DI GIANLUCA FREDA
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La parola scritta è il carcere in cui avvizzisce e muore lentamente ciò che resta della civiltà occidentale. I giornalisti sono i secondini delle nostre celle; gli “esperti” di scienza e cultura i guardiani che ci sorvegliano col mitra in spalla durante l’ora d’aria; gli intellettuali – i più viscidi e odiosi di tutti – i nostri kapò, prigionieri come noi che in cambio di una sigaretta e del diritto di portarsi qualche puttana in cella si incaricano di tenerci in riga e di denunciare alle guardie ogni conversazione sospetta.
Cito qualche esempio tratto dalle prime pagine di quel gulag del pensiero che è il quotidiano Repubblica. In data odierna, dopo la morte di altri quattro alpini italiani in Afghanistan, ferve il dibattito sul tema: dobbiamo dotare oppure no i nostri aerei di ordigni da bombardamento per combattere i talebani?E’ successo semplicemente che, dopo l’ennesima strage di nostri connazionali sacrificati alla tutela degli interessi USA (paese che ci occupa e ci umilia da 65 anni), i secondini di De Benedetti sono prontamente intervenuti per ripristinare l’ordine e scongiurare sul nascere riunioni e discussioni sediziose. In un paese libero il dibattito avrebbe avuto ad oggetto il tema: perché non ritiriamo immediatamente i nostri soldati dall’Afghanistan, visto che sono lì a farsi ammazzare per la salvaguardia di interessi che non sono nostri, ma dei nostri aguzzini statunitensi? E magari: quale maggior tutela offrirebbero eventuali bombe sugli aerei ai nostri militari, i quali hanno sempre trovato la morte in attacchi a sorpresa, a causa di autobombe ed ordigni esplosivi la cui deflagrazione nessun ufficiale dell’aeronautica avrebbe mai potuto prevedere o scongiurare? Per evitare che la pubblica opinione si soffermasse su questi quesiti, che avrebbero potuto mettere a rischio il sereno svolgimento della vita carceraria, gli sgherri di Repubblica sono prontamente intervenuti a crearne di fittizi, per soffocare ogni scintilla di pensiero e sostituirla con un’alluvione di chiacchiere stampate, senza referente concreto. Se la lingua parlata – il verbo – ha il potere di descrivere e spesso creare il mondo, vincolando il pensiero alle cose, la parola scritta ha il potere di annichilire e sterilizzare questa capacità creatrice, annullando ogni legame tra il significante e la realtà. La parola scritta, quando è gestita dagli aguzzini, ha il potere di cancellare il mondo, di abbattere l’impalcatura logica del nostro rapporto con l’esteriore. Come una scarica taser d’inaudita violenza, essa dissolve le connessioni nervose tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, spezzando in due entità separate l’essenziale unità di mente e materia.
Altro esempio: torna alla ribalta la vicenda di Sakineh. Secondo indiscrezioni (sulla cui attendibilità è comunque opportuno nutrire qualche dubbio) in Iran sarebbero stati arrestati o fermati il figlio della nota pregiudicata, Sajiad Qaderzadeh, e il sedicente avvocato della donna, Javid Houstan Kian. Qui la domanda dovrebbe essere: come mai le autorità iraniane sono state così tolleranti da attendere tanti mesi prima di schiaffare in galera questi due bei tomi? Il primo è un traditore che sta sfruttando la vicenda criminale di sua madre per fomentare una campagna propagandistica internazionale contro il proprio paese; campagna che potrebbe preludere ad un’aggressione militare con centinaia di migliaia di vittime civili. Il secondo è un falso avvocato, amico dello stesso Sajiad, mai incaricato da nessuno di provvedere alla difesa processuale della donna e affiliato ai Mujahidin del Popolo, gruppo terrorista antigovernativo finanziato da USA e Israele. In qualunque paese occidentale dotato d’istinto di autoconservazione, due elementi del genere sarebbero stati da tempo affidati alle patrie galere, con buona pace dei paladini dei diritti umani. La domanda pertinente avrebbe dovuto essere: come mai in Iran le autorità governative e i servizi segreti sono così incredibilmente rispettosi nei confronti di chi si pone al servizio di potenze nemiche, mettendo a rischio la sicurezza nazionale? Invece ogni possibilità di comprensione della realtà sociale iraniana viene azzerata dall’intervento dei giannizzeri della stampa, che seppelliscono ogni ponderata riflessione sotto un bombardamento di fregnacce. Si parla ancora di lapidazione, di pene per adulterio, tutte cose che non esistono in Iran, ma solo nell’universo autistico dei pennivendoli repubblicani; un universo di parole scritte che si sostituisce a quello reale come i baccelloni de “L’invasione degli ultracorpi” si sostituivano agli umani, affogando la vita vera in un’inondazione di nonsense tipografico.
Ancora: leggo a mezza pagina del sito web di Repubblica un titolo che mi fa ben sperare. “Il fango spacciato per giornalismo”. Finalmente, mi dico. Si saranno decisi a vergognarsi e a fare pubblica ammenda per gli schifosi attacchi del loro giornale al lavoro di ricerca svolto da studiosi come Claudio Moffa! Vana speranza. Repubblica, giornale realmente negazionista (in quanto nega totalmente la realtà che abbiamo sotto gli occhi per sostituirla con fanfaluche stampate), sta in realtà prendendosela con i dossier predisposti dai concorrenti contro Fini e la Marcegaglia; i quali dossier, per quanto squallidamente denigratorio sia l’intento che li anima, hanno almeno il merito e il coraggio di attaccare personaggi influenti sulla base di riscontri concreti, non un inerme docente universitario sulla base del nulla.
Se su queste “notizie” fornite da Repubblica fosse possibile un dibattito pubblico, una verifica collettiva, uno scambio di punti di vista condotto tra esseri umani che vivono a contatto con i fenomeni che descrivono, si riuscirebbe facilmente a comprendere la distanza che separa le versioni stampate dell’Afghanistan, dell’Iran, della storia delle deportazioni naziste, dalla loro concreta essenza. La parola orale è deittica, è strettamente intrecciata con la realtà a cui si riferisce, non può mai separarsene completamente, l’uno dei due termini implica o presuppone o genera l’altro. Ma con la parola scritta, il mondo reale e quello della sua descrizione tendono a divenire due enti senza più alcun punto di contatto. La scrittura, nata per rendere eterno l’uomo, ha finito per rimpiazzarlo. Nel bellissimo romanzo di Sebastiano Vassalli Un infinito numero, il liberto Timodemo si reca a visitare il tempio ormai in rovina del dio etrusco Vertunno. Sulle pareti, ricolme di scritte e disegni osceni, legge frasi come “Tizia, fututa (fottuta); Caia, fututa; Sempronia, fututa…”. “Benvenuto nell’epoca della scrittura!”, gli dice il sacerdote Aisna. “L’uomo che ha scritto quei nomi sul muro, e che è morto già da una ventina d’anni, non fotteva per fottere: fotteva per scrivere…”.
Questa tremenda attitudine a negare l’esistenza di una sostanza della realtà che possa non consistere semplicemente in un accessorio della parola scritta, pur avendo in Repubblica uno dei suoi più vistosi rappresentanti contemporanei, non è certo nata con Repubblica. Essa è antica quanto la storia dell’occidente. Nasce probabilmente con l’invenzione della scrittura, esplode con lo sviluppo delle attività mercantili al tramonto del medioevo e trova uno dei suoi più illustri rappresentanti in quel Cristoforo Colombo del quale si commemora oggi la scoperta che cambiò la storia del mondo. Potremmo anzi dire che essa rappresentò l’ultimo rantolo della storia del mondo, prima che gli uomini iniziassero a chiamare “storia” la recezione passiva di enunciati eteronomi, anziché la produzione diretta di narrazioni del passato mediate dal sentire collettivo. Si trattò per l’occidente di una svolta epocale: tutta la narrazione su cui si fonda la vita dei popoli europei, da questo momento in poi, non sarà più prodotta e gestita nel nostro continente dagli stessi protagonisti della vita sociale, ma recepita dall’esterno, attraverso i testi, le relazioni e le cronache di autori che descrivevano alle attonite popolazioni d’Europa vicende di terre lontane e sconosciute. L’avventura di Colombo è l’emblema del trionfo del segno, slegato dal suo referente, su una realtà fenomenica che va progressivamente eclissandosi per lasciare campo libero alla sua rappresentazione astratta. Fu proprio questa eclisse del contatto tra idea e mondo a consentire ai colonizzatori europei di perpetrare il più spaventoso genocidio di ogni tempo, quello dei nativi americani, senza cessare di rappresentarsi a se stessi e ai contemporanei come portatori di civiltà, di giustizia, di evangelizzazione cristiana. Gli altri, le culture indigene, non esistono se non in funzione della raffigurazione astratta che si dà di esse, sulla base di assiomi e dogmi che pretendono di far coincidere la percezione europea dell’esistente con la complessità socio-culturale del nuovo mondo.
Colombo incarna meglio di qualunque altro personaggio storico questa crisi in cui la realtà si lascia definitivamente soppiantare dal nome. Colombo è letteralmente ossessionato dai nomi. Dal suo, innanzitutto, che cambiò più volte nel corso della sua vita. Un nome per cui provava una tale venerazione da non apporlo neppure come firma sulle pagine dei suoi diari di bordo, sostituendolo con un’elaboratissimo crittogramma (che impose poi anche ai suoi eredi), così complicato che ancora oggi il suo significato resta un enigma per gli studiosi .
Scrive di lui Bartolomé de Las Casas, che fu suo grande ammiratore: “Ma quell’uomo illustre, rinunciando al nome consacrato dall’uso, volle chiamarsi Colón, ripristinando il vocabolo antico, non tanto per questa ragione, ma in quanto mosso, dobbiamo credere, dalla volontà divina che lo aveva prescelto per realizzare ciò che il suo nome e cognome significavano. […] Per questo egli era chiamato Cristóbal, cioè Christum ferens, che vuol dire portatore di Cristo, e così firmò molto spesso; perché, in verità, egli fu il primo a schiudere le porte del mare Oceano per farvi passare il nostro Salvatore Gesù Cristo, fino a quelle terre lontane e a quei regni fino ad allora sconosciuti. […] Il suo nome fu Colón, che significa ripopolatore; un nome che ben si conviene a chi, con i suoi sforzi, ha permesso che fossero scoperti quei popoli, quelle innumerevoli anime che, grazie alla predicazione del Vangelo, […] sono andate e andranno ogni giorno a ripopolare la città gloriosa del Cielo”. (Historia, I, 2).
Colombo è insomma convinto che il suo destino di evangelizzatore di popoli selvaggi (Cristóbal) e di colonizzatore (Colón) siano il portato di una verità inscritta nel suo nome, prima ancora che nelle sue azioni. Dinanzi all’ermeneutica, la realtà deve farsi da parte. Il nome si appropria di una valenza che gli consente non più di creare, ma di essere, autonomamente e irrefutabilmente, l’unica realtà possibile.
Colombo assegna d’autorità un nome alle isole che tocca nel corso del suo viaggio. Sa benissimo che quelle isole hanno già un nome nel linguaggio delle popolazioni native, ma i nomi degli altri non gli interessano. Non è soltanto una questione di “presa di possesso”. La realtà deve essere ricostruita a immagine e somiglianza della concezione cristiana del mondo, senza che l’ermeneutica altrui possa minimamente interferire con l’universo virtuale che si va edificando. “Alla prima [isola] da me incontrata”, scrive Colombo nella Lettera a Santángel del marzo 1493, “ho dato il nome di San Salvador, in onore dell’Alta Maestà che mi ha meravigliosamente concesso tutto questo; gli indiani chiamano quest’isola Guanahani. La seconda l’ho chiamata Santa María de la Concepción, la terza Fernandina, la quarta Isabela e la quinta Juana; in questo modo ho dato a ciascuna di esse un nuovo nome”. Nell’ordine, i luoghi progressivamente visitati vengono rinominati in onore di Cristo, della Vergine e dei loro paladini sulla terra, i sovrani di Spagna.
I diari di Colombo contengono frequenti riferimenti agli ambienti e ai paesaggi che egli va via via visitando. Solo che non si tratta di descrizioni. Colombo aveva letto l’Imago mundi di Pierre d’Ailly ed era perciò convinto – secondo la credenza medievale, ben esemplificata dalla struttura della Commedia dantesca – che il Paradiso Terrestre dovesse trovarsi in una zona temperata oltre l’equatore, in cima alla montagna del Purgatorio. Egli pertanto non prova nemmeno a descrivere i luoghi che concretamente vede dinanzi a sé, ma li reinventa completamente, costruendo un universo di parole che ha lo scopo di far prevalere la sua concezione mistica del mondo su ciò che va concretamente osservando. Tornando dalle Azzorre, annota sul suo diario di bordo, in data 21 febbraio 1493: “Il paradiso terrestre si trova all’estremità dell’Oriente, che è una regione davvero molto temperata”. E nella Lettera ai sovrani del 31 agosto 1498, non trovando ancora traccia della montagna del Purgatorio che aveva così attivamente ricercato, scrive: “Trovai che il mondo non era rotondo così come viene descritto, ma aveva la forma di una pera, tutta rotondeggiante, salvo là dove si trova il picciòlo, che è il punto più elevato; oppure aveva la forma di una palla rotonda, su un punto della quale fosse posata una mammella femminile; la parte dove si trovava la mammella era la più elevata e la più vicina al cielo, ed era situata sotto la linea equinoziale in questo mare Oceano, all’estremità dell’Oriente […]. Non ritengo che il paradiso terrestre abbia la forma di una montagna scoscesa, come ce lo descrivono gli scritti ad esso dedicati, ma che si trovi invece su quella sommità, nel punto da me indicato che corrisponde al picciòlo di una pera, cui si giunge salendo per un lungo pendìo”. La sua narrazione non tiene conto della realtà, ma edifica una realtà alternativa in grado di coincidere con la mitologia cristiana. I luoghi che Colombo attraversa sono sempre “bellissimi”, “dolci”, ricchi di uccellini cinguettanti, di alberi frondosi e di valli amene, nonché di oro e di altri minerali preziosi (di cui Colombo, fino a quel momento, non aveva trovato traccia), come si addice ad ambienti situati in prossimità del Paradiso Terrestre. Il 16 ottobre 1492 annota nel Giornale: “Qui e in tutta l’isola tutto è verde, e la vegetazione è come in Andalusia in aprile. Il canto degli uccellini è così dolce che davvero non si vorrebbe mai lasciare questo posto; stormi di pappagalli oscurano il cielo, e ci sono uccelli grandi e piccoli, di specie varie, e così diversi dai nostri che è davvero una meraviglia”. E il 19 ottobre: “Quando arrivai a questo capo, giunse dalla terra un profumo di fiori o d’alberi così delizioso e dolce che davvero era la cosa più piacevole del mondo”. L’attenzione che Colombo rivolge alla natura è immensa, tanto quanto è superficiale il suo interesse verso le lingue, gli usi e i costumi delle popolazioni indigene che incontra nelle sue esplorazioni. Ciò in conformità ad una tradizione iconografica del Paradiso Terrestre in cui erano soprattutto le bellezze naturali ad essere poste in risalto.
Delle popolazioni che vivono in quei luoghi, Colombo sa dire soltanto che anch’esse sono “dolci” e “generose”, come si addice agli abitanti del paradiso. Non cesseranno del tutto di esserlo neppure quando i religiosi che accompagnavano Colombo nel suo secondo viaggio faranno bruciare su un pubblico rogo alcuni indigeni che avevano osato rovesciare a terra alcune immagini sacre e urinarci sopra. Neppure quando Colombo inizierà a progettare di costringere gli “indiani” a cedere con la forza le ricchezze che non avevano intenzione di consegnare spontaneamente.
Colombo sottolinea spesso la circostanza della nudità degli indigeni, poiché essa è una prova ulteriore della prossimità del Paradiso Terrestre, in cui le anime, secondo la tradizione, abitano in condizioni di perfetta nudità spirituale. “Questa gente è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi né legge” (4 novembre 1492). “Sono il miglior popolo del mondo e soprattutto il più dolce”, scrive Colombo il 16 dicembre 1492; e “Amano il loro prossimo come se stessi” (25 dicembre 1492). Siamo alla genesi del “bipensiero” cui Orwell dedicherà le sue riflessioni quasi 500 anni più tardi. Vi è già nel pensiero dell’occidente una realtà solida e inattaccabile, quella costruita sulla carta attraverso i segni della scrittura; la realtà empirica è secondaria o irrilevante. In questa realtà “accessoria” si può distruggere, uccidere, depredare, condannare decine di uomini al rogo o a pene crudeli, senza che questo possa scalfire la moralità dei predatori o la gentilezza delle vittime. Colombo farà condannare molti indigeni sorpresi a rubare al taglio del naso e delle orecchie, senza per questo smettere di citare la loro “perfetta generosità” e il loro “altruismo” nelle sue lettere ai sovrani. La scrittura diventa con Colombo una realtà abitabile, un rifugio in cui è possibile cancellare, annullare e disconoscere le atrocità perpetrate sul piano materiale, continuando a sentirsi puri mentre si calpesta il sangue delle vittime.
Colombo non accetta che i suoni pronunciati dagli indigeni con cui ha l’occasione di parlare possano essere una lingua. Sa benissimo che le loro espressioni sono significanti che fanno riferimento a significati di qualche tipo e anzi chiede spesso ai suoi uomini di interpretare le parole degli indigeni per avere informazioni più dettagliate sulla geografia dei luoghi. Ma che un insieme di suoni possa essere strutturato secondo regole complesse senza per questo dare origine ad un sistema di scrittura, è per lui inconcepibile. Una lingua, per essere tale, deve poter essere scritta o avere delle regole scritte. Il 12 ottobre 1492, in una lettera scritta ai sovrani spagnoli dopo il primo contatto con gli indigeni, Colombo afferma di voler inviare in Spagna sei di questi uomini “affinché possano imparare a parlare”. Si tratta di un’affermazione così assurda che molti storici la interpretano nel senso: “affinché possano imparare la nostra lingua”. Ma Colombo aveva scritto proprio ciò che intendeva dire. I suoni emessi dagli indigeni non gli appaiono come “parole” più di quanto possa essere “parola” l’abbaiare di un cane. Un sistema di segni e di riferimenti non irregimentato in una normativa morfologica di qualche tipo, possibilmente scritta, non è per lui assimilabile a una lingua, per quanto precisi possano essere i suoi rapporti con la realtà circostante.
Colombo non accetta neppure che i nomi utilizzati dagli indigeni per riferirsi alle loro autorità possano avere referenti diversi da quelli esistenti nella sua lingua. Quando viene a sapere che i nativi utilizzano la parola “cacicco” per definire il loro capo, egli non si chiede neanche per un momento quali siano le prerogative specifiche di potere che caratterizzano questa figura. La sua unica preoccupazione è di capire se questo nome corrisponda ad un re o a un governatore. L’idea che le istituzioni siano strutture convenzionali pertinenti alle singole culture non gli sfiora neanche lontanamente il pensiero. Non può esistere altra realtà istituzionale al di fuori delle cariche designate per iscritto nei mille e mille documenti spagnoli che egli ha avuto modo di visionare nel corso della sua vita. Così, uno dei suoi secondi scrive sul giornale di bordo questa annotazione che è quasi comica nella desolazione intellettuale di cui offre involontaria testimonianza: “Sino ad allora l’Ammiraglio non era stato capace di capire se con questa parola [“cacicco”] intendessero re o governatore. Essi usano anche un’altra parola per dire ‘grande’, cioè nitayno; ma non capì se in tal modo chiamassero un hidalgo o un governatore o un giudice”. Hidalgo, governatore, re e giudice sono parole che, in quanto tali, esauriscono di per sé stesse tutte le realtà possibili. Per Colombo, non è neppure concepibile un’autorità di governo che non rientri in questa tassonomia.
Senza una buona dose di disprezzo per il nodo che vincola la realtà del mondo alla sua rappresentazione nominale, probabilmente il viaggio di Colombo non sarebbe neppure stato compiuto. Alla fine del 15° secolo, si sapeva benissimo che la Terra era sferica e si supponeva già da tempo che esistesse pertanto una rotta che permettesse di arrivare in Asia dirigendosi verso ovest, anziché verso est. Si reputava però – non a torto, vista l’ancora carente tecnologia navale dell’epoca – che la distanza da coprire fosse troppo ampia perché l’impresa risultasse redditizia, per non dire realizzabile. Colombo non era d’accordo. Per progettare il suo viaggio, si basò sugli studi dell’astronomo arabo al-Farghani, il quale era riuscito a misurare la circonferenza terrestre con una certa precisione. Valutando le distanze così ricostruite, decise che il tragitto da percorrere non era così ampio da mettere a rischio il successo dell’operazione. Il problema è che al-Farghani aveva misurato la circonferenza terrestre in miglia arabe, che erano superiori di un terzo a quelle italiane. Colombo tradusse disinvoltamente le cifre fornite dallo studioso arabo in miglia nautiche italiane, senza minimamente pensare al fatto che le unità di misura hanno carattere convenzionale e sono il prodotto di una rappresentazione numerica della realtà che varia da cultura a cultura. Per lui non c’è differenza tra il mondo e la sua rappresentazione grafica o numerica. L’idea espressa dalla scrittura è realtà empirica ed è inconcepibile che la realtà empirica possa avere valore soggettivo. Sono le cose materiali che, opponendo a volte un’irragionevole recalcitranza ad essere ricondotte alla loro proiezione ideologica, devono essere costrette con la forza ad uniformarsi a quanto previsto nei testi delle “auctoritates”.
Così, quando gli indigeni delle isole caraibiche gli indicheranno con il nome “caribe” le tribù antropofaghe che vivevano nell’interno, Colombo non vorrà saperne di accettare una realtà così cruda. E’ inconcepibile che nei pressi del Paradiso Terrestre possano svolgersi pratiche così abominevoli; ed è inconcepibile che nell’impero del Gran Khan (nelle cui prossimità Colombo era convinto di essere giunto) tali pratiche possano essere consentite. Egli ribattezzerà dunque quelle popolazioni con il nome “canibe”, intendendo “sudditi del Gran Can”; da cui è ironicamente derivato il nostro termine “cannibali”, segno che anche la realtà virtuale della scrittura, in alcune circostanze, è costretta a soccombere all’evidenza.
Il momento in cui l’evidenza inizia ad aprirsi il varco nella teoria delineata dalla scrittura è la fase più drammatica. Per il pensiero occidentale, di cui Colombo rappresenta l’alfa e al tempo stesso l’omega, la realtà dei fatti non è un flusso d’informazioni a cui uniformare, per adattamenti successivi, la propria teoria. Essa è invece il nemico, perennemente in agguato per fare scempio della teoria, il che rappresenta un sacrilegio, derivando la teoria direttamente dalla parola divina. Non si creda che l’Illuminismo o il “metodo scientifico” abbiano minimamente scalfito questa impostazione. Essi l’hanno invece rafforzata e messa al sicuro, dissimulandola sotto un travestimento non facile da riconoscere.
Quando Colombo inizia a capire che i nativi rifiutano di uniformarsi all’immagine utilitaristica con cui il colono-evangelizzatore li ha ridefiniti nei suoi diari, per loro iniziano i guai. Dalle descrizioni paradisiache, il pensiero occidentale scivola rapidamente verso il manicheismo. Per contrastare il pericolo rappresentato dall’irrompere della molteplicità infinita di prospettive sul mondo nella monoliticità del dogma, la dottrina dell’occidente ricorre alla sua strategia consueta: cedere terreno solo parzialmente, scindendosi in una duplicità tattica, anziché rassegnarsi all’inevitabile e frammentarsi in innumerevoli punti di vista possibili. Al termine del suo primo viaggio, Colombo lascia tranquillamente sull’isola di Española alcuni dei suoi uomini, in compagnia di quei selvaggi così miti ed altruisti. Ma al suo ritorno l’anno successivo, è costretto ad arrendersi all’evidenza che i selvaggi miti ed altruisti hanno nel frattempo accoppato gran parte della sua ciurma. Da questo momento in poi, l’atteggiamento di Colombo verso i nativi diventa manicheo. Dai suoi scritti successivi desumiamo che esistono due tipi di selvaggi: quelli “buoni”, cioè quelli “già naturalmente predisposti a ricevere l’evangelizzazione cristiana”; e quelli “cattivi”, che vanno resi schiavi o sterminati senza pietà. La colpa di non corrispondere all’immagine virtuosa e astratta che l’Ammiraglio aveva delineato di loro nei suoi resoconti scritti è così terribile che l’unica pena comminabile è la soppressione – non più soltanto ideale, ma fisica – di tutte le caratteristiche che quell’immagine contraddicono. “I trasportatori”, scrive Colombo nella Memoria per Antonio de Torres del 30 gennaio 1494, “potrebbero essere pagati in schiavi cannibali, feroci ma robusti, ben fatti e di buona intelligenza, i quali, strappati alla loro condizione disumana, possono essere – io credo – i migliori schiavi del mondo”. E nelle Istruzioni a Mosen Pedro Margarite del 9 aprile dello stesso anno: “Non c’è peggior gente dei vigliacchi, che non rischiano mai la vita faccia a faccia; saprete che, se gli indiani trovano uno o due uomini isolati, è molto probabile che li uccidano”.
Fernando, figlio di Colombo, riporta un significativo episodio avvenuto nel 1503, durante il quarto viaggio verso le americhe: “Costruii in quel luogo un villaggio e feci molti doni al quibian – così essi chiamano il signore di questa terra – , ma sapevo bene che la concordia non poteva durare a lungo. In effetti, è gente molto zotica, e i miei uomini sono molto importuni; alla fine, presi possesso delle terre appartenenti a quel quibian. Quando vide le case che avevamo costruito e l’intensità dei nostri traffici, decise di bruciare tutto e ucciderci tutti”. Gli spagnoli, per tutta risposta, rapirono i figli e i familiari del quibian e li imprigionarono sulle navi, pensando di utilizzarli come ostaggi. Durante la notte, alcuni dei prigionieri riuscirono a fuggire; quelli che non avevano potuto seguirli, si diedero la morte, impiccandosi con le funi trovate nella stiva delle navi. In parole povere: la generosità dei selvaggi viene dapprima affermata per iscritto, come realtà apodittica e incontestabile. Tutti coloro che con il proprio comportamento contraddicono questo paradigma, sono da considerarsi “zotici” e fuorilegge, meritevoli pertanto di essere ricondotti con la forza allo stereotipo che hanno osato disattendere.
Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net
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12.10.2010