CHI DETTA LE REGOLE NEGLI STATI UNITI?

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blankDI JAMES PETRAS
Information Clearing House

Per poter capire come funziona il sistema politico statunitense, come si arriva alla decisione di scatenare una guerra o di concludere la pace, chi fa cosa e come e perché, è indispensabile chiedersi “Chi detta le regole negli Stati Uniti?”, nell’accezione più ampia e profonda della domanda. Prima di affrontare il problema di “chi detta le regole”, bisogna però sgombrare il campo da numerosi malintesi, in particolare dalla tendenza a confondere tra coloro che adottano le decisioni a livello governativo e i parametri istituzionali socioeconomici che contraddistinguono gli interessi da servire. “Dettare le regole” è un buon termine: si riferisce alle “regole” che responsabili politici e amministrativi devono seguire quando decidono le spese di bilancio, le tasse, la legislazione sociale e del lavoro, la politica commerciale, i problemi strategici e militari per la guerra o la pace. Le regole vengono fissate, modificate o adattate in base alla composizione specifica dei settori guida della classe dirigente (CD), e cambiano ad ogni ridistribuzione di potere al suo interno. La ridistribuzione può riflettere la dinamica propria di una forza economica, o il diverso posizionamento di settori del mondo economico (in particolare l’ascesa e il declino dei vari competitori).
Le “regole”, imposte da un settore economico della CD in un momento di condizioni propizie nell’economia mondiale, vengono modificate quando un nuovo settore economico diviene predominante e quando condizioni esterne sfavorevoli hanno indebolito i precedenti settori economici dominanti. Come spiegheremo in seguito, il declino assoluto e relativo del settore manifatturiero statunitense è direttamente legato all’emergere di un “settore finanziario” pluridimensionale e alle maggiori capacità competitive di altri paesi produttori. La conseguenza è stata l’accelerazione del processo di liberalizzazione economica, favorita dai settori finanziari in ascesa (i cui profitti, commissioni, guadagni e bonus crescono grazie ai flussi non controllati d’investimenti, rilevamenti, acquisizioni e transazioni commerciali) che, proprio grazie alla liberalizzazione, possono più facilmente mettere le mani sugli attivi patrimoniali. La declinante competitività della vecchia classe dominante, quella del settore manifatturiero che dipendeva dal protezionismo statale e dai sussidi, ha portato a politiche di “retroguardia” per tentare di rendere attraente una goffa politica di liberalizzazione all’estero e di protezionismo in casa.

La risposta all’interrogativo su chi detta le regole nel mondo dell’economia dipende dal momento storico e dal luogo, ed è resa più difficile dal fatto che il passaggio da un settore all’altro della classe dominante richiede un prolungato “periodo di transizione”, nel corso del quale i settori in ascesa e quelli in declino possono mescolarsi e i membri dei settori in declino possono “convertirsi” alle forze in ascesa. Anche se la ripartizione del potere tra i settori economici può cambiare, non è detto che i raggruppamenti della classe al comando debbano perderci; essi possono semplicemente spostare i propri investimenti e approfittare delle nuove e più lucrative opportunità create dai settori in ascesa.

Il settore industriale statunitense, ad esempio, ha perso terreno rispetto al “capitale finanziario”, ma molti tra i più importanti investitori sono passati ai nuovi “settori finanziari in crescita”. Allo stesso tempo, i settori della classe dominante che si sono convertiti modificheranno le loro politiche per favorire una maggiore liberalizzazione e deregolamentazione, indebolendo così sensibilmente le richieste di retroguardia del gruppo manifatturiero poco competitivo. Cosa altrettanto importante, all’interno dei settori economici in declino della CD possono aver luogo drastici cambiamenti strutturali che mirano a consentire sensibili guadagni salvaguardando al tempo stesso influenza e potere. I cambiamenti più importanti sono il trasferimento della produzione in paesi oltremare (con salari più bassi, meno imposte e nessun sindacato), l’introduzione delle tecnologie informatiche (destinate a ridurre il costo del lavoro e aumentare la produttività), e la diversificazione delle attività economiche per inglobarvi i lucrosi “servizi” finanziari.

La General Electric, ad esempio, ha sostituito le attività produttive con i servizi finanziari, ha trasferito all’estero le attività ad alta intensità di mano d’opera, e ha automatizzato le operazioni. Con queste scelte, la distinzione tra “produzione” e capitale finanziario è diventata obsoleta nel descrivere la “classe dirigente”.

I vecchi capitalisti del settore manifatturiero hanno conservato un certo qual peso economico e politico nella CD, ma lo hanno fatto subappaltando la produzione in Asia e in Messico (General Motors/Ford), investendo in fabbriche oltremare per conquistare i mercati esteri o dedicandosi in misura prevalente a operazioni commerciali e d’importazione (calzature, tessili, giocattoli, elettronica di consumo e microchip).

I produttori locali ancora presenti nella CD, che operano in massima parte nel settore degli armamenti e prosperano grazie all’importanza delle spese statali, dipendono dall’appoggio politico dei funzionari del congresso e dei sindacati, smaniosi di assicurare un posto di lavoro ad una calante forza di lavoro del settore manifatturiero.

Nel corso di questo periodo transitorio di cambiamenti rapidi e globali della classe dominante, in tutto il mondo si sono presentate enormi opportunità finanziarie. A causa delle tensioni politiche all’interno della “classe governante”, le politiche fondamentali vengono pilotate direttamente dalle più importanti istituzioni di Wall Street, i cui dirigenti più abili e sperimentati tendono a concentrare irresistibilmente nelle proprie mani le politiche economiche fondamentali, soprattutto quelle con maggiore impatto sulla CD.

Nonostante il (o forse proprio a causa del) predominio di vari settori del capitale finanziario nella CD e il loro accordo su un pacchetto di politiche economiche di “liberalizzazione”, non tutti gli aspetti politici, le affiliazioni partitiche, o le politiche estere sono omogenei. In linea generale le differenze sono di puro dettaglio, ad eccezione di un caso in cui esiste una marcata e crescente frattura: il Medio Oriente. Una parte della CD, strettamente allineata sulle posizioni d’Israele, sostiene una politica bellicosa verso gli avversari dello stato ebraico (Iran, Siria, Hezbollah e Palestina) ed è in disaccordo con un’altra parte della CD, favorevole a un approccio diplomatico che assicuri più stretti legami con i gruppi dominanti arabi e persiani. Data la tendenza altamente militarizzata della politica estera statunitense (in gran parte dovuta al predominio degli ideologi neoconservatori, alla forte influenza della lobby sionista, all’instabilità e agli insuccessi delle loro politiche in Medio Oriente e in Cina), la CD ha fortemente voluto, e si è assicurata, il controllo diretto della politica economica estera.

Le tensioni e i conflitti all’interno della CD – in particolare tra gli Zioncons [Conservatori sionisti] e “fautori del libero mercato” – sono stati coperti dagli enormi benefici economici ottenuti da tutti i comparti. Tutti i settori finanziari della CD si sono arricchiti grazie alle politiche della Casa Bianca e del Congresso, tutti hanno tratto vantaggio dal predominio mondiale dei “regimi liberalizzati”, e tutti hanno profittato dei guadagni consentiti dalla fase di espansione dell’economia internazionale. I settori finanziati, immobiliari e commerciali della CD sono stati i principali beneficiari della situazione, ma sono stati i gruppi finanziari, e in particolare le banche d’investimento, che hanno occupato la posizione di testa e fornito la guida politica.

Predominio del Capitale finanziario

Il “capitale finanziario” ha vari risvolti e non può essere capito se non si fa riferimento ai settori specifici. Banche d’investimento, fondi pensionistici, fondi comuni ad alto rischio, banche di risparmio e di credito, fondi d’investimento sono solo alcune delle strutture manageriali che gestiscono un’economia di svariati miliardi di dollari, ognuna con dipartimenti specializzati che operano in aree specifiche di attività speculativo-finanziaria (tra l’altro prodotti di base e cambi, commercio, consulenza e gestione delle fusioni e delle acquisizioni). Nonostante indagini, processi, multe e detenzioni, è il settore finanziario stesso che continua a definire le sue regole, a controllare i suoi normatori e a garantirsi la possibilità di speculare su tutto, ovunque e sempre. Ha creato una struttura o un universo in cui poi si svolgono le altre attività economiche (produzione, vendita al dettaglio e attività immobiliare).

Il “capitale finanziario” – che non è un settore isolato e non può essere contrapposto all’ “economia produttiva”, salvo nel caso molto marginale delle “attività locali” – interagisce in larga misura con le speculazioni immobiliari, l’agro-alimentare, la produzione di beni e le attività manifatturiere (e ne costituisce la forza propulsiva). I “prezzi di mercato” sono influenzati dagli interventi speculativi almeno quanto lo sono dalla “domanda e l’offerta”. Cosa altrettanto importante, l’intera architettura dell’ “impero di carta” (il complesso degl’investimenti finanziari intercollegati) dipende in ultima analisi dalla produzione di beni e servizi. La struttura di potere e ricchezza assume la forma di un triangolo capovolto in cui una vera armata di lavoratori, contadini e salariati produce quel valore che diventa poi la base di strumenti finanziari vicini o lontani, semplici o sofisticati, lucrativi e speculativi. Il trasferimento di valore dalle attività produttive di lavoro agli strumenti finanziari viene condotto con vari mezzi: proprietà finanziaria diretta delle aziende, credito, rapporto d’indebitamento, acquisizione della maggioranza e fusioni. La tendenza dei “capitalisti produttivi” è quella di avviare un’azienda, innovarla, sfruttare il lavoro, conquistare i mercati e, infine, “vendere” o andare sul “mercato pubblico” (offerta azionaria). Il settore finanziario agisce come intermediario misto, dirigente, acquirente per procura e consulente: in ogni caso incamera sostanziosi guadagni, espande il proprio impero economico, e… spiana la strada a più importanti livelli di acquisizioni e fusioni… Il “capitale finanziario” è l’asse portante che permette di concentrare e centralizzare ricchezza e capitale, ed è allo stesso tempo proprietario diretto dei mezzi di produzione e distribuzione. Incassando “tributi” e “rendite” (commissioni o emolumenti) sempre più importanti per ogni transazione di capitale a grande scala, il “capitale finanziario” è riuscito a penetrare e controllare un’enorme massa di attività economiche, trasferire capitali senza preoccuparsi di frontiere nazionali o settoriali, succhiare profitti e deprezzare azioni seguendo il ciclo affari, prodotti, profitti.

All’interno della classe dirigente, l’elite finanziaria, una sua componente squisitamente parassitaria, supera per ricchezza e stipendi annui i dirigenti delle multinazionali e la maggior parte degl’imprenditori, con entrate annue che seguono di poco quelle d’imprenditori super ricchi come William Gates e Michael Dell.

La classe dirigente finanziaria è stratificata al suo interno in tre sottogruppi: al livello più alto i banchieri che amministrano grandi fondi patrimoniali privati e i gestori dei fondi ad alto rischio, seguiti dai responsabili esecutivi di Wall Street, che precedono a loro volta i soci anziani e i vicepresidenti di grandi fondi patrimoniali privati e i loro omonimi dei fondi d’investimento pubblici di Wall Street. I gestori e i responsabili dei più importanti fondi comuni ad lato rischio hanno totalizzato un miliardo di dollari o più all’anno, superando di varie volte i loro omonimi delle società finanziarie quotate in borsa: nel 2006, ad esempio, Lloyd Blankfein, presidente/direttore generale della Goldman Sachs, ha guadagnato 53,4 milioni di dollari, mentre Dan Ochs, responsabile del fondo Och-Ziff Capital se ne è concessi 220. In quello stesso anno il presidente/direttore generale della Morgan Stanley ha ricevuto 40 milioni di dollari, mentre lo stipendio del responsabile esecutivo del fondo Citadel ha superato i 300.

Se gli speculatori dei fondi comuni ricevono i salari annui più elevati, i dirigenti dei fondi d’investimento privati possono però eguagliare i loro introiti di centinaia di milioni grazie ai costi di negoziazione e ai versamenti di dividendi speciali dai valori in portafoglio delle aziende. Ed è stato particolarmente vero nel 2006, quando gli acquisti di interi pacchetti azionari hanno toccato il record di 710 miliardi di dollari. La massa di soldi per i capi dei fondi d’investimento privati viene dall’accumularsi delle quote di partecipazione nei portafogli delle aziende; di solito sfiorano il 20% dei profitti realizzati quando un gruppo vende o quota un’azienda (e in quel momento il guadagno si colloca nelle centinaia di milioni di dollari).

Un sottogruppo della classe dirigente finanziaria è quello dei “banchieri junior” di società di fondi d’investimento privati che incassano intorno ai 500.000 dollari all’anno. Al gradino più basso si trovano i “banchieri junior” delle società di partecipazione quotate (“Wall Street”), con una media di circa 350.000 dollari all’anno.

La classe dirigente finanziaria è formata da questi plurimiliardari: gestori di fondi comuni, banchieri di fondi d’investimento pubblici o privati, e i loro alleati delle grandi e prestigiose imprese legali e di consulenza. Sono in stretto collegamento con le autorità giudiziarie e legislative grazie a nomine politiche e a contributi e in virtù della posizione centrale che occupano nell’economia nazionale.

In seno alla classe dirigente finanziaria, i leader politici non nascono di solito tra i più ricchi speculatori di fondi, e meno ancora tra i “banchieri junior”: provengono invece dalle banche d’investimento pubbliche e private (in altri termini Wall Street, in particolare Goldman Sachs, Blackstone, Carlyle Group e altri). Organizzano e finanziano i due più grandi partiti e le loro campagne elettorali, fanno lobbing, negoziano e mettono a punto una legislazione completa e favorevole sulle strategie globali (liberalizzazione e deregolamentazione) e sulle politiche settoriali (tagli delle tasse, pressioni dello stato su paesi come la Cina affinché “aprano” alla penetrazione straniera i propri mercati finanziari, e via di questo passo), esercitano pressioni sul governo per convincerlo a “liquidare” bancarotte e società speculative fallite e a equilibrare il bilancio riducendo le spese sociali invece di aumentare le imposte sui profitti speculativi.

La danza dei miliardi: il capitale finanziario ricava profitti dal suo potere

Gli speculatori di tutto il mondo hanno vissuto un 2006 fantastico, durante il quale le azioni sui mercati asiatici, europei e statunitensi hanno permesso percentuali di guadagni a due cifre: Brasile, Cina, India e Russia sono state oggetto di sciacallaggio speculativo (l’indice FTSE cinese è aumentato del 94%, il mercato azionario russo del 60%, il Bovespa brasiliano del 32,9% e il Sensex indiano del 46,7%). I mercati azionari sono in gran parte aumentati grazie ai crediti a tasso ridotto (per la speculazione), alla grande liquidità (sensibili profitti e rendite nei settori finanziari, petroliferi e dei prodotti di base) e alle cosiddette “riforme”, che hanno permesso agli investitori stranieri un più facile accesso ai mercati brasiliano, cinese e indiano. I maggiori profitti sul mercato azionario sono stati ottenuti con i regimi putativi di “centrosinistra” (Brasile e India) o “comunisti” (Cina) che si sono riallineati con i settori più retrogradi e “influenti” della classe finanziaria dominante.

L’attuale boom del mercato azionario russo è guidato da un processo diverso, legato alla rinazionalizzazione dei settori del gas e del petrolio a spese dei banditi oligarchi dell’era di Yeltsin e ai contratti di “cessione” alle aziende petrolifere europee e statunitensi (Shell, Texaco). Gli enormi e imprevisti profitti che ne sono seguiti sono stati riciclati internamente tra i nuovi milionari dell’era di Putin che si sono dati a cospicui consumi, speculazioni e investimenti in joint venture con industrie di produzione straniere dei settori trasporto ed energia.

La differenza tra capitale speculativo controllato dall’estero (secondo la tendenza che emerge in Cina, India e Brasile) e investimenti finanziati a livello “statale e nazionale” (strada sulla quale è avviata la Russia) spiega l’irrazionale e corrosiva ostilità verso il presidente Putin che contraddistingue la stampa economica occidentale.

Una delle maggiori fonti di profitto è quella delle “fusioni e acquisizioni”, la compravendita di gruppi multinazionali, con un movimento che nel 2006 ha raggiunto i 3.900 miliardi; le banche d’investimento hanno incassato 18,8 miliardi di dollari a titolo di “spese”, il che ha fatto entrare nelle tasche dei banchieri bonus per vari milioni di dollari. Le fusioni e acquisizioni, ostili o amichevoli, sono comunque attività squisitamente speculative alimentate da un debito modesto e portano a una ulteriore concentrazione di proprietari e profitti. È noto oggi che il 2% delle famiglie possiede l’80% delle ricchezze mondiali. All’interno di questa piccola elite, una frazione che opera nel capitale finanziario possiede e controlla la massa delle ricchezze mondiali, e prepara e pilota ulteriori raggruppamenti. Il valore speculativo delle fusioni e acquisizioni a livello mondiale supera di un 16% il boom speculativo delle “DOTCOM” nel 2000. Nel 2005, nei soli Stati Uniti, sono state piazzate oltre 400 miliardi di dollari di azioni private, il triplo rispetto agli anni precedenti.

Per capire chi sono i principali membri della classe dirigente finanziaria basta guardare le prime dieci banche di fondi azionari privati, il loro valore e il numero delle operazioni di fusione e acquisizione in cui sono impegnate (in parentesi, dati dal Financial Times, 27 dicembre 2006 p. 13 – FT montage Bob Haslett): Blackstone (85,3; 12), Texas Pacific (81,9; 11), Bain Capital Partners (74,7; 9), Thomas H Lee Partners (53,4; 6), Goldman Sachs (51,2; 5), Carlyle (50; 14), Apollo Management (44,9; 7), Kohlberg Kravis Roberts (44,5; 3), Merril Lynch (35,9; 3), Cerberus Capital Management (28,6; 4).

Il punto cruciale è che queste banche d’investimento private sono presenti in tutti i settori economici, in tutte le aree del mondo e speculano sempre più frequentemente nei gruppi acquistati.

In un’era di predominio dei capitali finanziari speculativi, non c’è da sorprendersi che le tre principali banche d’investimento – Goldman Sachs, Lehman Brothers e Bear Stearns – abbiano fatto registrare profitti annui da primato, grazie alla loro espansione in Europa e in Asia, e il trasferimento dei loro profitti dai settori di produzione e dei servizi al settore finanziario. Nel 2006 la Goldman Sachs (GS) ha ottenuto i maggiori profitti mai conseguiti da una banca d’investimento di Wall Street, grazie a enormi (speculativi) guadagni commerciali e investimenti lucrativi nei peggiori centri di sfruttamento del lavoro in Asia. GS ha dichiarato un aumento del 69% delle proprie entrate (arrivate a 9,54 miliardi di dollari). Anche la Lehman Brothers (LB) e la Bear Stearns (BS) hanno fatto registrare entrate record: 4 miliardi per la LB e 2,1 miliardi per la SB. Sempre nel 2006, Lehman ha accantonato circa 334.000 dollari per ogni banchiere junior e una somma di molte volte superiore per i banchieri e gli speculatori più importanti.

Nel 2006 i ricavi delle banche d’investimento hanno sfiorato i 38 miliardi di dollari, rispetto ai 25 miliardi del 2004: un aumento del 34% (Financial Times 13 dicembre 2006 p.15).

Il predominio del capitale finanziario è stato alimentato anche dall’attività speculativa dei controllori e direttori delle aziende di stato. Proprietà “dello Stato” è una definizione ambigua che fa nascere una domanda ben precisa: “A chi appartiene lo Stato?“. In Medio Oriente esistono sette aziende petrolifere di proprietà statale: in sei casi il principale beneficiario è un ristretto gruppo dominante che, attraverso banche d’investimento statunitensi e dell’UE, ricicla entrate e profitti soprattutto in obbligazioni, beni immobili e altri strumenti finanziari speculativi (FT, 15 dicembre 2006 p.11). Nell’ambito delle classi dirigenti dei “Paesi del Golfo”, proprietà statale e capitale speculativo sono attività complementari e non conflittuali. Il regime al potere in Dubai investe le rendite petrolifere per creare un centro finanziario regionale. Molte banche d’investimento di Wall Street dirette da ebrei americani convivono con società d’investimento islamiche, e tutte e due mietono utili speculativi.

Molti fondi d’investimento ora nelle mani delle banche d’investimento statunitensi, dei fondi azionari e di altri settori della classe dirigente finanziaria sono nati coi profitti sottratti ai lavoratori dei settori manifatturiero e dei servizi. Due processi concomitanti hanno portato alla crescita e al predominio del capitale finanziario: il trasferimento di capitali e profitti dal settore “produttivo” a quelli finanziario e speculativo, e il trasferimento dei capitali finanziari oltremare, sotto forma di acquisizione di attivi patrimoniali ora equivalenti a circa l’80% del PIL statunitense. Le radici del capitale finanziario affondano in tre tipi di sfruttamento intensivo: 1) del lavoro (orari prolungati, trasferimento dei costi di pensione e sanitari dal capitale al lavoro, blocco del salario minimo, stagnazione e declino delle retribuzioni e dei salari reali), 2) dei profitti di produzione (rendite più elevate, trasferimenti intersettoriali verso gli strumenti finanziari, interessi e spese di commissione per fusioni e acquisizioni), e 3) delle politiche fiscali dello Stato (minore tassazione delle plusvalenze, maggiori cancellazioni e incentivi fiscali per gl’investimenti all’estero, imposte regressive a livello locale, statale e federale).

Il risultato è un crescente squilibrio tra banchieri senior e junior, direttori di banche d’investimento pubbliche o private, di fondi azionari e fondi d’investimento e il loro seguito di avvocati e contabili, da un lato, e dall’altro i lavoratori stipendiati e salariati. Il rapporto delle entrate tra classe dirigente e lavoratori della classe media va da 400:1 fino a 1.000:1

La crisi della classe operaia e della classe media inquieta la classe dirigente

Negli ultimi 30 anni (1978-2006) la qualità di vita della classe operaia e di quella media e dei poveri urbani si è talmente ridotta da poter parlare di crisi incombente. Mentre le paghe orarie reali, in dollari a prezzo costante 2005, sono rimaste ferme, i costi per cure sanitarie, pensione, energia e istruzione (sempre più coperte da salari e stipendi dei lavoratori) sono schizzati verso l’alto. Se nell’equazione includiamo anche il prolungamento dei tempi di lavoro e l’intensificazione del lavoro (aumento della produttività), è evidente che la qualità delle condizioni di vita (incluse quelle di lavoro) è nettamente calata. Persino la stampa finanziaria arriva a scrivere articoli come “Why Ordinary Americans have Missed Out on the Benefits of Growth” [Perché la maggioranza degli americani non ha tratto profitto dai benefici della crescita] (FT, 2 novembre 2006 p.11).

Le banche finanziarie e d’investimento hanno il compito di organizzare e dirigere la “ristrutturazione” delle aziende in attesa di fusioni e acquisizioni adottando misure per il ridimensionamento, l’appalto a fornitori esteri, la restituzione e altre misure per il taglio dei costi. Ciò ha condotto a una minore mobilità dei dipendenti stipendiati e salariati, che conservano il proprio posto anche se diventa più precario. In altri termini, quanto più aumentano salari, bonus, profitti e rendite della classe dirigente finanziaria occupata a “ristrutturare” le aziende per la loro fusione e acquisizione, tanto più si riducono gli standard di vita della classe operaia e di quella media.

Una prova dell’enorme influenza esercitata dalla classe dirigente finanziaria nel sempre maggiore sfruttamento del lavoro è data dall’enorme disparità tra produttività e salario. Fra il 2000 e il 2005 l’economia statunitense è cresciuta del 12% e la produttività (misurata dall’output per ora lavorata nel settore commerciale) del 17%; nello stesso periodo i salari orari sono aumentati solo del 3%, mentre le entrate reali di una famiglia sono diminuite (FT, 2 novembre 2006, p.11). Secondo un sondaggio condotto nel novembre 2006, i tre quarti degli americani affermano di stare peggio o di non stare meglio rispetto a sei anni prima (FT, 3 novembre 2006, p.13).

L’impatto delle politiche della classe dirigente finanziaria sui settori della produzione e dei servizi trascende la scrematura dei profitti, la leva finanziaria del credito sulle operazioni commerciali e la gestione; concerne l’intera architettura delle entrate, degli investimenti e della struttura di classe. L’ampio squilibrio tra pagamenti annuali della classe dirigente finanziaria e salario medio dei lavoratori ha raggiunto livelli senza precedenti. L’elite finanziaria incassa, a seconda del modo ristretto o ampio di concepirla, tra 500 e 1.000 volte quello che guadagna un lavoratore medio.

I membri della classe dirigente finanziaria si sono resi conto di questo ampio e crescente squilibrio e hanno manifestato qualche preoccupazione sul possibile impatto sociale e politico. Secondo il Financial Times (21 dicembre 2006), il miliardario Stephen Schwartzman, CEO del gruppo d’investimento privato Blackstone, ha messo in guardia sul fatto che “la crescente frattura tra i munifici pacchetti remunerativi di Wall Street e i salari stagnanti della classe media americana rischiano di provocare una forte reazione negativa contro i ‘Nuovi ricchi’ statunitensi”. Hank Paulson, segretario al tesoro ed ex CEO della Goldman Sachs, ha ammesso che la stagnazione dei salari della classe media è un problema e che nonostante “la forte espansione economica, molti americani semplicemente non percepiscono (sic!) alcun beneficio” (FT, 2 novembre 2006, p. 11).

Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve Bank, ha testimoniato in Senato che “l’ineguaglianza è un potenziale pericolo per l’economia statunitense… nella misura in cui entrate e ricchezza si diffondono a parte. Penso che non sia una tendenza sana” (idem). Nel 2005 la proporzione di reddito nazionale nel PIL finito in profitti, rendite e altre fonti non salariali ha raggiunto il livello record del 43%. Lo squilibrio della distribuzione del reddito nazionale negli USA è il più grave tra tutti i paesi capitalisti industrializzati. Studi sulle serie temporali rivelano inoltre che, rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, negli USA la disuguaglianza è molto più grande e la mobilità sociale intergenerazionale molto più difficoltosa. La crescita di mostruose e rigide disuguaglianze di classe riflette la ridotta base sociale di un’economia dominata dal capitale finanziario, i suoi abnormi legami intergenerazionali, e gli esorbitanti costi di accesso alle migliori università private e ai corsi di economia postlaurea (50.000 dollari all’anno per iscrizione, vitto e alloggio). Cosa altrettanto importante, il capitale finanziario e i gruppi “associati” esercitano negli USA un potere politico molto più grande rispetto a qualsiasi altro paese europeo; il governo statunitense ridistribuisce quindi molto meno degli altri paesi nel campo delle tasse e dei servizi sociali, sanitari e dell’istruzione (idem).

Mentre alcuni dirigenti finanziari esprimono preoccupazione per una possibile “reazione negativa” da parte della sempre maggiore divisione di classe, non c’è invece nessuno favorevole a misure fiscali o di altro tipo. Vengono invece chiesti un sistema d’istruzione migliorato, possibilità di riqualificazione professionale e una maggiore mobilità geografica, anche se è proprio la classe media colta che soffre le conseguenze della stagnazione salariale.

Il partito democratico maggioritario al Congresso e l’esecutivo controllato dai repubblicani non formulano proposte per sfidare il predominio della classe dirigente finanziaria e non ci sono misure per capovolgere le sue politiche più retrograde che stanno creando crescenti squilibri, stagnazione salariale e una sempre maggiore rigidità della struttura di classe. I motivi vengono spiegati nel Wall Street Journal e nel Financial Times: la stragrande maggioranza dei fondi raccolti dai Democratici a livello nazionale per le campagne elettorali proviene dai finanzieri di Wall Street o dai dirigenti della Silicon Valley (FT, 3 novembre 2006, p. 13). La campagna democratica per il Congresso è stata strettamente controllata da due tra i democratici preferiti da Wall Street: il senatore Charles “Israele prima di tutto” Schumer e il congressista Rahm Immanuel, che hanno finanziato selettivamente i candidati favorevoli senza riserve alla guerra, a Wall Street e a Israele. I democratici sono in lizza per guidare comitati del Congresso strategici e Barney Frank ha già annunciato “buoni rapporti di lavoro” con Wall Street.

Chi governa è la classe dirigente finanziaria

Le classi dirigenti guidano l’economia, sono al vertice della struttura sociale e fissano i parametri e le regole nel cui contesto operano poi i politici. In effetti in linea generale pochi s’impegnano in prima persona nelle politiche congressuali, preferendo costruire imperi economici e incanalare fondi verso candidati pronti a seguire le loro direttive. Solo quando, specialmente all’interno dell’esecutivo, viene alla luce una frattura tra gl’interessi della classe dirigente e le politiche del regime, i più importanti membri della classe dirigente intervengono direttamente o occupano una posizione esecutiva per “rettificare” la politica.

Il potere politico della classe dirigente: Paulson mette le mani sul Tesoro

Nel corso del regime di Bush sono emerse varie serie divergenze tra capitale finanziario e responsabili politici, le cui politiche pregiudicavano, o minacciavano di danneggiare seriamente, importanti settori della classe dirigente finanziaria: 1) l’aggressiva posizione militarista e protezionista degli alti gradi del Pentagono e dei senatori “Sion-con” verso la Cina, 2) il veto politico del Congresso alla vendita della gestione dei porti statunitensi a una società posseduta da uno stato del Golfo e di una azienda petrolifera americana alla Cina, 3) il fallito tentativo del regime di Bush di privatizzare la sicurezza sociale e d’indebolire le misure normative introdotte dopo le numerose truffe perpetrate da gruppi (Enron e WorldCom) e a Wall Street, 4) la necessità di mettere sotto controllo la crescita smisurata del deficit fiscale provocato dalla guerra in Medio Oriente, il deficit commerciale in costante aumento e la caduta del dollaro.

I titoli della stampa economica (FT, 4 dicembre 2006, p.3) sottolineano a chiare lettere l’intervento diretto del capitale finanziario nelle politiche chiave della Casa Bianca:
“Goldman Sachs Top Alumni Wield Clout in White House”
e
“Former Bank Executives Hold Unprecedented Power within a US Administration”.

Da molto tempo le classi dirigenti finanziaria e manifatturiera degli USA influenzano, consigliano e formulano le linee politiche del presidente; visti gli interessi, i rischi e le opportunità attuali, hanno adesso deciso di occupare direttamente le cariche fondamentali nel governo. Quello che è veramente senza precedenti è la presenza predominante dei membri di una delle banche d’investimento, la Goldman Sachs (GS): il senior executive William Dudley ha assunto nel novembre 2006 il controllo della Federal Reserve Bank of New York markets, l’ex CEO Hank Paulson è segretario del Tesoro (esplicitamente consacrato da Bush come zar assoluto di tutte le politiche economiche), l’ex managing partner Reuben Jeffrey è il responsabile normativo dei contratti a termine su merci e dei contratti a premio, l’ex direttore esecutivo Joshua Bolten è capo dello staff della Casa Bianca (decide chi, quando e per quanto tempo vedrà Bush, in altre parole ne organizza l’agenda), l’ex vicepresidente Robert Steel è consigliere di Paulson per la finanza nazionale, l’ex direttore per la sicurezza globale Randall Fort è consigliere del segretario di Stato Rice. Anche il gruppo di lavoro sui mercati finanziari e la gestione delle crisi finanziarie è diretto da ex funzionari della GS. E durante il regime di Bush i banchieri che gestiscono il potere statale controlleranno anche le più grandi imprese di finanziamenti immobiliari (Fannie Mae e Freddie Mac), la politica fiscale, i mercati dell’energia: tutti settori che toccano direttamente le banche d’investimento. In altre parole, le norme che governano le attività delle banche d’investimento verranno “regolamentate” dai loro stessi dirigenti. Il livello di dominio assoluto del capitale finanziario sul potere politico è reso manifesto dalla totale mancanza di spirito critico dei partiti. Come ha sottolineato un quotidiano economico: “Né Bush né Goldman sono stati criticati dai Democratici per gestire troppe cariche chiave, in parte perché la banca d’investimento (GS) ha stretti legami anche con loro. Goldman è stato il più importante donatore singolo per i democratici in occasione di queste (2006) elezioni di metà periodo” (FT, 4 dicembre 2006)

Una delle prime decisioni di Paulson è stata quella di organizzare una delegazione ad alto livello da mandare in Cina e un gruppo di lavoro per dar vita a un “partenariato strategico”, con il compito di accelerare l’ “apertura” dei mercati finanziari cinesi alla penetrazione e alle offerte di acquisto dei fondi d’investimento statunitensi: si tratta di un pacchetto di opportunità con un valore potenziale di molti miliardi di dollari. Nel lanciare l’iniziativa, Paulson spera di tagliare le gambe ai neo-con anticinesi, ai militaristi del Pentagono e della Casa Bianca, oltre a stemperare le tendenze indipendentiste di Taiwan e i demagoghi sciovinisti del Congresso, come il senatore Schumer, che minacciano di sabotare le lucrative relazioni economiche Usa-Cina.

Per ridurre il deficit fiscale Paulson propone di “riformare” i diritti acquisiti: ridurre le spese per l’assistenza medica (Medicare e Medicaid) e lavorare con i democratici per privatizzare pezzo per pezzo la sicurezza sociale.

Ma il capitale finanziario non è riuscito a presentare una strategia economica coerente nel caso delle guerre di Washington in Medio Oriente: a causa della spinta della lobby sionista su molti tra i più noti punti di riferimento di Wall Street (inclusi i portavoce ufficiosi, il Wall Street Journal e il NY Times), Paulson non è stato in grado di formulare una strategia, e non ha preso nemmeno per un attimo in considerazione la proposta del rapporto del Baker Iraq Study Group di ridurre gradualmente le truppe, per timore d’inimicarsi qualche alto responsabile della Goldman Sachs, di Stern, della Lehman Brothers e tutti coloro che seguono la linea “Israele prima di tutto”. Paulson è dunque costretto ad aggirare la lobby concentrandosi sulle discussioni con le monarchie degli Stati del Golfo e con l’Arabia Saudita, per evitare una nuova disastrosa replica dell’affare del Dubai Port. Paulson vuole prima di ogni altra cosa evitare interferenze della politica sionista col flusso bilaterale del capitale finanziario tra il gruppo petrolio-finanza-banca degli Stati del Golfo e Wall Street, e desidera invece rendere più facile l’accesso del capitale finanziario statunitense ai grandi surplus di dollari nella regione. Non c’è da sorprendersi che il regime d’Israele abbia fatto lavorare i suoi ricchi e influenti registi di Wall Street facendo una distinzione tra Stati del Golfo “moderati” (con i quali dichiarano di avere interessi comuni) e “estremisti islamici”. Il primo ministro israeliano Olmert ha ordinato ai suoi zeloti della lobby di giudei nordamericani di tener conto dell’affinamento della linea di partito nelle discussioni sulle relazioni USA-Paesi arabi.

Nonostante tutto il potere politico che concentra nelle sue mani e l’enorme ricchezza e capacità di condizionamento sull’economia, Wall Street non può però controllare o evitare gravi punti deboli finanziari o potenziali eventi politico-militari catastrofici.

Il futuro delle classe dirigente finanziaria

Salta agli occhi che una delle maggiori minacce ai mercati mondiali (e alla prosperità della classe dirigente finanziaria) è la possibilità di un attacco militare israeliano contro l’Iran, che estenderebbe la guerra a tutta l’Asia e al mondo islamico, porterebbe i prezzi dell’energia al di là di ogni limite provato, causerebbe una grande recessione e probabilmente farebbe crollare i mercati finanziari. Ma come nel caso delle relazioni tra Israele e USA, la lobby sionista vuole colpire, e i suoi accoliti di Wall Street assentono. Nella situazione attuale, la lobby ebraica – che caldeggia un allargamento della guerra in Iraq e la devastazione di Palestina, Somalia e Afghanistan – ha neutralizzato gli sforzi concertati di tutti i grandi nomi del centro politico per modificare la politica della Casa Bianca: Baker, Carter e gli ex comandanti militari delle forze statunitensi in Iraq sono stati zittiti dagli ideologi sionisti, sotto la cui influenza la Casa Bianca sta mettendo in atto la strategia militare illustrata dall’Enterprise Institute (un gruppo di riflessione “americano” di conservatori sionisti). Parallelamente alla nomina da parte di Bush di Paulson e degli uomini di Wall Street per portare avanti la politica economica imperialista, l’istituto ha nominato un gruppo totalmente nuovo di civili, militari e uomini dei servizi segreti per allargare ed estendere le guerre mediorientali all’Africa (Somalia) e all’America latina (Venezuela).

Prima o poi tra Wall Street e militaristi si creerà una frattura, provocata dai costi supplementari di un allargamento delle guerre, dal continuo lievitare del debito, dall’enorme squilibrio dei pagamenti e dal minore afflusso di capitali, man mano che le multinazionali recuperano i profitti e le banche centrali estere diversificano le loro riserve in valuta estera. Se e quando la crisi economica e politica scoppierà, la classe dirigente finanziaria avrà scarsa credibilità politica a causa degli enormi e crescenti squilibri e della massiccia concentrazione di ricchezza e capitale in un’epoca in cui per la grande maggioranza dei cittadini il livello di vita diminuisce e le entrate stagnano.

Nel 2006 gl’investitori stranieri possedevano il 47% di tutte le obbligazioni del Tesoro americano negoziabili (rispetto al 33% nel 2001) e oltre il 30% del debito societario del paese (rispetto al 23% di cinque anni orsono): una cessione in tempi brevi destabilizzerebbe completamente i mercati finanziari e il sistema economico statunitense, e di conseguenza l’economia mondiale. Se il militarismo Usa-sionisti continua nella sua infernale avanzata, creando le condizioni di una più ampia e prolungata guerra, non è da escludere una svendita in tempi brevi del dollaro, con conseguenze catastrofiche.

Il paradosso è che alcuni dei più ricchi e potenti beneficiari del predominio del capitale finanziario sono gli stessi che stanno finanziando la propria autodistruzione. Mentre una finanza a basso costo favorisce operazioni di fusioni, acquisizioni, commissioni e bonus per i dirigenti per vari miliardi di dollari, un accresciuto militarismo incide su un bilancio caratterizzato da riduzioni fiscali, esenzioni ed evasioni per la classe dirigente finanziaria e da una sempre maggiore pressione sui sovraccaricati salari e stipendi delle altre classi. Qualcosa deve incrinare la coabitazione tra i finanzieri della classe dirigente e i politici militaristi, che si stanno muovendo in direzioni opposte: gli uni investono capitali all’estero e gli altri spendono fondi ottenuti in prestito in patria. Per il momento non vi sono segni di scontri seri ai massimi livelli, e nella classe media e operaia non vi sono segnali di rottura politica con i due partiti di Wall Street o di sfida al controllo totale del Congresso da parte dei militaristi-sionisti. Probabilmente sarebbe una catastrofe, come un attacco nucleare spalleggiato dalla Casa Bianca all’Iran, a far esplodere il tipo di crisi che potrebbe provocare una profonda e diffusa opposizione a tutte le operazioni militari, finanziarie ed elaborate in Israele.

James Petras, ex professore di sociologia alla Binghamton University di New York, milita da 50 anni nella lotta di classe e assiste i senzaterra e i disoccupati in Brasile e Argentina. È coautore di “Globalization Unmasked” (Zed Books). Il suo ultimo libro è “The Power of Israel in the United States” (Clarity Press, 2006). Può essere contattato all’indirizzo: [email protected].

James Petras
Fonte: http://informationclearinghouse.info
Link: http://informationclearinghouse.info/article16140.htm
11.01.2007

Tradotto per www.comedonchisciotte.org da CARLO PAPPALARDO

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