DI CHELLIS GLENDINNING
La cocaina rappresenta una piaga qui nel Nuovo Messico. In entrambe le parti di me vive un drogato. A sud, è il Chicano rabbioso le cui inclinazioni vanno dallo sparare colpi d’arma da fuoco all’appiccare incendi che richiedono tre squadre di pompieri per essere spenti; a nord, è il trovatello di una bionda la quale aveva forse atteso con gioia il momento del diploma, ma che, alla presenza della tentazione bianca, è caduta nel caos, perdendo il lavoro e la salute.
Così quando Tom Hayden mi suggerì di fare un viaggio in Bolivia per el transmito del mando dei cocaleros, Evo Morales, ora alla presidenza del Paese – uno dei paesi con maggiore coltivazione della pianta usata per la produzione del narcotico cocaína – buttai nella mia maletita qualche maglietta Levi’s e attesi la data della partenza.
Agli occhi dell’americano medio, il programma politico di Morales deve essere apparso insensato, persino contraddittorio, dal momento che, se tra le sue finalità aveva quella di porre un freno alle vendite di foglie di coca ai narcotrafficanti, cosa tra l’altro condivisibile da chiunque abbia visto lo spot pubblicitario “This Is Your Brain on Drugs”, prevedeva anche l’opposizione ai tentativi degli Stati Uniti di sradicare le coltivazioni di foglie di coca, e la legittimazione della pianta nel suo valore di antica erba sacra.
L’idea di Tom era in linea con il pensiero di Morales. Voleva che raccogliessimo informazioni e che prendessimo contatti in Bolivia in modo tale che, al ritorno, potessimo lanciare una campagna per la legalizzazione della vendita della coca all’interno degli Stati Uniti. Mi compañero de viaje era elettrizzato all’idea che questa pianta potesse essere impiegata in ambito medico per curare diabetici e cardiopatici.
Proprio lui, scampato a un infarto, aveva avuto modo di sperimentare in prima persona i sorprendenti effetti della cocaina, quando a una precedente visita medica, dopo averne masticate alcune foglie, il suo arrancare affannoso per le strade di La Paz era stato miracolosamente rimpiazzato da un incedere deciso e vigoroso. La sua strategia era riuscire a vincere l’ostracismo della FDA e rendere possibile la prescrizione legale della coca come un qualunque altro farmaco in distribuzione.
Iniziai a valutare le eventuali conseguenze economiche. I narcotraficantes si impongono con prepotenza in Colombia, Perù, Ecuador e Bolivia, dove, grazie al potere militare e all’influenza sulla politica, controllano la principale materia prima delle Ande, la coca, che viene raffinata in laboratorio per essere immessa nella distribuzione internazionale sotto forma di cocaina. In alcuni casi, i cartelli rapiscono i contadini, li sequestrano di notte e li rinchiudono in baracche di legno costringendoli a gridare slogan in stile Wal-Mart e a lavorare i campi con doppio turno. In altri, i coltivatori locali trovano semplicemente più redditizio vendere coca ai trafficanti di droga piuttosto che commerciare ananas al mercato del villaggio. In altri casi, i frutti del raccolto vengono tassati o dagli stessi narcotraficantes o da gruppi politici alla ricerca di fondi da destinare alle campagne militari.
Un pensiero che mi passò per la testa – e in modo non poi così chiaro né definito, perché non teneva conto del fatto che, diciamo la verità, i narcos non sono tipi tali da reggere la competizione – era che fornire ai coltivatori una terra di legittima proprietà da gestire collettivamente, da una parte avrebbe potuto garantire loro un reddito continuativo, e dall’altra avrebbe destabilizzato il commercio illegale di droga, un’impresa rimasta finora elusa nonostante qualsiasi intervento portato avanti a livello locale, governativo o internazionale.
La sacra pianta
La coca è la pianta sacra della Bolivia, con 82 specie differenti che crescono nella zona tropicale del Chapare, nelle foreste di Santa Cruz e nell’altiplano della Yungas de La Paz.
Perché è considerata una pianta “sacra”? La gente la considera al di sopra di qualsiasi altra cosa, credendo che la sua esistenza, alla stregua di uno spirito, influenzi ogni aspetto della vita. Quando una coppia si sposa, semina un campo di coca; in questo modo, mentre i figli crescono, il raccolto matura fornendo sostentamento per tutti; quando i figli se ne vanno da casa, il campo ha ormai superato la stagione di maggior produttività e fornisce quanto basta per vivere solo alla coppia. La coca è un dono che favorisce la coesione sociale, è il rimedio per le malattie dell’uomo. È usata come espressione di ringraziamento, come mezzo per predire il futuro, per celebrare l’avvicendarsi delle stagioni, per rafforzare la comunità e per sentirsi in armonia con le divinità in un continuum spazio-tempo primordiale.
Inoltre, possiede sorprendenti qualità mediche e nutrizionali. È ricca di proteine, fibre, vitamine e minerali; si dice che favorisca il riposo, rinvigorisca e dia forza. Secondo centinaia di studi medici e biologici è indicata per coadiuvare la digestione, per contrastare l’artrite, regolare la quantità di zuccheri nel sangue, impedire la proliferazione di funghi e batteri, curare l’ulcera, potenziare il sistema immunitario, aumentare l’ossigenazione, agire come sedativo e – fatto di particolare interesse per Tom – facilitare la circolazione e rinvigorire la muscolatura cardiaca.
Cocaina. Neve. Fiocco. Soffio. Tornado
La cocaina è tutta un’altra cosa. Estratta come singolo alcaloide da un insieme di sostanze presenti nella pianta della coca, e quindi lavorata con una quarantina di sostanze chimiche, fra cui l’etere, l’acetone e il metilchetone, è una droga mortale. Sniffata, iniettata o fumata, la polvere bianca porta il sistema nervoso a livelli di eccitazione estrema, così come provoca l’interruzione degli impulsi nervosi, con la conseguente inibizione della percezione del dolore e mancanza di lucidità.
Genera, inoltre, una forte assuefazione. Quando ai topi da laboratorio viene messa a disposizione una quantità illimitata di eroina, essi la assumono costantemente, ma continuano comunque a cibarsi e a dormire; se invece viene loro offerta una quantità illimitata di cocaina, essi non fanno niente altro che assumerla. Tra le complicazioni si registrano attacchi di cuore, insufficienza respiratoria, colpi apoplettici, convulsioni e psicosi paranoidi. Secondo il National Survey on Drug Use and Health del 2004 [Rapporto nazionale sull’uso delle droghe e la salute], più di 48 milioni di americani, ovvero uno su sei, ha fatto uso di cocaina. Si tratta di un sacco di persone, per un volume di affari superiore a quelli di McDonald’s, Microsoft e Kellog’s messi insieme: 92 miliardi di dollari all’anno.
Non sorprende che le persone che gestiscono un tale business non siano degli sprovveduti, ma quel genere di individui che possiedono giardini zoologici privati, che possono permettersi guardie del corpo, killer personali, sistemi privati di telecomunicazione e armi tecnologiche. Per poterli contrastare, la nazione al primo posto al mondo per consumo di cocaina – gli Stati Uniti – ha dovuto dotarsi a sua volta di armi tecnologiche come jet da combattimento, elicotteri Black Hawk, missili terra-terra e lanciarazzi.
Dal 2000 la “guerra contro la droga” ha investito 7,5 miliardi di dollari nelle Ande, con l’apparente intento di sradicare dalla regione i cartelli della produzione di coca e di oppio. In realtà, ciò che è prevalso è stato l’uso indiscriminato di sostanze chimiche tossiche contro innocenti coltivatori di coca, le loro famiglie e i campi che garantiscono loro il sostentamento, mentre la maggioranza dei fondi è stata impiegata per finanziare azioni militari finalizzate ad assicurare lo sfruttamento spregiudicato di risorse come petrolio, gas naturale, acqua, oro eccetera, a vantaggio delle multinazionali.
Parlare di rivoluzione
La gente in Bolivia parla di politica. Beh, a dire la verità, parla di rivoluzione. In questo paese sia la colonizzazione classica, sia quella attuale ha assunto forme brutali: genocidio, schiavitù, razzie, giunte militari, tanto che in tutte le famiglie vi è stato un membro arrestato, torturato e/o desaparecido. In 178 anni di repubblica sono stati 192 i cambi di governo, e 100 di questi sono avvenuti attraverso rivoluzioni.
Capirete che cosa significa questo: dobbiamo andare avanti.
Il cameriere del mio albergo di La Paz, un sostenitore del Movimento al Socialismo (MAS) di Morales, si illumina al pensiero che io abbia fatto tanta strada per l’inaugurazione e, mentre serve mango e trucha a lo macho, il reciproco entusiasmo per la conversazione ci porta a parlare della liberacíon del suo paese.
Un tassista ventenne mi racconta che Evo è come una fetta di pane fresco appena sfornato: scopriremo il gusto che ha. In un villaggio, a ovest di Cochabamba, un dottore mi illustra la situazione della nuova America Latina. Il presidente del Venezuela è il socialista Hugo Chavez. Il Cile ha appena eletto Michelle Bachelet, vittima di torture in passato e ragazza madre. Néstor Kirchner, esponente del centro-sinistra, è a capo dell’Argentina, mentre Luiz “Lula” da Silva è presidente del Brasile. L’esordio politico di Tabaré Vazquez al governo dell’Uruguay è l’apertura di relazioni diplomatiche con Cuba.
Il giorno dell’inaugurazione
22 gennaio. Plaza de los Héroes.
Migliaia di persone affollano il cuore di La Paz, la piazza in cui i grandi raduni svoltisi nel corso della storia si sono sempre risolti in battaglie campali contro le forze militari. Ma questa volta è diverso. Al Congresso, a diversi isolati di distanza, ha luogo l’inaugurazione ufficiale di Stato. Sono presenti i presidenti di Venezuela, Cile, Colombia, Argentina, Panama, Perù, Brasile e Paraguay, e fuori una massa incalcolabile di persone attende l’arrivo dei nuovi leader.
Le donne Aymara sorridono sotto le tese dei loro cappelli di tessuto dalla forma bombata, mentre i bambini di strada coinvolti nel progetto culturale El Teatro Trono, in equilibrio su trampoli costruiti con legno di scarto, compiono girotondi al ritmo di tamburi costruiti a mano. Ci sono le donne Quecha sotto le loro piatte monterai di paglia. Miss Bolivia Universo. Grandi marionette a forma di aquila. Gruppi di danzatori con copricapi di piume. Il glorioso trícolor boliviano, gli impressionanti striscioni blu del MAS e le emblematiche bandiere multicolori wiphala aleggiano come una schiuma su un mare di folla.
La gente si dispone non come una fiumana di persone rivolta verso un palco (come avviene negli Stati Uniti), bensì in cerchi che rispecchiano i clan dei villaggi. Io rimango intrappolato in uno di questi, mentre un neonato, avvolto in uno scialle, afferra stretto un mio dito. Una donna Aymara guarda ammirata con un largo sorriso dai denti dorati il decoro artistico del poncho che indosso. Al suono enfatico della zampoña, un cholito dal copricapo rosso danza con una ragazza afro-americana dall’acconciatura Rasta; un giovanotto biondo e dinoccolato fa girare vorticosamente un’indigena che ride divertita. Una serpentina di minatori con il casco in testa si fa avanti tra la folla, mentre a ogni pié sospinto si eleva come un boato il canto all’unisono che acclama “EVO! EVO! EVO!”
Sono le cinque. Molti attendono qui da sei ore che compaia Morales. D’un tratto il famoso scrittore uruguayano Eduardo Galeano sale sul palco e, con la sua voce profonda e soave, annuncia l’inizio della presidenza di Evo che segna la fine della dictadura del miedo (la dittatura della paura).
Subito dopo compare l’affascinante vicepresidente Álvaro García Linera. E infine ecco Evo al microfono. La folla lo acclama. L’ex coltivatore di coca, oggi insignito della medaglia nazionale del liberator Simón Bolívar, promette solennemente di obbedire al popolo e per la prima volta di lottare strenuamente per l’affermazione della giustizia. Dal cielo uno degli abituali temporali di stagione si abbatte su migliaia di persone ora “fradice” di speranza.
Le lacrime di Evo
Una cosa che va ricordata di Morales è che in entrambe le circostanze in cui ha ricevuto il mandato, ovvero in occasione della trasmissione spirituale alla città sacra di Tiwanaku, evento che richiede una preparazione con rituali di purificazione, e durante l’inaugurazione ufficiale nella sede del Congresso, è scoppiato a piangere.
Evo Morales Aima nacque 46 anni fa in una povera famiglia Aymara del dipartimento di Oruro. Durante la siccità del 1983, la sua famiglia fu costretta a emigrare nella zona tropicale del Chapare dove era possibile sopravvivere dedicandosi alla coltivazione della coca. Prima di farsi strada tra le fila delle unioni locali, percorso che lo avrebbe alla fine portato a emergere come presidente del Comité de Coordinación de las Seis Federaciones, aveva fatto il panettiere e il muratore, aveva lavorato nei campi, aveva suonato la tromba e militato nell’esercito. A metà degli anni ’90 assunse il comando del MAS; e, nel tempo, si era schierato duramente contro il progetto statunitense Free Trade Area of the Americas, definendolo “un accordo per legalizzare la colonizzazione delle Americhe”; venne imprigionato per aver preso le parti dei cocaleros, per aver dichiarato “Cocaína no, coca sí”, nella ferma convinzione che il problema della cocaina non si risolvesse intervenendo sui contadini, bensì sul consumo.
Morales è noto per due caratteristiche: 1) la sua capigliatura “alla Beatles”, a caschetto (è un vero indígeno); 2) il vecchio e logoro maglione blu e rosso di alpaca che non si toglie nemmeno durante i suoi viaggi per incontrare i leader di Cina, Spagna e Francia (non è il tipo che scende a compromessi).
Dal momento che Morales è sentimentalmente indipendente – e tra l’altro, adesso che ha ottenuto il voto del suo popolo, si considera sposato con la Bolivia – la primera dama è sua sorella, la cinquantaquattrenne Esther Morales Aima, commerciante di verdure.
La politica di Morales viene presentata come una sintesi tra socialista e indígena. Il programma del MAS ha dieci punti, tra i quali la nazionalizzazione delle risorse (affinché i profitti vadano al Paese, non alle multinazionali), la decentralizzazione delle responsabilità decisionali, che tornano così in mano ai pueblos indígenos, ai comuni e alle regioni, lo sradicamento della corruzione di governo, la creazione di un sistema sanitario nazionale e, per tornare all’argomento di nostro interesse, la decriminalizzazione della tradizionale coltivazione della coca per colpire invece i narcotraficantes e restituire la terra ai campesinos che la lavorano.
A Tiwanaku, ricordando Che Guevara, che fu assassinato in Bolivia nel 1967 per mano dei militari e della CIA, Morales dichiara: “La lucha que dejó Che Guevara, vamos a cumplir nosotros” (Porteremo noi a termine la battaglia iniziata da Che Guevara).
Nel giardino degli attivisti
Al mio arrivo nel villaggio di Totorcahua il mio unico desiderio è una notte di sano riposo. La trovo in tre acri di paradiso, dove mi dà ospitalità il dottor José Carlos Ramirez Voltaire, di origini tedesco-boliviane, veterano del Physicians for Social Responsibility International; con me nei giardini di lime, limoni, piantaggine, consolida, carote e nasturzi ci sono anche l’attivista boliviana Malena Vida, il guaritore spagnolo Ignacio Ballesteros e il giardiniere Quecha Iridio Torres.
Il fatto che siano attivisti che operano per la legalizzazione internazionale della coca – o, perlomeno, per la sua rimozione dalla lista delle sostanze sotto il controllo delle Nazioni Unite – è una pura coincidenza, ma è proprio in questo modo che vengo a sapere – coinvolto in una discussione praticamente nonstop – qual è il significato della coca e quali sono i mezzi mediante i quali si potrebbe evitare che il valore di tale sostanza venga oscurato dalla sua continua identificazione con la cocaina.
Il primo ospite a prendere parte a questo incontro politico sulla coca raggiunge la casa facendosi strada tra le foglie di piantaggine intorno alle quattro. È Guido Capcha, il cui obiettivo è provvedere alle cure sanitarie per gli abitanti dei villaggi del Chapare. Poi ci raggiunge Gabriel Yawar Nina, in tenuta da giungla color cachi: è un fotografo e ha con sé le sue opere, immagini di indígenas stampate su carta marrone. È accompagnato dalla scrittrice attivista Malena Tuta Larama. Carmen Càrdenas, insieme a Grober e Aleia Loredo dell’associazione culturale Teatro Trono, arriva con in mano una valigia piena di marionette colorate. La pittrice Valentina Campos porta con sé avvolto in uno scialle rosso e rosa il suo piccolo di appena due mesi. Mentre José, Ignacio e Malena tirano fuori formaggio e torte, il cantante folk degli Appalachi Ricardo Jack Herrenan attacca a cantare una melodia che ha scritto per mettere insieme le lotte dei minatori di carbone della West Virginia con quelle dei boliviani che lavorano nelle miniere d’oro e d’argento del Potosí.
Parliamo di politica. Ci sono tanti anni di movimento che trasudano dalla buganville quanti ne sono trascorsi dall’arrivo di Cristobál Colón. Parliamo di un’eventuale campagna internazionale per la legalizzazione della coca. Il tema principale è la liberación de los pueblos. Un altro è l’olismo, che è divenuto ormai naturale per le comunità non ancora del tutto sradicate dalla propria terra: la coca non è qualcosa di disgiunto dalla gente, dalla famiglia, dagli avi, dal nutrimento, dalla musica, dall’arte o dalla spiritualità. La coca es sagrada, come si sente dire spesso, e tutti ne masticano alcune foglie mescolate alla caratteristica liquirizia che serve da collante.
A questo punto Juan Carlos Escalera, l’agronomo impegnato con in testa un cappello di velluto a coste, si rivolge a me e mi domanda a quattr’occhi: come è possibile che la coca venga trasformata in un prodotto che non ha più nulla a che vedere con le sue origini, con il suo luogo di provenienza e le sue tradizioni? La domanda da parte dei consumatori mondiali non ha finito forse per trasformare la sua storica produzione basata su piccola scala (si parla di villaggi) in un business agricolo impostato sulle tecnologie e gestito da multinazionali? E un simile sforzo in questa direzione non finirebbe poi per infliggere un ulteriore colpo alla biodiversità della Bolivia, già in fase di indebolimento?
Proprio quella mattina, mentre stavamo finendo la colazione come al solito a base di mate de coca, pane e marmellata, e José aveva appena ripreso a parlare delle possibilità di una despenalización della coca, d’un tratto mi era sorta una domanda. Aspettate un attimo – sentivo l’idea farsi strada nella mia mente come un uccello alla ricerca di un nido – qui stiamo parlando della creazione di un… bene globale. Un prodotto globale a fini benefici, forse, ma un vero e proprio prodotto di consumo globale, che porta in sé il potenziale sradicamento delle comunità dalle proprie tradizioni e il conseguente ingresso nell’economia dei profitti, nel sistema dei trasporti di massa e delle tecnologie delle telecomunicazioni, l’adesione a condizioni economiche inique, individualismo, eccetera.
Rispondo a Juan Carlos guardandolo negli occhi, gli riferisco tutto il percorso dei miei pensieri, a cominciare dal desiderio del mi compañero di legalizzare la coca e di farla rientrare negli standard FDA in modo che chi soffre di cuore o di diabete possa utilizzarla come farmaco. La reazione comune dei presenti è di vera e propria angoscia: sospirano e si tengono la testa tra le mani in segno di disperazione, una fila di teste dai capelli neri piegate dinanzi ai miei occhi.
Continuo a descrivere la mia conversione alla nozione più “soft” di coca, quella che negli Stati Uniti è venduta in drogheria come l’erba mate o la camomilla. Ma avverto lo stesso sospiro angosciato, ancora le teste tra le mani. In ultimo comunico il pensiero che mi è sovvenuto proprio quella mattina: vendere coca in grandi quantità per un mercato di massa significa entrare nell’economia globale con pericolose conseguenze per la gente, la cultura e la natura. Nessun respiro angoscioso e nessuna testa tra le mani.
La pianta rimane
Juan Carlos accompagna me e Jack al villaggio rurale di El Paso, la cui notorietà si deve alla chicha, una bevanda a base di grano fatta in casa; la chicherría è un cupo granaio fatto di mattoni di paglia e fango con polli e galli che vagano indisturbati tra i tavoli.
Beviamo un primo giro di chicha da una tazza ricavata da una zucca, facendo attenzione a offrire il primo sorso a Pachamama che, in questo caso, appare come il pavimento di terra del granaio. Juan Carlos si lancia in un discorso sulla cosmologia ecologica della Bolivia: illustrando il suo pensiero su un pezzo di carta a righe blu, disegna uno schema simile a una scala che rappresenta il Paese suddiviso nelle sue quattro zone di altitudine viste dall’alto.
Il suo disegno si fa via via più elaborato, pare un labirinto, a mano a mano che aggiunge grafici stagionali che mostrano la scansione dei periodi di lavoro della terra e delle feste, i dati statistici sulla perdita di biodiversità dal 1930, l’incidenza del sole, della terra, dell’uomo. Siamo ormai al terzo giro di chicha; una mucca nera rumina sulla soglia del granaio, Juan Carlos e Jack mettono via la coca. La conclusione di Juan Carlos è semplice e complessa allo stesso tempo, proprio come una foglia.
“La planta no sale fuera” (la pianta non si muove da qui), afferma. È ormai il crepuscolo. Mentre l’imbrunire avanza sulla valle che si estende al di sotto della Cordillera Cochabamba, in me è finalmente tutto chiaro. Tutto va ricondotto alla politica della soberanía. Il rispetto per l’autodeterminazione degli altri popoli implica che il mio business si fermi sulla soglia oltre la quale ha inizio il loro interesse; non si insinua nel territorio altrui, nella comunità, nel corpo o nella psiche dell’altro.
Capito questo, ci possono essere soltanto due possibili risposte da parte mia. La prima è prendermi la responsabilità di ciò che il mio governo sta facendo nei confronti della Bolivia: porre fine al volto politico-militare della guerra degli Stati Uniti nei confronti delle droghe. In secondo luogo, per evitare di imporre un programma strumentale ai miei interessi, il mio compito sarà impostare una comunicazione rispettosa: ascoltare, apprendere e quindi rispondere con la cooperazione.
Inutile dire che rimane insoluta la solita annosa domanda: “Chi è legittimato a parlare di soberanía? Che cosa succederebbe se, in risposta alle pressioni finalizzate all’accumulo di capitale che agiscono nei confronti di qualunque governo all’interno dell’economia globale, Morales in persona negoziasse la produzione massificata di coca con una casa farmaceutica multinazionale? O se a farlo fosse un consorzio di aziende specializzate in cibi macrobiotici? O persino un gruppo di collettivi di sinistra per il “free trade”? Juan Carlos mi guarda con quei suoi occhi.
Non dice una parola, e all’improvviso rido del mio dubbio. “Ok, ho capito. L’origine della sovranità precede il governo e risiede sempre, sempre nel popolo”.
Torno a casa, nel New Mexico, e come prima, mi sento diviso tra il vato e la triste bionda, due vite marcate per sempre da una droga derivata da foglie cresciute in qualche parte delle Ande, forse nel Chapare boliviano. Ma è giunto il momento che faccia qualcosa: anch’io devo lavorare per portare a termine la lotta iniziata da Che Guevara.
el transmito del mando: l’inaugurazione; letteralmente, la trasmissione del comando
cocaína: cocaina
maletita: valigetta
compañero de viaje: compagno di viaggio
narcotraficantes: narcotrafficanti
altiplano: l’altopiano della Bolivia
desaparecido: persona scomparsa o rapita, forse torturata e uccisa
trucha a lo macho: trota del lago Titicaca servita con aglio e cipolle
trícolor: bandiera nazionale
wiphala: bandiera del MAS, rappresenta tutti i popoli indigeni della Bolivia
zampoña: flauto costituito da più canne legate insieme
cholito: termine usato per riferirsi a un indigeno
indígena: indigena
cocaleros: coltivatori di coca
la primera dama: la first lady
pueblos indígenas: popoli indigeni
la liberación de los pueblos: la liberazione dei popoli
sagrada: sacra
mate de coca: tè di coca
despenalización: depenalizzazione
chicherría: bar di quartiere che serve la chicha
la soberanía: sovranità
vato: membro di una banda
Chellis Glendinning è autore di 5 libri, tra cui “Chiva: A Village Takes On the Global Heroin Trade.” Attualmente sta completando un lavoro sull’attuale arrivo di immigrati messicani negli USA, De Un Lado Al Otro, e ne ha iniziato un altro sulla coca in Bolivia.
Fonte: http://www.alternet.org/
Link: http://www.alternet.org/drugreporter/34525/
12.04.2006
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di STEFANIA ANTRO