DI MASSIMO FINI
Ho seguito le vicende di questi ultimi giorni, il «Live 8», il vertice G8 a Gleneagles e poi i drammatici attentati terroristi di Londra, da un luogo vicinissimo e insieme lontanissimo dell’Europa, la Corsica, isola tendenzialmente indipendentista dove pochissimo ci si interessa delle vicende del Vecchio Continente e quasi nulla della stessa Francia di cui pur formalmente fa parte.
Credo però che una certa distanza, ciò che i francesi chiamano «recul» ad indicare la giusta posizione, né troppo vicino né troppo lontano, per osservare un quadro, offra la possibilità di valutare gli avvenimenti senza farsene travolgere emotivamente.
Sul «Live 8» e sul G8 ho letto decine di articoli che grondavano commozione per la miseria e la fame dell’Africa – una commozione molto spesso insincera, ipocrita e strumentale – così come per gli attentati londinesi ho letto migliaia di parole che esprimevano un’ovvia, e sacrosanta, indignazione. Ma nell’un caso come nell’altro non ho visto, da nessuna parte, porre due domande fondamentali:
1) perché l’Africa nera muore di fame?
2) perché esiste un terrorismo che ci odia, noi occidentali, in modo talmente feroce da abbandonarsi a stragi così efferate e indiscriminate?
Eppure cercare di capire la radice dei fenomeni dovrebbe essere la prima cosa da fare se si vuole avere qualche probabilità di risolverli, tanto più che la fame dell’Africa e il terrorismo internazionale, anche se per ora di sola matrice islamica, sono in qualche modo legati fra loro pur se in un modo molto diverso da quello diffuso dalla vulgata (miseria-terrorismo).
Cominciamo dall’Africa. Tutti i discorsi sull’Africa danno come per scontato ed acquisito che il continente nero sia stato sempre alla fame. Non è così. È esistita per molti secoli un’«Africa felix» (si veda in proposito il volume «Africa» dell’antropologo londinese John Reader) che, sia pur a modo suo, viaggiando a 500 giri invece che a 10mila come noi, era viva e prospera. E in ogni caso, sino alla fine degli anni Sessanta del Novecento, benché le fosse passato sopra il colonialismo l’Africa nera era alimentarmente autosufficiente. Qualcosa deve essere quindi successo in questi ultimi quarant’anni ed è su questo qualcosa che dovremmo riflettere prima di piangere lacrime di coccodrillo.
Il fatto è che, per quanto povera (povera secondo i nostri canoni puramente quantitativi), a partire dai primi anni Settanta l’Africa nera è stata considerata un mercato comunque appetibile (dato che i nostri cominciavano ad essere saturi) ed è stata quindi costretta in vari modi, in particolare proprio con gli «aiuti», ad integrarsi nel meccanismo della globalizzazione. I neri africani hanno dovuto abbandonare le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo), su cui avevano vissuto per secoli e millenni, ed entrare in un tipo di competizione, di «kunkurrenzkampf» all’occidentale, che è completamente estranea alle loro culture (per il nero il lavoro non è un valore, lo è invece il tempo, per cui si lavora per quanto basta a mantenersi, il resto è vita o, per dirla con le parola di Render riferite ai tempi del primo colonialismo: «Guadagnare denaro non rientrava ancora nelle aspirazioni degli africani, riluttanti a sfacchinare per soddisfare eccentricità straniere per loro del tutto irrilevanti») e dove sono inevitabilmente perdenti. Per questo motivo ogni «aiuto» all’Africa nera, anche qualora dato in buona fede, è in realtà mortale perché stringe ancor più intorno al collo di quelle popolazioni il cappio di un sistema di vita, di produzione che non è il loro.
Finora in Africa si sono salvate solo quelle comunità che, per un qualche accidente, sono sfuggite al modello occidentale. Un esempio, fra i tanti possibili, è fornito da quei pastori somali, privi, per loro fortuna, da quindici anni di un governo centrale condizionato a sua volta dagli organismi internazionali occidentali e scampati alle buone intenzioni delle Ong, di cui parla il giovane agronomo fiorentino Michele Mori che vive fra loro (La Stampa, 6/7): «Dove sono stato io la pastorizia è ancora centrale nel sistema di vita, e questo ha permesso agli abitanti di sopravvivere e migliorare, affidandosi ai rapporti interpersonali, alla conoscenza del territorio, alle tradizioni, che sono i cardini della governance locale… Noi occidentali siamo ormai abituati da secoli a vivere attraverso un crescente controllo razionale dell’ambiente e non secondo criteri di flessibile adattamento ad esso. I pastori dunque, in Somalia e altrove, sono depositari di un’antica saggezza, che potrà esserci preziosa se invece di costringerli a uniformarsi al nostro modello (magari con la scusa di «aiutarli» ad essere più produttivi) sapremo recepire le strategie che ci suggeriscono… Attualmente mi occupo di analizzare il recente sviluppo del mercato del latte di cammello. Il suo aspetto più affascinante è che nessuna agenzia di sviluppo al mondo sarebbe stata capace di costruire un sistema come questo che si basa sulla fiducia, sulla reciprocità, sulla solidarietà, su sentimenti che non si vendono e non si comprano e rendono il mercato un prodotto della società e non il suo contrario.
L’equilibrio dell’Africa nera, durato millenni, è stato quindi distrutto dalla eccezionale e sostanzialmente violenta pervasività del mondo occidentale (si tratti di multinazionali dei diktat dell’Fmi o della Banca mondiale o anche della bontà sanguinaria delle Ong e delle «anime belle» dei vari «Live 8» o «Live Aid» o «Usa for Africa») che ha degradato quelle popolazioni da povere (povere, sempre, secondo i nostri criteri) a miserabili e che le ha ridotte alla fame e costretto alle migrazioni forzate e disperate.
L’Africa nera, che aveva culture belle, raffinate e affascinanti ma fragili e proprio perché non inclini all’integralismo e al monoteismo, culturale e religioso, ma piuttosto, come dice Neri, alla flessibilità e alla mediazione, si è lasciata distruggere dalla nostra pervasività. Questa stessa pervasività è all’origine della reazione violenta dell’assai meno morbido – e per certi versi, nel suo fondamentalismo, a noi vicino – mondo islamico.
Sul «Corriere della Sera» (9/7) Gianni Riotta, a proposito degli attentati londinesi, scrive che l’Occidente rappresenta «le forze della tolleranza». Ma quale tolleranza c’è in un mondo che, nei fatti e oggi, attraverso Bush e i neocon, anche ideologicamente, vuole omologare a sè, alla propria economia, ai propri consumi, ai propri costumi, ai propri valori, alle proprie istituzioni, il resto del mondo non accettando in alcun modo la dignità e il diritto all’esistenza dell’«altro da sè»?
Si è cominciato foraggiando il criminale Saddam Hussein, con ogni tipo di armi, comprese quelle di «distruzione di massa», contro l’Iran di Khomeini semplicemente perché l’ayatollah proponeva, per il suo Paese e per il suo mondo, una «terza via» che non fosse né capitalista né marxista, cioè, nell’un caso e nell’altro, occidentale. Si è proseguito annullando le prime elezioni libere algerine, dopo trent’anni di sanguinaria dittatura militare, perché erano state vinte, a larghissima maggioranza (poco meno dell’80%), dal Fis, cioè dal Fronte islamico di salvezza. Si è andati avanti aggredendo, invadendo, occupando l’Afghanistan e l’Iraq, inserendo governi fantoccio, con la pretesa di portarvi la democrazia, cioè i nostri valori. Adesso, come ipotesi minima, si vuole organizzare un colpo di Stato in Iran perché le elezioni sono state vinte da un tipo che non ci piace. E si è concettualizzata questa posizione affermando che tutti coloro che non aderiscono spontaneamente ai valori dell’Occidente fanno parte delle «forze del Male» o le sono affini o complici.
Si dà però il caso che moltitudini piuttosto consistenti non ci stiano a farsi occidentalizzare a forza e concepiscano un crescente astio per chi vuole costringerle ad abbandonare la propria cultura, le proprie tradizioni, i propri valori. In questo humus antioccidentale pesca il terrorismo internazionale che è una risposta integralista, fondamentalista, totalitaria e violenta a un mondo che, nonostante si definisca e si creda, in gran parte in buona fede, democratico e liberale, è integralista, fondamentalista, totalitario e violento. Che vede molto bene i cecchini altrui e giustamente se ne raccapriccia ma è inconsapevole dei propri (che cosa sono i cinquanta morti di Londra di fronte ai 5500 serbi e kosovari uccisi nella guerra alla Jugoslavia del 1999, ai ventimila civili afghani ammazzati fra il 2001 e il 2005 e, prima ancora, ai 32.195 bambini iracheni vittime di «effetti collaterali» durante la prima guerra del Golfo?
Questi due diversi ma complementari fondamentalismi si rafforzano e si legittimano a vicenda. E in mezzo a questa immonda guerra fra la «guerra asimmetrica» o, come l’ha chiamata Edward Luttwak, «post-eroica», che è quella delle superpotenze occidentali troppo superiormente armate per poter essere affrontate lealmente sul campo, e il terrorismo globale una guerra che colpisce quasi esclusivamente civili, si trovano tutti coloro che non stanno né con Bin Laden (o chi per lui) e i suoi metodi atroci ma nemmeno con chi ha la pretesa proterva e totalitaria di omologare a sè, con le buone o con le cattive, ogni altra società, cultura, civiltà.
Massimo Fini
Fonte:www.ilgazzettino.it
11.07.05