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DI JOAQUIM SEMPERE
blogs.publico.es/

Si dice che la pressione fiscale sulle grandi fortune non si puó incrementare per non disincentivare gli investimenti e l’iniziativa privata e perché i capitali fuggirebbero in altri paesi con fiscalitá meno forti (fuga che é effettivamente avvenuta dalla Grecia ultimamente). Si ripete con la stessa insistenza che la accumulazione di capitale é una condizione necessaria per l’attivitá economica e il benessere generale. Questi stereotipi fanno parte delle convinzioni piú solide di chi prende le grandi decisioni economiche e politiche e finiscono per essere assunte dall’opinione pubblica. Ma sono un inganno.

Vediamo cosa é successo con le imposte ai ricchi nel paese piú liberale e individualista dell’occidente: gli USA. Negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, la pressione fiscale sui guadagni piú alti passó dal 25% al 63% nel 1932, come mezzo per combattere la Gran Depressione. Da allora al 1981, cioé per 50 anni, si é mantenuta sempre oltre il 63%, arrivando al picco del 94% nel 1944, come contributo allo sforzo della guerra, e oscillando dal 82% al 91% nei venti anni dalla fine della guerra al 1963. Da Reagan in poi, non fece che diminuire, fino ad arrivare al 35% nel 2009.

Quella lunga esperienza di cinque decenni mostra che la classe capitalista, anche quella piú potente degli USA, puó accettare una pressione fiscale molto alta e che imposte cosí alte sono compatibili con la crescita economica. Nei 50 anni in cui la pressione fiscale negli USA si mantenne oltre, o molto oltre il 50% a carico della parte piú ricca, furono anni di massima prosperitá per quel paese. Quelle tasse potevano servire per migliorare lo stato sociale e i servizi pubblici a beneficio dei piú poveri, se i bilanci delle guerre non avessero fatto la parte del leone nel mangiarsele. Peró quello che ci interessa qui é provare che in 50 lunghi anni la classe capitalista della prima potenza del mondo accettó una pressione fiscale che ora molti dicono del tutto proibitiva e insensata.
La percentuale massima per la IRPEF in Spagna fu posta al 43% nel 2008, quella per le societá (IRPEG) al 30%, cinque punti in meno rispetto alle percentuali del 2000 e non c’è nessun segnale di volerli aumentare.

Un altro stereotipo é che le differenze sulle varie fiscalitá aumentano la fuga di capitali in paesi con minore pressione. Peró questo succede da quando si eliminó il controllo sui cambi e si installó una libertá totale di circolazione dei capitali. Limitiamo o eliminiamo questa libertá e scomparirá la minaccia di fuga di capitali. Non é una fantasia e non é impossibile: é qualcosa che é giá successo e neanche tanto tempo fa. Basta guardare agli anni anteriori alla controrivoluzione neoliberale degli anni settanta. Un giorno si dovrá avere il coraggio di tornare a certe regolamentazioni.

Il terzo mito é che basta con lasciare che si accumulino benefici senza limiti perché l’economia funzioni e tutti ci guadagniamo (la teoria del Trickle Down Economic della scuola di Chicago). Cosí si giustifica la libertá che si concede ai capitali di uscire dall’economia di un paese e delocalizzare, al prezzo della deindustrializzazione di regioni intere e la condanna di migliaia di persone alla disoccupazione (sulla base della sacra libertá del capitale di accumularsi) mentre la realtá e che nel mondo c’è un’enorme incremento di liquiditá. La sovraccumulazione é proprio la causa della speculazione: sulle monete, sul debito dei paesi, sugli immobili, sul petrolio, gli alimenti… Si cercano rendimenti altissimi che non si trovano nell’economia produttiva. Viviamo in un sistema malato che sacrifica tutto all’accumulazione di denaro che non solo é inutile ma dannosa.

Questi tre miti fanno parte dello stesso insieme, che si dovrebbe abbordare con misure combinate come: forti gravami fiscali sulle grandi fortune; armonizzazione delle imposte nell’intera UE; limiti ristretti sulla circolazione di capitali; eliminazione dei paradisi fiscali; armonizzazione verso l’alto dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali nella UE. Il denaro che va alle classi popolari genera una domanda di beni e servizi che é la base di una economía sana, mentre quello che finisce nei portafogli dei ricchi alimenta solo il potenziale speculativo. Alcuni settori popolari si lasciano abbindolare dai fondi di investimento e dalle pensioni integrative solo quando li si minaccia con il fallimento dello Stato Sociale, cosí hanno ingannato gli spagnoli e molti europei negli ultimi 15 anni. Il sistema fa gesti demagogici, come la richiesta al FMI da parte del Consiglio D’Europa (11/12/2009) di una tassa Tobin per le transazioni finanziare speculative per raccogliere un po’ di soldi. Ma sono solo gesti che danno ragione a chi pensa che sono misure che gli convengono, perché si potrebbe fare molto piú di quello. L’aumento delle tasse ha iniziato ad essere nell’agenda europea giá dall’ultima estate, favorita da paesi come Svezia e Finlandia, con una lunga tradizione di alta pressione fiscale coniugata a prosperitá e buoni servizi pubblici.

Nel nostro paese, il dibattito sulle pensioni e sulla sostenibilitá dello Stato Sociale non puó e non deve lasciare questi temi al margine. Centrare le riforme sul mercato del lavoro o sull’aumento dell’etá pensionabile é una nuova aggressione contro i i diritti da parte della oligarchia internazionale del denaro e dei suoi seguaci.

Joaquim Sempere (Professore di Teoria Sociologica e Sociologia dell’Ambiente dell’Universitá di Barcelona)
Fonte: http://blogs.publico.es/
Link: http://blogs.publico.es/dominiopublico/1889/que-paguen-los-ricos/
12.03.2010

Scelto e tradotto da RICCARDO per www.comedonchisciotte.org

Illustrazione di Enric Jardí

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