COME ALCE NERO DALLA COLLINA VEDO CHE LA GUERRA E' PERDUTA

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Il 2007 è per Guido Ceronetti, nato nel 1927, l’ ottantesimo. Fu tra i primi in Italia a preoccuparsi per la situazione ambientale e a trattarne ripetutamente. Gli abbiamo chiesto di parlarci della parte del suo lavoro di scrittore veteroambientalista.

DI GUIDO CERONETTI
Repubblica.it

Caro direttore, veteroambientalista mi piace. In verità, la voglia di salvare la Terra mi è passata da un pezzo, ma se qualcuno vuole provarci lascio fare: avrà da soffrire abbondantemente, la causa è disperata e senza esito, dunque buona. L’ Ambiente non è una scelta tecnica o politica, è un dilemma tra onore e disonore. Certamente io sarò stato dalla parte giusta, fedele al ruolo destinato di shomèr-hallàilah, la Vedetta Notturna di Isaia 21, contento della testimonianza; la Terra abitazione dell’ uomo è in perfetta perdizione, l’ onore di qualche Quijote naufrago è salvo. Ma se la interroghiamo, la Terra: «che cosa vuoi?» facilmente risponderà, con la vocina della Sibilla di Cuma di Petronio, «morire voglio». Ero un trentacinquenne acchiappaidee vaganti, mi scoppiarono in testa all’ improvviso tutte quelle atomiche una dopo l’ altra che si sperimentavano a Bikini e nei poligoni dell’ URSS, tutte in ionosfera, con ricadute di pioggia nera secondo i venti, un famoso pugno di mosche definito pulitamente dai polemologi, nel suo sbocco più probabile, MAD, Mutua Distruzione Atomica, su cui posò il suo ripugnante corollario di avvoltoio il benamato Mao nell’ intervista a Edgar Snow, che conservo: «Oh. Gli uccellini hanno pur ripreso a cantare, a Bikini. Persi un miliardo di uomini, dappertutto trionferà il socialismo». Trionfò invece, perché meglio cantassero gli uccellini, il bikini delle spiagge, ma a me la memoria di quell’ atollo martoriato rimase.

Come lavoro letterario sguazzavo felice in passati remoti di Vicino Oriente e di affini Occidenti, tuttavia cominciai presto a crescermi un archivio d’ amarezza, ritagli, voci e documenti di questa per me così strana, insolubile, enigmatica pestilenza pandemica che diciamo, limitandola agli effetti più pesanti, inquinamento; e ce l’ ho tuttora, tra carte ingiallite e recenti, ne pescavo di qua e là alle edicole sovrappeso di via Veneto, verso mezzanotte. Ricordo un mensile d’ inaudita violenza verbale (me ne resta qualche numero) che usciva a Parigi tra ’72 e ’73, La Gueule Ouverte, adorabile, il cui primo numero nel sottotitolo andava dritto allo sbocco finale: Le journal qui annonce la fin du monde. Erano gente allegra, avendo capito che la guerra era perduta.

Oggi, come Alce Nero dalla collina solitaria, posso vederlo chiaramente, senza vani progetti di frustrazione: quello fu il decennio delle Termopili ecologiche, ed è bello esserci stati e aver perso. Capito no, non ancora. Quando scrisse nel 1995 che la questione ecologica era la prima, la più profonda e importante che l’ umanità contemporanea aveva davanti a sé, Cornelius Castoriadis, uno dei grandi pensatori del secolo, aveva già l’ orologio in ritardo: venti anni prima una svolta (però enorme, di tipo messianico) era ancora possibile. Con questo piatto razionalismo tecnologico verde come bagaglio siamo soltanto ad una stazione dove non passano più treni.

Ci fu la guerra del Kippur, quell’ anno, il 1973, e il conseguente vento di follia del Petrolio absconditus, i disastri ecologici potevano tirare avanti senza farsi notare, in specie in un’ Italia in cui della crescente invivibilità urbana né la tribù né i capi sembravano essersi accorti. Potevo ormai fare un bilancio del mio piccolo lavoro di testimone e su La Stampa pubblicai (non erano ancora state abolite le terze pagine) un elzeviro intitolato dal giornale “Inquinamento dono degli Dei”, in cui tutta la faccenda era messa in un abbozzo di idee filosofiche, visto che ormai, perdute le speranze di cura politica e di metànoia collettiva, la consolazione restante non era che il pensarlo – e quel testo lo ripubblicai, riveduto, tra i miei saggi Adelphi del 1976:
La carta è stanca, con questo nuovo titolo: “Beatitudine dell’ inquinamento”, che l’ Adelphi non incluse nella ristampa parziale del 2000. Certo è datato, ne abbiamo ingoiato di ben più robusto, la pandemìa in alto e in basso non aveva ancora illebbrosito l’ intero pianeta, ma rileggendolo in questa occasione mi sono ritrovato d’ accordo con me stesso nella sostanza: l’ inquinamento è beato, è dono degli Dei, proprio in quanto contiene il seme di morte, la mortalità fatidica, la stessa dell’ uomo individuale quando la via mortis si manifesta, di tutto ciò che vive, nella misura in cui è inscritta nell’ immaginario tempo lineare, il tempo elastico, il solo del quale si possa dire «non c’ è più tempo». L’ accelerato finale di partita fa presentire il bene della cessazione di una sofferenza degli esseri senzienti sempre più disumana, in un mondo che la perdita irrimediabile della bellezza (paesaggi, volti, cuore profondo) rende esclusivamente calcolabile, non più però intelleggibile. E come il morire nostro ci oscura e trafigge la ragione indagatrice, così l’ inquinamento avviluppa la terra, il suolo e l’ acqua come una indiradabile nuvola di smog o di Cernobyl.

E’ nell’ essenza del Tragico del destino umano che negli anni sopraddetti (allargabili: 1970-1975) la decisiva battaglia veteroambientalista – in cui collocherei la mia infima, insignificante pedina – sia stata persa senza vero scontro, un grande fiume che in rivoletti prosciugabili subito si dissolse. Rivolte popolari, dove i regimi le tollerano, si sono avute finalmente verso e dopo Duemila, tra situazioni molto peggiorate e tanti inutili troppo tardi, con qualche successo sporadico e sospensioni strappate (come l’ anti-TAV in Valsusa) «a prezzo di fatica»: le piaghe, in ogni caso, si riaprono o si spostano. E, allora, alle segnalazioni dei testimoni più sensibili, si era associata la forza d’ offensiva mirata del MIT (Massachussets, Club di Roma), l’ unica autorità tecnoscientifica insperatamente schieratasi con gli ecologisti, che aggredì frontalmente la scellerata religione tuttora dominante dello sviluppo e dell’ economia competitiva con l’ esplosiva formula dello Sviluppo Zero. Ma era una quarantina d’ anni fa, e per sopravvissuti e neovenuti tra le allucinazioni temporali lo scenario Terra è quel che vediamo e patiamo.

Avere coscienza dell’ impasse tragico aiuta almeno a capire, e a buttarsi sulla spada di Aiace delle vie d’ uscita mentali, aperte sempre, poiché le soluzioni politiche e tecniche vengono predicate avendo i polsi ormai ben stretti tra gli Artigli del Mostro – un King Peste, un Red Death che il suo lavoro lo fa senza fermarsi ad ascoltare sermoni. Pensare non dissipa il malessere, però hai sollievo. E parallelamente il mio archivio manuale veteroambientalista, negli ultimi decenni, moltiplicandosi smisuratamente la letteratura ecologista, le malattie e le denunce quotidiane, le guerriglie di retroguardia, è cresciuto pochissimo. E’ chiaro che eventi e segni non sono più regolabili da nessuna memoria naturale umana, nessun Moleskine li contiene. La mia documentazione sta tutta in un paio di scatoloni che trovavo da Vertecchi in via della Croce, e oggi chi brama informazione pantagruelica si rivolge all’ onnipotenza della Rete. Va su wu-wu-wu, e tutti i Lavori in Corso del terricidio gli si squadernano inodori e svaniscono dagli occhi.

Nominando la Rete mi viene in mente la meravigliosa favola kafkiana La Tana, e quella sentenza terribile: «Più crediamo di essere in casa nostra, più si è nella loro». Il servitore, rapidissimo, è perfetto; però fa parte (ancora, nel Processo, Kafka) del Tribunale: attento, sei in casa loro, dappertutto.

Guido Ceronetti
Fonte: http://www.repubblica.it
26.02.2007

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