DI JONATHAN SAFRAN FOER
repubblica.it
Come la maggior parte delle persone, ogni tanto avevo riflettuto un po’ su che cosa è effettivamente la carne, ma finché non sono diventato padre e non mi sono trovato a dover prendere delle decisioni in merito all’ alimentazione di qualcun altro, non avevo provato alcuna necessità pressante di andare in fondo alla questione. Sono uno scrittore e non mi era mai venuto in mente di poter scrivere qualcosa che non fosse fiction e, francamente, dubito che lo rifarò. In ogni caso, la questione dell’ allevamento intensivo del bestiame è in questo periodo un argomento che nessuno dovrebbe ignorare. Essendo uno scrittore, il mio modo di prestarvi attenzioneè scriverne. Se le nostre modalità di allevamento del bestiame a scopi alimentari non sono il problema numero uno al mondo, sono sicuramente la causa numero uno del riscaldamento globale: dai rapporti delle Nazioni Unite risulta infatti che le attività legate all’ allevamento del bestiame generano più emissioni di gas serra di tutti i mezzi di trasporto presi insieme. Si tratta di sicuro della prima causa di sofferenza per gli animali, un fattore decisivo nella creazione di malattie zoonotiche come l’ influenza aviaria e suina, e l’ elenco potrebbe continuare. In assoluto, questo è il problema più di qualsiasi altro circondato da un assordante silenzio. Perfino le persone più riflessive e impegnate in politica e in altre cause cercano di “non sfiorare questo argomento”. E a buon motivo: parlarne può essere estremamente imbarazzante.
Il cibo non è soltanto ciò che ci mettiamo in bocca per sfamarci, ma è cultura, è identità. La logica riveste sicuramente un ruolo di primo piano nelle nostre decisioni riguardanti il cibo, ma di rado è essa a indurci a determinate scelte. Dobbiamo trovare un modo migliore per parlare del fatto che mangiamo gli animali, e deve essere un modo che non ignori né accetti scrollando le spalle determinati fattori, come le abitudini, le “voglie”, la tradizione famigliare e personale, ma le includa tutte nel discorso. Quanto più si permetterà a questi elementi di essere parte integrante del discorso, tanto più saremo capaci di seguire i nostri migliori istinti. Benché ci siano molti modi rispettabili di riflettere sulla carne, non vi è neppure una persona su questa Terra il cui migliore istinto quale possa spingerla verso l’ allevamento intensivo. Il mio libro Eating Animals ( Se niente importa. Perché mangiamo animali? in uscita per Guanda il 25 febbraio, n.d.r.) si occupa dell’ allevamento intensivo da varie prospettive diverse: il benessere degli animali, l’ ambiente, il prezzo pagato dalle comunità rurali, i costi economici. Per quale motivo non vi è un numero maggiore di persone consapevoli – e arrabbiate – dell’ incidenza di malattie evitabili legate al consumo di determinati cibi? Forse non sembra così ovvio che qualcosa non quadra per il semplice fatto che tutto ciò che accade così di frequente – come la contaminazione di carne, specialmente pollame, da parte di agenti patogeni – tende di fatto a sfumare in secondo piano. In ogni caso, se uno sa che cosa cercare, il problema patogeno assume una rilevanza terrificante.
Per esempio, la prossima volta che un vostro amico si prende una di quelle “influenze” improvvise – quelle che in genere si tende a descrivere erroneamente come “influenze intestinali” – ponetevi qualche domanda. La malattia del vostro amico è una di quelle che “durano 24 ore” e scompaiono velocemente dopo un po’ di vomito e diarrea? La diagnosi non è semplice, ma se la risposta a questa domanda è sì, il vostro amico con ogni probabilità non ha avuto nessuna influenza. Molto verosimilmente è uno dei 76 milioni di casi di malattie dovute agli alimenti che il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie ritiene scoppino in America ogni anno. Il vostro amico, insomma, non ha “preso un virus”, ma “ha mangiato un virus”. E, molto probabilmente, quel virus è stato creato dall’ allevamento intensivo. Oltre al numero puro e semplice delle malattie riconducibili all’ allevamento intensivo, sappiamo che questo tipo di allevamenti contribuisce al proliferare di patogeni resistenti agli antimicrobici, semplicemente perché in essi se ne fa grandissimo uso. Come misura di sanità pubblica studiata per limitare il numero di questi farmaci assunti dall’ uomo, dobbiamo andare a farci visitare da un medico prima di ottenere una prescrizione per antibiotici e altri antimicrobici. Accettiamo questa seccatura per l’ importanza che acquisisce sotto il profilo medico. I microbi finiscono con l’ adattarsi agli antimicrobici e quindi vogliamo che siano le persone che veramente ne hanno bisogno e sono malate a trarre beneficio dal numero di volte che li si può usare prima che i microbi imparino a sopravvivere. In un tipico allevamento intensivo, gli animali ricevono farmacia ogni pasto.
Negli allevamenti intensivi di pollame è pressoché obbligatorio, perché gli animali sono stati allevati in condizioni tali che le loro malattie sono inevitabili e le loro condizioni di vita le favoriscono al massimo. Il settore ha individuato il problema sin dalla sua comparsa, ma invece di accettare la possibilità di allevare animali meno produttivi, controbilancia l’ immunità degli animali ormai compromessa per sempre con i farmaci. Di conseguenza, gli animali cresciuti negli allevamenti intensivi ricevono antibiotici per motivi non terapeutici. In pratica, li assumono prima ancora di ammalarsi. Negli Stati Uniti, gli esseri umani ogni anno consumano circa 1.360 tonnellate di antibiotici, ma gli animali da allevamento ne assumono la stratosferica cifra di 8.074 tonnellate. Questa, per lo meno, è la cifra dichiarata dal settore. L’vUnionof Concerned Scientists ritiene che il settore riporti dati inferiori alla realtà almeno del 40 per cento. Secondo questo sindacato di coscienziosi scienziati, quindi, calcolando soltanto le motivazioni non terapeutiche, maiali, pollame e altri animali da allevamento ogni anno consumano 11.158 tonnellate di antibiotici. Questo dato risale al 2001: in altre parole, per ogni dose di antibiotici assunta da un essere umano malato, almeno otto dosi sono somministrate a un animale “sano”. Le implicazioni per la creazione di agenti patogeni resistenti ai farmaci sono alquanto evidenti. Uno studio dopo l’ altro conferma che la resistenza antimicrobica subentra rapidamente, subito dopo l’ introduzione di nuovi farmaci negli allevamenti intensivi. Per esempio, nel 1995, quando la Food and Drug Administration approvò l’ utilizzo dei fluoroquinoloni – come il “Cipro” – nel pollame, malgrado le proteste del Centro per il Controllo delle malattie, la percentuale di batteri resistenti a questa potentissima categoria di antibiotici passò da quasi zero al 18 per cento già nel 2002.
Un più ampio studio pubblicato sul New England Journal of Medicine ha reso noto un aumento di otto volte nella resistenza antimicrobica tra il 1992 e il 1997 e ha ricondotto questo aumento all’ uso di antimicrobici nel pollame degli allevamenti intensivi. Già alla fine degli anni Sessanta, gli scienziati avevano messo in guardia dall’ utilizzo non terapeutico di antibiotici nel mangime degli animali d’ allevamento. Oggi istituzioni quanto mai disparate – quali l’ Associazione dei medici americani,i Centri per il controllo delle malattie, l’ Istituto di medicina, la divisione dell’ Accademia nazionale delle scienze e l’ Organizzazione Mondiale della Sanità – hanno collegato l’ uso di antibiotici non terapeutici negli allevamenti intensivi con una aumentata resistenza antimicrobica ed esortano a una loro messa al bando. Il settore dell’ allevamento intensivo è riuscito con successo a contrastare tale richiesta di messa al bando negli Stati Uniti. Non stupisce che negli altri Paesi divieti parziali siano soluzioni soltanto in minima parte. Vi è una ragione lapalissiana che spiega per quale motivo non è entrato in vigore il necessario divieto totale di utilizzo di antibiotici non terapeutici: il settore dell’ allevamento intensivo, alleato con l’ industria farmaceutica, ha più potere dei professionisti della salute pubblica. Qual è l’ origine dell’ immenso potere del settore? Glielo abbiamo conferito noi. Noi abbiamo scelto, inconsapevolmente, di finanziare questa industria su scala enorme mangiando prodotti animali di allevamenti intensivi. E così facciamo quotidianamente.
Jonathan Safran Foer
Fonte: www.repubblica.it
Link: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/02/19/chiedetevi-perche-mangiamo-gli-animali.html
19.02.2010
Traduzione a cura di Anna Bissanti