tesoro dove, in veste di vice segretario, supervisionò la risposta americana alla crisi russa del ’98. Nel 1999 divenne egli stesso Segretario del Tesoro, sostituendo Robert Rubin. Nel 2000 il governo americano citò in giudizio Harvard e gli altri per frode e, dopo lunghe contestazioni durante il processo, recuperò la sua quota. Summers nel frattempo è stato nominato preside ad Harvard e, non molto tempo dopo, assunse Rubin fra i sette membri di Harvard che governano la Grande Impresa. Cinque anni dopo, la manipolazione da parte di Summers del progetto Russia nel corso degli anni è stato considerato dal New York Times come uno delle cause principali del suo licenziamento.

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Quando Summers tornò a Washington come capo consigliere economico del presidente Barack Obama, la moglie di Shleifer, l’operatrice sugli hedge-fund Nancy Zimmerman, fu riconosciuta dal Times come facente parte della ristretta cerchia di consulenti informali, assieme a Lawrence Fink, amministratore della BlackRock, la grande impresa di gestione di capitali, e H.Rodgin Cohen, presidente dello studio legale Sullivan & Cromwell, e molti altri…

Eppure non viene fatto nemmeno il nome di Shleifer in “No Precedent, No Plan”, quando Gilman scrive: “I membri del personale della Banca Mondiale, quelli di altre agenzie internazionali, alcuni think tank occidentali e consulenti accademici come [Anders] Aslund, [Richard] Layard e [Jeffrey] Sachs e gli addetti finanziari del G-7 di stanza a Mosca avevano anch’essi un accesso privilegiato, ma nessuno è stato in grado di avere una panoramica completa della situazione macroeconomica in modo continuativo quanto il FMI”.

Così, quando di recente Gilman ha parlato del suo libro all’Harvard’s Russian Research Center, ho smesso di ascoltarlo. Verso la fine del suo discorso ho chiesto informazioni riguardo al progetto di Harvard e ha dato ciò che mi è sembrata una risposta davvero cordiale.

“Sto per dire qualcosa di molto politicamente scorretto. Penso che sia stata una tempesta in un bicchier d’acqua, o in una tazza da té. Pensavo che tutte queste cose fossero artificiose e strumentalizzate. Non sto dicendo che non vi fossero coinvolti elementi con scarsa capacità di giudizio. Penso che in termini di assistenza tecnica straniera ai russi sia stato effettivamente dato un valido contributo rispetto ad alcuni altri istituti che erano coinvolti lì. Penso che sia stato un esito triste, sciatto, come ho detto, scarsa capacità di giudizio, semplicemente non credo che avrebbe dovuto essere esagerato nella maniera in cui lo è stato. C’erano un sacco di nemici là fuori…Non conosco i dettagli nei particolari e non mi piace venire coinvolto in questo genere di cose.”

“Il fallimento della missione di Harvard, assieme alla propaganda russa, non ha creato imbarazzo nel FMI?”

“No, no. Perché se ogni volta che c’era qualche scorrettezza o qualche accusa – non siamo giudici – se ogni volta che c’era una scorrettezza, non avremmo mai potuto far niente. Hai sollevato una buona questione, perché più tardi non riuscimmo a soprassedere sulle irregolarità, non nel ’97 o nel ’98, ma quando gli scandali che ho menzionato (nel libro) iniziarono… accuse minori di questo genere poi… il FMI non potrebbe (più) ignorarle.”

In realtà ho notato che le accuse ad Harvard non erano minori. Erano state mosse non da qualche specialista russo della disinformazione, ma da informatori americani. Lo stesso “Harvard Institute for International Development” (HIID) aveva licenziato il capo del suo team e l’USAID aveva a sua volta licenziato l’HIID a causa dell’inadeguatezza della sua supervisione.

Si era indagato ampiamente sul caso che era stato in seguito portato in giudizio presso la corte distrettuale di Boston. La difesa di Harvard e quella di Shleifer erano state seccamente respinte sia dal giudice che dalla giuria. Entrambi sono stati ritenuti colpevoli di frode. La triste fine dei “cosiddetti Harvard Boys”, come li chiama Gilman in un passaggio del suo libro, era in altre parole un caso dimostrato.

Allora perché l’episodio non è stato ritenuto degno di essere menzionato nel libro? Nella conversazione seguita al discorso, Gilman pensò in un primo momento che dovesse averla inclusa. Poi ha ipotizzato che fosse stata lasciata da parte durante la revisione quando l’originale russo è stato tradotto in inglese. Ha promesso di cercare di capire che cosa avesse detto. Ma non ha risposto a neanche una mail.

Purtroppo “No Precedent, No Plan” è l’ennesimo libro sulla Russia degli anni ’90 ad essere pubblicato con sopra apposto un asterisco, il dispositivo tipografico che nella storia dello sport indica un record viziato dalle circostanze. Potrebbe darsi che magari Gilman rifletta esattamente ciò che una nutrita quota dell’opinione pubblica russa pensa degli interventi a guida statunitense in quegli anni, ma ne dubito. Di sicuro non conosce molto delle correnti più profonde dell’opinione pubblica americana.

D’altro canto, ormai l’omissione non è del tutto colpa di Gilman. La strategia di Harvard di negare quasi tutto dall’inizio è in gran parte riuscita nei dodici anni che sono passati da allora, e per la storia non è diventata una realtà sociale ben consolidata. Sachs ha lasciato Harvard per la Columbia.

L’Harvard Institute for International Development, che Gilman aveva diretto, è stato sciolto invece di essere rafforzato. E quando la causa è stata definitivamente perduta, dopo otto anni di dispute, l’università ha dato una tiratina d’orecchie a Shleifer e ha chiuso l’indagine della commissione di facoltà sulla sua condotta. Summers è rimasto in disparte per la maggior parte della durata della causa, quantomeno nel mondo esterno a Cambridge.

Harvard con il suo ostruzionismo può essersi comportata male, ma i maggiori quotidiani e i periodici si sono comportati addirittura peggio, con l’onorevole eccezione del Wall Street Journal, sul quale i giornalisti Steve Liesman e Carla Anne Robbins parlarono della vicenda nel 1997 (e Robbins la rispolverò e aggiornò nel 2004); e dell’Institutional Investor, nel quale il giornalista investigativo David McClintick ha dato una conclusione di massima alla vicenda nel gennaio 2006.

Tre esperti capi ufficio a Mosca hanno pubblicato i conti dei ruggenti anni ’90 in Russia senza menzionare l’imbarazzo di Harvard – David Hoffman, già giornalista del Washington Post (che ora scrive per Foreign Policy), Chrystia Freeland, già del Financial Times (ora alla Reuters) e Strobe Talbott, prima al Time. Tutti e tre hanno scritto a riguardo prima che il processo stabilisse fermamente la verità dei fatti, ma nessuno di loro si è preso la briga di tenere aggiornati i lettori. Talbott, che è stato vice Segretario di Stato per sette anni durante gli anni ’90, ha pubblicato (assieme a Michael Beschloss) “The Russia Hand: A Memoir of Presidential Diplomacy” dopo essere diventato presidente del Brookings Institution.

Se i normali pesi e contrappesi della concorrenza nei nuovi business fossero stati applicati, l’insabbiamento dello scandalo di Harvard non sarebbe riuscito quasi completamente, ma a partire dai primi anni 2000 i giornali avevano già iniziato la loro caduta finanziaria. Dovrei parlare però della delusione più sorprendente. David Remnick, in precedenza egli stesso capo ufficio del Washington Post a Mosca, autore di due libri sulla transizione russa, non è riuscito in quanto direttore del New Yorker a commissionare un pezzo sulla vicenda, sebbene avesse in John Cassidy uno dei migliori giornalisti finanziari del settore.

Come mai così tante persone col paraocchi si sono occupati di una vicenda così interessante ed importante?

La mia ipotesi è una specie di combinazione tra la bramosia di accesso ai piani alti da parte dei giornalisti e la lealtà istituzionale di vario genere fra i burocrati. Le autorità che hanno elaborato la risposta iniziale di Harvard si sono in precedenza consultate attentamente attraverso canali riservati con il vice Segretario al Tesoro Summers. Né la professione economica ha risposto tenendo in qualche modo sotto controllo la posizione di potere di Shleifer, il quale ha curato l’influente Journal of Economic Perspectives per cinque anni, vale a dire per tutto il periodo di sua maggior difficoltà.

Quante speranze ci sono che la storia abbia una corretta diffusione? McClintick, uno dei giornalisti investigativi più dotati della sua generazione (“Swordfish”, “Indecent Exposure” e “Stealing from the Rich”), sembra averci rinunciato dopo aver sposato la sua fonte migliore, Andrea Rutherford, che per molti anni è stata segretaria di Dimitri Vasiliev, capo della Commissione Securities and Exchange russa.

L’USAID, braccio semi-indipendente del Dipartimento di Stato, sta preparando una storia dei suoi ultimi vent’anni. Magari i suoi storici affronteranno il tema. Il personale dell’USAID conosce la verità e i suoi dirigenti, praticamente senza eccezioni, si sono comportati bene.

C’è addirittura la possibilità che la facoltà di Harvard richieda il rilascio della relazione del suo Comitato sulla Responsabilità Professionale. Poco prima che morisse il compianto Jeremy Knowles, preside della Facoltà di Arti e Scienze, aveva ordinato che rimanesse segreta.

“Inside Job” ha vinto il suo Oscar come miglior documentario domenica scorsa. Certo, ho molte riserve sul film di Charles Ferguson. La signora di Wall Street che insiste dicendo che tutti siamo responsabili è a malapena credibile, sembra essere là principalmente per scagionare il testimone-chiave Eliot Spitzer. I suoi narratori (Nouriel Rubini, Raghuram Rajan, Gillian Tett) non raccontano nessuna storia credibile se non per quanto riguarda l’avarizia (Ferguson si è formato come scienziato politico, non come economista, al Massachusetts Institute of Tecnology).

Eppure grazie alla pura forza retorica del suo film, molte università stanno avendo dei ripensamenti sui loro conflitti d’interesse e sulle politiche di divulgazione. Anche l’American Economic Association ha formato un comitato per accertare se abbia delle responsabilità nella questione. Ferguson merita quell’Oscar.

Questi comitati nelle loro deliberazioni farebbero bene a considerare anche la questione di Harvard. Sì, era in un paese straniero e, dopotutto, la questione è chiusa. Ma la sottile erogazione della borsa di studio della comunità degli studenti sul coinvolgimento americano nella transizione russa e dei giornalisti che la coprono, dal piccolo quartetto che era stato scelto per rappresentare il governo degli Stati Uniti al governo e ai cittadini russi è stata a mio parere una questione più grave di ogni singola cosa che è venuta a galla su Wall Street. Martin Gilman merita il suo asterisco, e così tutti gli altri qui nominati, inclusa specialmente l’Università di Harvard.

David Warsh si è occupato per ventidue anni di economia per il Boston Globe e, in precedenza, scriveva di affari per il Wall Street Journal e Forbes. Pubblica Economic Principals.com, un commentario settimanale indipendente sulla produzione e sulla diffusione di idee economiche, dove questo articolo è apparso per la prima volta. Può essere contattato tramite mail a [email protected]

Fonte: www.counterpunch.org
Link: http://www.counterpunch.org/warsh03042011.html
4.03.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di PASCAL SOTGIU

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