DI GIANLUCA BIFOLCHI
Achtung banditen
Proverò a mettere in ordine i miei pensieri sulla probabilità di un nuovo conflitto in Medio Oriente nel 2008, a seguito di un’eventuale decisione della Casa Bianca di attaccare l’Iran. Per farmi strada nella giungla delle speculazioni elaborate in previsione di questo evento mi servirò del metodo del rasoio di Occam, che, detto in soldoni, suggerisce di non ricorrere a spiegazioni arzigogolate quando quelle più ovvie sono sufficienti per lo meno a fare chiarezza.
Questa scelta può in effetti risultare barbosa e priva di fantasia. Facciamo un esempio. Alla domanda cruciale del problema considerato, se cioè vi sarà o no questa guerra, io rispondo che non lo sa nessuno, neanche chi prenderà la decisione finale, cioè George W. Bush, e che quindi la materia è più che altro soggetto per scommettitori portati all’azzardo. Si potrebbe d’altronde osservare che la questione del decisore di ultima istanza apre la via ad abbondanti speculazioni se sia veramente l’attuale inquilino della Casa Bianca, o se piuttosto non bisogna considerare una pletora di scenari alternativi che vanno dal ruolo mefistofelico del vice-presidente Dick Cheney, che condiziona in maniera determinante il processo decisionale in nome degli interessi della Halliburton (o anche per conto proprio), al formidabile impatto del governo israeliano sugli ambienti che contano a Washington per il tramite di AIPAC. Dato però che, se vi sono prove che questi sono fattori reali dell’equazione, non è però altrettanto certo — e io dico che è improbabile — che siano i fattori determinanti, il metodo del rasoio di Occam impone la prosaicità di credere che chi prende veramente le decisioni è George W. Bush. Non è chi non veda come questo approccio manchi di tutti i vantaggi di una prosa piena di suspence, come quella dei romanzi di spionaggio o del genere techno-thriller, di cui abbondano i siti di informazione alternativa. Ma dato che questa analisi ha soprattutto lo scopo di riordinare le mie idee, rimando ad un altro momento l’esercizio del mio estro letterario e fantastico.
Secondo me le coordinate all’interno delle quali quali occorre inquadrare il problema sono tre: a) le finalità strategiche; b) la fattibilità tattica; c) i vantaggi politici.
FINALITA’ STRATEGICHE — sono proprio quelle dichiarate: evitare che l’Iran sviluppi un programma di produzione di energia nucleare civile basato su tecnologia dual-use che preveda processi di arricchimento dell’uranio in loco. La contestazione di questo diritto all’Iran — per quanto “inalienabile” sulla carta e discendente dall’essere l’Iran un paese firmatario del Trattato di Non Proliferazione nucleare, e membro a pieno titolo dell’AIEA, l’agenzia delle Nazioni Unite che garantisce con i suoi controlli l’uso lecito, cioè non militare, dell’energia atomica — è dovuta alla sua natura di “stato canaglia”, cioè inaffidabile secondo i criteri di sicurezza USA, che rendono troppo alto il rischio — insito nella tecnologia dual-use — che la frontiera tra civile e militare venga superata all’insaputa degli organismi internazionali.
Il fatto che l’etichetta di “stato canaglia” sia attribuita dagli USA con criteri partigiani non cambia di molto la sostanza. Le guerre sono per definizione momenti di crisi della sicurezza internazionale, e chi non si piega ai diktat dell’impero USA (specie se non si è già dotato di una bomba atomica, cosa che lo metterebbe al sicuro) appare come una minaccia per la pace. Questa logica fa un po’ pensare al brigante di strada che scuote tristemente la testa riflettendo sull’inutile violenza che c’è al mondo, dopo aver accoltellato lo sconsiderato viandante che, all’ingiunzione “o la borsa o la vita”, ha reagito cercando di tenersi i suoi soldi. Ma è una logica che ha un certo successo, se pensiamo al nostro presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, già sostenitore nel 1956 dell’invasione sovietica dell’Ungheria — risultante, tra le altre cose, nell’impiccagione due anni dopo del leader indipendentista Imre Nagy — che proprio qualche giorno fa, in visita a Washington, esprimeva la sua gratitudine per il ruolo dell’America nell’assicurare la pace, auspicando una maggiore collaborazione dell’Europa, particolarmente nel settore della PROLIFERAZIONE DI ARMI NUCLEARI! (chi vuole capire…)
E’ anche lecito chiedersi se il petrolio iraniano non costituisca anch’esso motivo di interesse, nella possibile escalation militare. Rispondo che gli USA non dimenticano neanche per un istante il petrolio iraniano, né dimenticano la posizione strategica del paese rispetto ai giacimenti del Caspio, né, infine, che amabile stato satellite era la Persia pre-khomeinista (molto più di Israele!). Ma tutte queste mire non possono che portare ad una strategia di “regime change” che appare oltremodo problematica, alla luce delle considerazioni al punto seguente.
FATTIBILITA’ TATTICA — Naturalmente l’enorme impegno già dispiegato dalle forze armate USA in Iraq ed Afghanistan non costituisce nessun problema in vista di un attacco all’Iran. Questo, infatti, avrebbe luogo su obiettivi limitati e noti per la loro posizione. Una campagna aerea condotta con l’ausilio di missli Cruise lanciati dalle unità navali al largo del Golfo Persico, lungi dal costituire un grattacapo per i pianificatori del Pentagono, rappresenterebbe un bel regalo all’industria degli armamenti che riceverebbe subito commesse (con tripudio di patriottismo bipartisan al Congresso) per ricostiture gli arsenali strategici.
I problemi sembrano più collegati alla possibilità di contenere la reazione iraniana, che conterebbe su un potenziale offensivo non del tutto noto, soprattutto per quanto riguarda le capacità balistiche (per quello che se ne sa). I possibili scenari di rappresaglia sono tre: l’attacco missilistico ad Israele, la destabilizzazione dell’Iraq, e la possibile riapertura del fronte israelo-libanese ad opera delle milizie sciite Hetzbollah (legate all’Iran). Le incognite riguardano essenzialmente l’ampiezza della reazione (se cioè riguarderà o meno tutti gli scenari) e la capacità di attuazione da parte di Teheran (dato il prevedibile attacco USA, sempre per via aerea, alle istallazioni militari iraniane). Ci si addentra qui in una complessa materia di competenza degli analisti militari, ma è difficile supporre che la Casa Bianca conti sulla possibilità di colpire impunemente l’Iran. Sul piano strettamente militare non può che essere un calcolo di profitti e perdite, le cui incognite non sono del tutte chiare neanche ai pianificatori del Pentagono.
Va da sé che risulta esclusa in partenza ogni opzione di “regime change”, se non affidata ad una combinazione di campagna aerea, come quella qui descritta, e di azioni di sovversione interna, come quelle diretta alla minoranza curda e ad ambienti dell’opposizione. Ma tutti ritengono che il regime del Mullah è saldo, e che un attacco dall’esterno metterebbe nelle sue mani la carta nazionalista, particolarmente importante in Iran, che da questo punto di vista non è l’Iraq.
VANTAGGI POLITICI — Sono gli stessi che hanno permesso la rielezione di Bush nel 2004 (brogli nei registri elettorali dell’Ohio a parte). “Support our troops, support our President” è sempre un richiamo molto forte negli USA, particolarmente quando una campagna presenta alte possiblità di successo, come sarebbe vero per un attacco all’Iran, almeno nell’ottica estremamente limitata di un attacco aereo condotto su bersagli interni al suo territorio.
E’ anche vero che il 2008 non è il 2004, e il disastro iracheno si è rivelato in tutta la sua magnitudine, portando la popolarità dell’amministrazione a minimi storici. Si può mettere in conto che una nuova eccitante campagna militare è proprio quello che ci vuole per invertire la tendenza, e questo è proprio il tipo di ragionamenti che un cervello come quello di Bush, assistito dai suoi consiglieri neocon che bramano di uscire dall’ombra in cui li ha gettati la palude irachena, potrebbe fare. Si riduce tutto a una questione di sensibilità per gli orientamenti elettorali degli Americani, di cui è difficile farsi un’idea qui da noi. Mi limito a rilevare che, proprio su questa linea, si sono aperte fratture e diserzioni dal fronte repubblicano (Ron Paul è il caso più emblematico) che nel 2004 non c’erano.
E naturalmente rimane il problema delle motivazioni per cui un Presidente prossimo alla scadenza del suo mandato e senza possibilità di rielezione, dovrebbe scatenare una guerra dalle conseguenze così incerte. Suo padre, alla fine del mandato, si divertì a regalare al subentrante Bill Clinton la patata bollente della missione in Somalia (trasformatasi in seguito in un disastro), ma qui la partita assume dimensioni assai più globali ed incerte.
A me sembra che la strategia politica di un attacco all’Iran sia quella di una guerra senza guerra, una guerra fredda in sedicesimo che, senza mai arrivare al momento in cui si premono i grilletti, dà all’amministrazione tutti i vantaggi che derivano dal potersi presentare al proprio popolo e ai propri avversari politici come il gruppo dei capi impegnati in una difficile sfida contro un infido e pericoloso avversario dell’America, deviando molte delle critiche che ragionevolmente possono essere fatte loro a partire dal fallimento iracheno.
CONCLUSIONI — Le conclusioni da trarre riguardano ovviamente una stima delle probabilità sul verificarsi dell’evento di un attacco all’Iran. Alla luce di tutto quello che è stato detto finora sembrerebbe uno sviluppo piuttosto improbabile, almeno per quanto riguarda l’agenda di questa amministrazione. Occorre però guardarsi dagli eccessi di sicurezza che derivano da pregiudizi razionalistici, che portano a considerare l’esplodere di guerre come il risultato di lucidi processi decisionali, le cui variabili possono non essere del tutto chiare agli osservatori esterni, ma che seguono comunque una logica rigorosamente conseguenziale. Particolarmente quando ci si trova in una polveriera come il Medio Oriente: ricordiamoci della situazione dei Balcani nel 1914. E ricordiamoci soprattutto che Bush è l’uomo che ha deciso l’invasione dell’Iraq.
Gianluca Bifolchi
Fonte: http://achtungbanditen.splinder.com/
13.12.07