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La Redazione

 

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CLIMA E BUSINESS, VERSO IL GRANDE CRASH

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A cura di Davide
Il 4 Novembre 2012
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MIKE DAVIS
ilmanifesto.it

L’uragano Sandy, i costi umani e materiali, sono immensi. E ora la politica statunitense comincia a pagare per non aver lavorato per tempo a frenare il riscaldamento dell’ambiente e a rivedere l’uso del territorio

Nello spirito di Donald Rumsfeld, potremmo distinguere tra eventi inevitabili naturali e innaturali. Un giorno, ad esempio, il precario pendio del vulcano di Cumbre Vieja, a La Palma, isole Canarie, crollerà creando un mega-tsunami attraverso l’Atlantico. La devastazione che si abbatterà allora su Boston e New York City farà rimpicciolire il disastro dell’anno scorso in Giappone. È inevitabile: ma i vulcanologi non sanno se l’eruzione destabilizzante sia per domani o tra cinquemila anni. Così per il momento non è altro che un eccitante argomento per il National Geographic Channel.
Un altro esempio, molto più frequente, di evento naturale inevitabile è il ciclo degli uragani dell’era pre-riscaldamento globale del clima. Due o tre volte ogni secolo una «tempesta perfetta» si è abbattuta sulla costa atlantica degli Stati uniti, provocando rovina e distruzione fino ai Grandi laghi. Ma un disastro da 20 miliardi di dollari di danni ogni qualche decennio è ciò per cui abbiamo un’industria delle assicurazioni. Perfino la perdita ogni tanto di un’intera città travolta dalla Natura (San Francisco nel 1906, New Orleans nel 2007) è una tragedia che possiamo affrontare. Il fatto è che la costruzione, a partire dal 1960, di un patrimonio immobiliare del valore di parecchie migliaia di miliardi di dollari su isole esposte, ai bordi di baie, su paludi interrate e lungo coste al livello del mare, ha radicalmente cambiato il calcolo dei danni. Anche togliendo dal conto ogni molecola di anidride carbonica aggiunta all’atmosfera terrestre negli ultimi trent’anni, i «normali» uragani provocano danni sempre più pesanti in zone costiere cementificate oltre ogni ragionevole sostenibilità. L’anidride carbonica intanto prospera. Le emissioni globali, secondo la più ottimistica delle stime, sono giunte a quello che il Panel Intergovernativo sul Cambiamento del Clima considera il «caso peggiore». La Banca Mondiale da parte sua ha accettato che sia inevitabile un aumento globale della temperatura media di almeno 2 gradi Celsius – vicino alla famosa «linea rossa» evocata dalle Cassandre climatiche dell’ultimo decennio. La Banca sta spostando i suoi aiuti allo sviluppo dal «mitigare» il cambiamento del clima all’«adattarsi» ai suoi effetti ormai ineluttabili.

Questo è il vero messaggio dell’uragano Sandy: siamo alla resa dei conti. «Adattarsi» al cambiamento del clima è sinonimo di un affare multi-multi-miliardario di ricostruzione delle infrastrutture costiere urbane e del sistema di uso del territorio. Imitare gli olandesi o vivere nel Mondo Acquatico. Quanto ci vorrà prima che la coscienza di questa sfida penetri nel cervello tumorale della politica americana? Fino al 2006, l’opinione pubblica americana era in sintonia con la preoccupazione diffusa in Europa circa il riscaldamento globale del clima. Dopo il Climagate però la super-sovvenzionata industria energetica è andata all’offensiva e i sondaggi hanno registrato un crollo nella percezione pubblica del cambiamento del clima come fatto scientifico.

Ancora più sorprendente: i sondaggi che hanno osservato la reazione pubblica a eventi climatici estremi, non hanno registrato un cambiamento significativo di opinione. La campagna presidenziale, nel frattempo, è stata una gara a quale candidato si chinava di più per regalare sesso orale ai produttori di combustibili fossili. La stampa d’affari esulta per le brillanti prospettive del gas di scisto e del petrolio «non tradizionale», quello estratto da sabbie bituminose e simili. Gli Stati uniti, per la prima volta da 33 anni, esportano di nuovo prodotti petroliferi. E siamo bloccati nella dipendenza dai combustibili fossili per ancora una generazione o due. Le alternative si dissolvono. La creazione di posti di lavoro «verdi», principale strategia industriale dell’amministrazione Obama, è fallita grazie alla rivoluzione dei gas di scisto e alla Cina che ha inondato il mercato mondiale con le sue celle solari economiche. Il crollo del sistema europeo di «scambio delle emissioni», oltretutto, non ha certo aiutato a rendere più credibile un sistema di limiti obbligatori delle emissioni di gas di serra accoppiato a una borsa delle quote di emissione (il «cap and trade») durante la recessione americana.

Il diluvio e le onde di tempesta sulle coste del New Jersey, purtroppo, non si traducono automaticamente in entusiasmo per le energie rinnovabili o urgenza di costruire chiuse e terrapieni. Ma prima o poi il cambiamento dovrà arrivare, e Washington comincerà a pagare gli interessi composti per non aver lavorato prima a frenare il riscaldamento del clima e rivedere l’uso del territorio. Ma non è questa la notizia davvero cattiva. Quella peggiore, e più feroce, è la relazione inversa tra il costo dell’adattamento al cambiamento del clima nei paesi ricchi e la quantità di aiuti disponibili per i paesi più poveri. I paesi tropicali e semi-tropicali che sono meno responsabili di aver creato un pianeta-serra sono quelli che sopporteranno il peso maggiore di inondazioni costiere, penuria d’acqua per l’agricoltura. Certo nessuno si aspettava che i grandi emettitori di gas di serra sarebbero corsi a salvare i poveracci a valle: ma Sandy segna l’inizio della corsa ad accaparrarsi il salvataggio del Titanic.

Mike Davis
È uno dei più famosi saggisti e autorevoli intellettuali della nuova sinistra americana. Il suo saggio su Los Angeles. «Città di quarzo» (manifestolibri, 2008) è un classico, come influenti sono stati i suoi volumi, tra cui «Olocausti tardovittoriani. El Niño, le carestie e la nascita del Terzo Mondo» (Feltrinelli 2002), «Il pianeta degli slum» (Feltrinelli 2006)

Fonte: www.ilmanifesto.it
4.11.2012

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